A Monte Sole, dove la strage nazifascista di Marzabotto cancellò centinaia di vite - La Stampa

Tra i campi di fave, una strada conduce sul Monte Sole. I prati ripidi sulle colline si alternano ai calanchi appenninici. I fiori disegnano mosaici con i loro colori. La strada in salita giunge a un incrocio con un monumento: «I loro nomi sono nel libro della vita». 771 nomi. Ma forse ancora di più, se si considerano gli innumerevoli episodi di violenza nazista e fascista in quella terra.
Poco lontano dal monumento c’è un cimitero, il cimitero di San Martino, dove trovarono sepoltura i morti dell’omonima borgata, fatti uscire dalle SS dalla chiesa e mitragliati, il 30 settembre 1944. Ora della chiesa di San Martino non rimangono che le fondamenta. Per entrare nel cimitero, circondato da un muro, si passa da un cancello che oramai è difficile da aprire: lapidi sbiadite e croci ricordano i caduti. Tra di loro, don Giovanni Fornasini, massacrato il 13 ottobre 1944. Il corpo, decapitato, fu ritrovato dal fratello il 22 aprile 1945.
I martiri di Marzabotto non sono solo lì, sono nelle innumerevoli borgate circondate dai boschi.
L’intento dei nazisti era chiaro: fare «terra bruciata» lungo la Linea Gotica. Una vera e propria «guerra ai civili», con l’obiettivo di controllare l’area del fronte. Già nell’estate sanguinosi rastrellamenti e stragi — come quella di Sant’Anna di Stazzema —, avevano provocato, lungo la Linea Gotica tirrenica, oltre 1500 vittime. Il feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante supremo delle truppe tedesche in Italia, aveva infatti emanato, già il 7 aprile 1944, ordini chiari alle sue truppe: «Il primo comandamento è l'azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto i comandanti deboli e indecisi, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca […] La lotta contro i partigiani deve essere combattuta con tutti i mezzi a nostra disposizione e con la massima severità. Io proteggerò quei comandanti che dovessero eccedere nei loro metodi di lotta ai partigiani». Alla fine di luglio 1944 Kesserling ordinò di impiccare i partigiani nelle piazze pubbliche, passare per le armi ostaggi inermi, incendiare case, applicare punizioni collettive a interi villaggi.
La 16esima SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer SS” si distinse più delle altre nell’eseguire questi ordini. Lo fece a Sant’Anna di Stazzema, a Vinca, a San Terenzo Monti, alla Certosa di Farneta, alle Fosse del Frigido e a Bergiola Foscalina. Ma fu proprio nella zona di Monte Sole che la “Reichsführer SS” mise in atto il più grave massacro nazista in tutta l’Europa occidentale. «Si trattava di una zona montuosa tra le valli dei fiumi Reno e Setta, ricompresa nei comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana, che si trovava praticamente sul fronte di guerra: le avanguardie alleate, sfondati i capisaldi della Gotica, erano a pochi chilometri e premevano nella speranza di raggiungere Bologna prima dell’inverno», scrivono gli storici Chiara Donati e Maurizio Fiorillo.
Il rastrellamento intendeva annientare la brigata partigiana “Stella Rossa”, guidata da Mario Musolesi “Lupo”, una formazione composta in prevalenza da partigiani locali che rappresentava una minaccia per la tenuta del fronte. A Monte Sole, il 29 settembre 1944, almeno mille militari tedeschi, divisi in quattro plotoni, comandati dal maggiore Walter Reder e guidati da fascisti locali, circondarono la montagna. Chiunque si trovasse sul loro passaggio fu ucciso. Le vittime furono sterminate in 115 luoghi diversi. La violenza praticata fu atroce, con anziani decapitati, donne stuprate e poi uccise, bambini gettati vivi tra le fiamme. Tanti corpi rimasero insepolti.
Oltre a San Martino, anche a Casaglia i fatti che si svolsero assursero a simbolo dell'intera strage. Durante i rastrellamenti nazifascisti la popolazione del circondario si era assiepata nella Chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. I soldati irruppero intimando a tutti di uscire, uccidendo il sacerdote, Ubaldo Marchioni, una ragazza disabile e alcuni anziani che intralciavano o rallentavano le operazioni. Sgomberati dalla chiesa, gli oltre cento civili furono condotti nel limitrofo cimitero e uccisi dalle raffiche di una mitragliatrice che era stata collocata all'ingresso. Alcuni soldati lanciarono anche delle bombe a mano nel mucchio. Anche Caprara, Cerpiano, Pioppe di Salvaro, Canovetta, San Giovanni e Casoncello, Creda, Cadotto, Casone e Riomoneta furono coinvolte dalla furia nazista. I massacri andarono avanti fino al 5 ottobre 1944. Altre distruzioni si ebbero con l’avanzamento del fronte, fino all’aprile del 1945.
Nel centro di Marzabotto un sacrario ricorda i caduti e, con essi, le stragi della contemporaneità in Europa. Si ricorda Lidice, il sobborgo alla periferia di Praga, cancellato dalle carte geografiche nel giugno 1942, per vendicare l’uccisione del generale delle SS Reinhard Heydrich. Si ricorda Srebrenica, dove oltre 8mila ragazzi e uomini bosgnacchi furono uccisi, nell’estate del 1995, dall'Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidato dal generale Ratko Mladić. Si ricordano città sorelle nella storia.
Oggi, il 25 aprile, questi luoghi premono per non essere mai dimenticati. E, con loro, le innumerevoli località in cui si moriva ancora, mentre altrove si festeggiava la liberazione. Pedescala, nel vicentino, dove tra il 30 aprile e il 2 maggio 1945 82 persone furono uccise dai tedeschi in ritirata in seguito al rapimento, da parte dei partigiani, di quattro agenti del servizio segreto BdS-SD nazista. Castello di Godego, nel trevigiano, località in cui 136 ostaggi furono trucidati da una colonna germanica in rotta. Ogni luogo, in cui le lapidi ricordano nella quiete del tempo, perché non si dimentichi che, dove oggi c’è silenzio, un giorno c’era la vita.

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