8. Ontologia e teologia rivelata: la ragione ai limiti della trascendenza cristiana
p. 181-204
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Texte intégral
1. Quale precomprensione per la teologia rivelata?
1Dopo aver trattato del rapporto tra ontologia e teologia razionale (nei tre aspetti di teologia trascendentale, teologia naturale e teologia morale), ci rimane da trattare del rapporto tra ontologia e teologia rivelata. A ben vedere, in Kant il problema di questo rapporto appare mediato da quello, che occupa indubbiamente il primo posto, del rapporto tra teologia morale e teologia rivelata. L’esame della teologia rivelata cristiana, che Kant intraprende nell’opera La religione nei limiti della semplice ragione, del 1793238, è svolto infatti soprattutto alla luce dei risultati ottenuti nel campo della ragion pratica, e cioè:
- l’autonomia della ragion pratica, dato che libertà e imperativo etico si impongono di per sé stessi, senza alcun previo riferimento alla teologia cioè ad eventuali comandi e garanzie divini;
- la speciale fondazione della religione naturale quale speranza della vita morale. Come si è visto, sono infatti le esigenze della vita morale che impongono di ammettere, per fede razionale, l’esistenza di Dio e della vita futura, aprendo così sia alla teologia morale (con la sua caratteristica connotazione «etica» di Dio come summum bonum), sia alla religione. Questa, più ancora che come «conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini» – quale pure è definita da Kant, aggiungendo però che il contenuto di tali comandamenti coincide con «le leggi essenziali di ogni volontà libera per se stessa» (pra 159; ak v 129) – va infatti intesa come «speranza di partecipare un giorno alla felicità nella misura che avremo procurato di non esserne indegni» (pra l60; ak v 130)239.
2Più che di una «pre-comprensione» ontologico-razionale, in Kant si deve quindi parlare, se mai, anzitutto di una pre-comprensione etico-razionale della teologia rivelata. Nessuna teologia rivelata potrebbe infatti, per Kant, contraddire i contenuti e le esigenze essenziali della ragion pratica, e quindi i contenuti e le esigenze essenziali della teologia morale razionale che ne deriva. Donde l’impegno con cui Kant, in La religione, cerca di offrire un’«interpretazione etico-razionale» del cristianesimo, nel senso in cui diremo.
3Indirettamente, però, dato che la teologia morale per un verso implica la teologia trascendentale o ontoteologia, e per altro verso ne è criticamente giudicata, nella pre-comprensione etica della teologia rivelata rientra anche la pre-comprensione onto-teologica. Non solo la teologia morale, ma anche qualsiasi teologia rivelata deve infatti fare i conti, pena il cadere nelle assurdità della superstizione e del fanatismo, con l’ideale della ragione elaborato dall’ontoteologia.
4Ma forse il punto più interessante, per il nostro discorso, è un altro. Nell’esame del rapporto tra teologia morale e teologia rivelata, Kant mette in opera un modulo di rapporto che è stato elaborato proprio da quella «metafisica critica» che egli è venuto elaborando nella Critica della ragion pura e nei Prolegomeni. La pre-comprensione con cui Kant affronta il tema della teologia rivelata cristiana, cui è essenziale una trascendenza soprannaturale sia rispetto al piano ontologico-me- tafisico sia rispetto al piano etico-razionale, sembra infatti costituita, in modo determinante, proprio da quello stesso modulo di «metafisica come scienza sul limite», che è stato precedentemente elaborato. La ragione, cioè, sarebbe in grado, sia pure per via etica, di aprire alla teologia rivelata cristiana quello spazio di ulteriorità-differenza soprannaturale di cui essa necessita, proprio perché è capace di giungere fino alla determinazione positiva dei «limiti» della ragione per quanto riguarda il campo del pratico; così com’era in grado di aprire lo spazio alla teologia morale, proprio perché capace di raggiungere i limiti della ragione speculativa per quanto riguarda il campo del sapere scientifico dell’oggettività fenomenica.
5Oltre (1) all’ulteriorità noumenica, che fa posto agli oggetti trascendentali della ragione, e oltre (2) all’ulteriorità della speranza etica, che fa posto ai postulati della ragion pratica, vi sarebbe quindi in Kant anche (3) l’ulteriorità dei «parerga» della religione naturale, che fa posto ad una possibile religione rivelata. Ma come nei due primi casi la ragione, pur istallandosi sul «limite» dell’altro da sé, non era in grado di determinare conoscitivamente in sé stesso ciò di cui pur apriva lo spazio di trascendenza-differenza, così nel terzo caso la ragione non sarà in grado di determinare conoscitivamente alcunché del «campo del soprannaturale» cristiano con cui pur giunge a confinare. Come nei casi precedenti, essa sarà però in grado di determinare in modo simbolico qualcosa del rapporto di tale campo soprannaturale con l’ambito della religione nei limiti della semplice ragione; oltre che di fare opera di verifica critica perché nulla di «contrario» alla ragione sia offerto alla ragione, con la scusa che esso «trascende» la ragione.
2. L’impostazione metodologica dell’opera La religione nei limiti della semplice ragione
6Il modulo critico della «ragione ai limiti/confini» della trascendenza non solo permette di ritrovare in radice una profonda unitarietà di impostazione nell’opera matura di Kant, ma risulta particolarmente fruttuoso anche per un’interpretazione globale dell’opera La religione. Altrove abbiamo già offerto un’ampia analisi sia dell’impostazione metodologica sia dello svolgimento effettivo di quest’opera240. Qui ci limiteremo ad offrire alcune indicazioni di fondo circa il suo impianto metodologico, sufficienti a documentare come in quest’opera si completi la riflessione kantiana sulla teologia anche dal punto di vista, da noi scelto in questo lavoro, del suo rapporto con l’ontologia.
7Una prima indicazione consiste nel ricordare il posto che quest’opera occupa all’interno dello svolgimento del pensiero kantiano. La critica moderna241 ha ormai chiaramente superato l’interpretazione che vedeva in quest’opera una pura e semplice applicazione al campo della religione dei risultati, di tipo trascendentale, delle tre precedenti Critiche. Applicazione che avrebbe portato ad una completa razionalizzazione del cristianesimo, dedotto in tutto e per tutto in base alla semplice ragione. I critici hanno infatti evidenziato i seguenti punti.
- L’intenzione di Kant nello scrivere quest’opera242 non era di procedere deducendo la religione a partire «dalla sola ragione» (aus der blossen Vernunft), indipendentemente da ogni rivelazione storica, bensì di esaminare quanto nella religione cristiana rivelata poteva essere riconosciuto «anche mediante la sola ragione» (auch durch blosse Vernunft). Donde la famosa immagine – contenuta nella Prefazione alla seconda edizione dell’opera243 – dei due cerchi (o sfere) concentrici, nel più piccolo dei quali, rappresentante i «limiti» (Grenze) della ragione, far rientrare quanto di razionale è presente nel cristianesimo.
- Di fatto tale intenzione, espressa nel titolo dell’opera, non rispecchia che una parte dell’impianto dell’opera stessa. Questa infatti non solo procede secondo il movimento centripeto, che cerca di riportare nel cerchio più piccolo, quello della semplice ragione, il contenuto razionale della religione cristiana rivelata; ma anche secondo un movimento centrifugo, che a partire dai problemi o dalle antinomie che si ritrovano all’interno dei limiti della ragione, si muove verso ciò che si situa «oltre la ragione», in quel campo del soprannaturale cui fa riferimento la religione rivelata.
- Di conseguenza, l’opera si differenzia dalle tre Critiche soprattutto perché tratta della religione non come oggetto suggellato dall’universalità propria della struttura trascendentale della ragione, bensì come «fenomeno storico-positivo», da interpretare nel suo significato per la ragione, anche se si pone oltre i confini della ragione, come «altro dalla ragione». Come giustamente ha sottolineato recentemente Ricoeur244, quest’opera costituisce quindi una vera e propria «ermeneutica filosofica» della religione come fatto storico positivo, in particolare un’«ermeneutica filosofica del cristianesimo».
8Ove il termine di «ermeneutica filosofica» – aggiungiamo noi – va inteso non solo come una lettura filosofica a senso unico, ovvero come interpretazione del fatto storico positivo in termini razionali, bensì anche nel senso contrario, come interpretazione illuminante della situazione storica in cui si trova la ragione umana, fatta alla luce dei simboli religiosi storico-positivi. La cosa, come vedremo, emerge in modo del tutto particolare nella trattazione del tema del «male radicale», che Kant svolge nella prima parte dell’opera. Prima di affrontare tale trattazione, può essere però opportuno ricordare i principali criteri dell’ermeneutica filosofica kantiana del cristianesimo, tra cui campeggiano in generale i criteri strettamente razionali, e in particolare i criteri etico-razionali.
9Il criterio ermeneutico più generale, chiaramente formulato in Il conflitto delle facoltà (1798), è il seguente:
In temi concernenti la religione la ragione è la suprema interprete della Scrittura (cf 50; ak vii 41).
10Poiché però, com’egli ugualmente sostiene in tale opera quale risultato della Critica della ragion pratica, «nella religione ciò’che conta è solo il fare» (cf 51; ak vii 41), la religione storico-positiva andrà interpretata soprattutto alla luce della ragion pratica, ovvero evidenziando non la portata teoretica dei suoi insegnamenti, bensì la loro funzionalità etica, e mettendola a confronto con le esigenze della legge morale universale. La religione, come sappiamo, non si distingue infatti dalla morale quanto al contenuto, ma solo quanto alla forma, implicando cioè anche l’idea di Dio legislatore, raggiunto peraltro anch’essa in funzione dell’etica. Donde i principi più specifici, di ordine etico-razionale, che Kant, sempre nell’opera Il conflitto delle facoltà, ricorderà essere alla base del suo programma d’interpretazione filosofica dei contenuti dottrinali o cultuali della Scrittura. Il primo di tali principi è formulato in questo modo:
Quei luoghi della Scrittura che contengono delle dottrine teoretiche dichiarate sacre, ma che oltrepassano ogni concetto della ragione, compresi quelli morali, possono (dürfen) essere interpretati a vantaggio della ragion pratica; ma quelli che contengono proposizioni che la contraddicono, lo debbono (müssen) (cf 46; ak vii 38).
11Si noti la differenza tra i due casi presi in considerazione: le dottrine che «oltrepassano» la ragione e quelle che la «contraddicono». Le prime hanno una loro plausibilità, dato che la ragione stessa apre al campo di ciò che la oltrepassa; ma non possono essere fatte proprie dalla ragione, ovvero riportate entro i suoi limiti, se non in quanto interpretate eticamente. Le seconde, invece, contraddicendo la ragione, non possono essere vere; per cui debbono essere interpretate eticamente, pena il loro completo non senso. Donde il diverso compito critico che la ragione assume nei due casi.
12In base a questo principio, Kant sosterrà, ad esempio, che la dottrina della «Trinità» può essere fruttuosamente interpretata in funzione pratica, come espressione del rapporto morale di Dio verso l’uomo, qual è indicato dai tre attributi etici della santità, della bontà e della giustizia; infatti, se intesa teoreticamente, cioè come affermazione riguardante Dio in se stesso, tale dottrina non solo è incomprensibile ma non ha alcuna portata pratico-razionale. Viceversa, una dottrina come quella della «Predestinazione», «inconciliabile con la dottrina della libertà, della responsabilità delle proprie azioni e quindi con tutta la morale» (cf 50; ak vii 41), deve essere intesa in altro modo, a vantaggio della ragion pratica; ossia come espressione dell’incertezza del comportamento libero futuro dell’uomo, che Dio solo può conoscere. Del resto, nota Kant, in modo analogo si comportano da tempo gli esegeti quando le credenze bibliche contrastano con i principi della ragione in campo fisico.
13Sulla base di questo e di analoghi criteri, Kant si mostra convinto che anche gli elementi storico-sensibili presenti nella Scrittura (ad esempio il racconto dell’Incarnazione, della Resurrezione, dell’Ascensione) possano essere interpretati come «veicolo» di contenuti etico-razionali universalmente validi. Ma un ultimo principio, riguardante il problema del peccato e della giustificazione – problema che sta indubbiamente al centro dell’opera La religione – sembra aprire quella prospettiva di ulteriorità rispetto alla ragione di cui si diceva. Kant lo formula in questi termini:
Quando il proprio agire non basta a giustificare l’uomo davanti alla propria coscienza (giudicante severamente), allora la ragione è autorizzata, in ogni caso, ad ammettere, per fede, un completamento soprannaturale della sua deficiente giustizia (anche se non può stabilire in che cosa consista). Questa autorizzazione è per se stessa chiara; poiché ciò che l’uomo, secondo la sua destinazione, deve essere (conforme cioè alla legge santa), bisogna che possa anche diventarlo, e se questo non gli è possibile naturalmente, mediante le proprie forze, allora gli è permesso di sperare che ciò avvenga mediante qualche esterna collaborazione divina (di qualsiasi tipo essa sia) (cf 53-54; ak vii 43-44, cc. nn.).
14Il principio ricalca il modulo che già abbiamo trovato nel Canone e nella Critica della ragion pratica: poiché al dovere sempre corrisponde un potere, se questo potere non rientra nei limiti effettivi delle nostre possibilità, è lecito ammettere, per fede, che a tali limiti verrà prestato soccorso da un intervento «trascendente». Ma mentre nella trattazione del Canone e della seconda Critica tale intervento trascendente rientrava in una prospettiva di «fede razionale», perché scaturente da una situazione naturale dell’uomo, in La religione si ha una significativa variazione del modulo, dato che la situazione di partenza – come vedremo – è una situazione «storica», costituita dal «male radicale» che limita in modo razionalmente incomprensibile la libertà umana. Donde anche la diversità di terminologia usata da Kant: non più «postulati», ma «parerga», non più «fede razionale», ma «fede riflettente»; non un generico intervento di Dio, ma un «completamento soprannaturale», di cui la Scrittura ci parla in formule simboliche. La trattazione del «male radicale», con cui inizia e attorno a cui ruota tutta l’opera La religione, è l’esempio più significativo di questa speciale «ermeneutica filosofica» del cristianesimo, ove è dato di ritrovare in forma nuova il modulo della «ragione ai limiti/confini della trascendenza» di cui abbiamo detto.
3. Il problema del «male radicale» e della giustificazione
15Fin dalle prime battute di La religione, Kant esprime la convinzione che il problema che si accinge ad affrontare è un problema quanto mai difficile per la ragione. Pur seriamente intenzionato a far rientrare nei limiti della semplice ragione il contenuto del discorso biblico, egli ben avverte lo scacco di tale impresa, dati i troppi elementi che rimangono impenetrabili per la ragione. Difficoltà e antinomie si presentano infatti in ognuna delle quattro tappe che egli segue nella trattazione: 1) esistenza, 2) natura, 3) origine, 4) superamento del male radicale.
- Quanto all’esistenza di un’«universale tendenza al male» inerente alla volontà umana, Kant si dice convinto che essa sia testimoniata dalla più generale esperienza umana. Ma al contempo deve ammettere la problematicità di tale esperienza. L’universale tendenza al male come caratteristica della volontà umana non può infatti né essere constatata empiricamente, dato che si situa a livello noumenico di «atto intelligibile», né essere dedotta a priori dal concetto di uomo, altrimenti sarebbe una situazione necessaria, non imputabile in alcun modo alla libertà umana e non giudicabile moralmente. La convinzione saldissima di Kant quanto all’esistenza di tale tendenza universale al male sembra dunque radicarsi, in ultima analisi, proprio nella fede cristiana. Non per nulla egli cita più volte, in questo contesto, San Paolo: «In Adamo tutti abbiamo peccato» (Rom. 5, 12). Una fede che, in questo caso, sembrerebbe in grado di illuminare proprio quella generale esperienza di malvagità umana che altrimenti resterebbe inspiegabile.
- Quanto alla natura di tale tendenza al male, la sua problematicità razionale non è meno grave di quella dell’esistenza. Kant esclude sia l’interpretazione teologica che identifica il peccato originale (come realtà caratterizzante ogni uomo) con l’inclinazione naturale della sensibilità (o concupiscenza), perché non si tratterebbe più di un male morale imputabile; sia quella che ipotizza una completa corruzione della stessa ragion pratica, dato che in questo caso non solo verrebbe a mancare la libertà umana, ma l’uomo si trasformerebbe in un essere diabolico. Ma si trova inevitabilmente di fronte al problema di come comporre la «duplice esigenza»: mantenere alla tendenza al male la sua caratteristica di atto libero, in quanto realtà storica contingente, e riconoscerle la caratteristica di tendenza innata o naturale, nel senso di caratteristica universale che antecede ogni uso della libertà dato nell’esperienza.
La soluzione che Kant prospetta è quella di interpretare la natura di tale tendenza al male come «pervertimento» dello stesso «fondamento soggettivo» dell’uso della libertà; pervertimento che consiste nell’elevare a massima suprema del proprio agire la disponibilità a subordinare, all’occorrenza, il motivo della pura obbedienza alla legge ad altri motivi, ovvero agli interessi delle proprie inclinazioni sensibili. Poiché tale pervertimento (che capovolge l’ordine dei motivi) viene accolto liberamente nel nostro libero arbitrio, la tendenza malvagia che ne segue può essere detta «atto» nostro (peccato originario). Ma poiché esso corrompe alla radice il fondamento di ogni nostro agire morale – e in tal senso viene detto da Kant «male radicale»245 – si può comprendere com’essa preceda ogni nostro atto malvagio (nel senso di peccato derivato), e quindi possa essere detta naturale o innata. La soluzione è certo geniale, ma non fa che rendere ancora più acuto il problema dell’origine ultima del male radicale, diffusosi in ogni uomo. - Affrontando il problema dell’origine del male radicale, Kant scarta anzitutto la soluzione tradizionale di un’origine «per eredità» dal peccato dei nostri progenitori; essa cozza infatti con il principio etico della responsabilità morale individuale. Ma le uniche due soluzioni che gli si affacciano come ipotizzabili: l’origine «temporale» e quella «razionale», si mostrano altamente problematiche. L’origine «temporale», rappresentata nel racconto biblico della caduta di Adamo ed Eva, contraddice la concezione della natura del male radicale sopra individuata, che lo situa a livello del fondamento noumenico-sovra- sensibile dell’uso della libertà, ove non si dà successione temporale. E tuttavia il rimando alla storia, implicato nel racconto biblico, non può essere liquidato facilmente, dato che non possiamo rappresentarci la contingenza se non in riferimento al tempo.
Noi non dobbiamo cercare alcuna origine temporale ad una disposizione morale che ci deve essere imputata, per quanto inevitabile sia tale ricerca se vogliamo spiegarcene l’esistenza contingente. E per questa ragione, forse, anche la Bibbia ha rappresentato tale esistenza contingente in una maniera adatta alla nostra debolezza (re 32-33; ak vi 43).
16Quanto all’origine «razionale», ovvero risalente a principi che regolano la stessa libertà etica dell’uomo, essa resta avvolta nella più totale «incomprensibilità».
Per noi non c’è alcun fondamento comprensibile dal quale il male morale possa per la prima volta essere venuto in noi (re 33; ak vi 43).
17La libera adozione di una massima suprema pervertita dovrebbe infatti già presupporre la previa assunzione della massima pervertita, con un conseguente processo all’infinito che nulla spiega in campo noumenico; oppure presupporre che la disposizione originaria dell’uomo non sia la disposizione al bene, eliminando così la stessa razionalità e libertà umana, che per Kant consiste proprio in tale originaria disposizione al bene. L’incomprensibilità razionale dell’origine del male radicale mette così in scacco la ragione, rinviando oltre i suoi confini. Uno scacco che la Bibbia sembra aver saputo esprimere ricorrendo, nel suo racconto, allo «spirito tentatore». Un modo, secondo Kant, sia per sottolineare l’incomprensibilità dell’origine del male radicale, sia per mantenere aperta la speranza di un ritorno al bene, dato che l’uomo non è identificato con lo spirito stesso del male e quindi conserva una volontà capace di senso morale e di libertà.
- 4. Al problema del «superamento» del male radicale, Kant dedica tutto il corso successivo dell’opera, trattando i temi teologici classici della salvezza: conversione, grazia, giustificazione, sacramenti, chiesa. Ogni volta la ragione è come portata ai limiti di ciò che riesce a comprendere, aprendo così, almeno problematicamente, lo spazio di ciò che la sorpassa e che potrebbe essere l’ambito proprio della religione storico-rivelata. Il problema del superamento del male nasce dal fatto che per un verso, nonostante la situazione di perversione della capacità stessa di agire moralmente (= del «fondamento soggettivo dell’uso della libertà»), il comando etico della santità rimane e quindi la possibilità della conversione non può essere messa in dubbio, data l’infrangibile connessione etica tra dovere e potere. Ma per altro verso, come già per la caduta, anche per la conversione rimane del tutto incomprensibile «come» essa sia possibile. Infatti, osserva Kant:
Com’è possibile che un uomo naturalmente cattivo si faccia buono? Ciò oltrepassa tutte le nostre idee; giacché come può un albero cattivo produrre frutti buoni? (re 35; ak vi 44).
18L’incomprensibilità si aggrava se si pensa che – secondo Kant – la conversione dev’essere «istantanea», comportando una «rivoluzione» nella stessa intenzione etica fondamentale dell’uomo. Donde l’efficacia dei termini biblici con cui se ne parla: «rinascita», «nuova creazione», «cambiamento del cuore».
Se l’uomo è corrotto nel fondamento delle sue massime, come può egli compiere questa rivoluzione con le sue proprie forze e ridiventare da se stesso un uomo buono? (re 39; ak vi 47).
19Questi interrogativi circa la possibilità dell’uomo di risorgere dal male con le proprie forze, non diminuiscono in nulla l’obbligo dell’uomo di impegnarsi in prima persona con tutto se stesso per risollevarsi dal male, restaurando in sé la purezza della propria intenzione etica. Ogni concessione al venir meno di tale impegno è per Kant una concessione alla superstizione ed uno stravolgimento della vera religione. È quanto avviene nelle religioni di «semplice culto» – come egli le chiama – che fanno credere all’uomo di poter essere reso buono da Dio anche senza un impegno morale personale, ricorrendo cioè alla preghiera o ad altri atti di culto. A questo proposito Kant è categorico:
Tutto ciò che, oltre una buona condotta, l’uomo crede di poter fare per rendersi gradito a Dio è pura illusione religiosa (Religionswahn) e falso culto reso a Dio (re 189; ak vi 170)246.
20Tuttavia, proprio per la connessione etico-razionale tra dovere e potere, quando l’uomo ha fatto tutto quanto gli è consentito dalle sue forze naturali, egli è autorizzato a «sperare che ciò che non è in suo potere sarà completato da una cooperazione superiore» (re 44; ak vi 52). Con questa «speranza» si apre, secondo Kant, l’ambito delle «religioni morali», di cui la religione cristiana «è l’unica che meriti tale titolo» (ivi).
21Aprendosi alla speranza in un «aiuto soprannaturale», la ragione va però oltre la fondazione di una «religione entro i limiti della pura ragione», quale quella cui si era giunti con i postulati della ragion pratica. Essa infatti s’innalza, in questo modo, fino a certe «idee trascendenti» (come gli effetti della grazia, i miracoli, i misteri, i mezzi della grazia) che sono proprie delle religioni storico-rivelate. Nella celebre nota con cui si chiude la prima parte di La religione, Kant chiama le sue osservazioni circa tali idee trascendenti «parerga» o «accessori» della religione puramente razionale. A tali idee, infatti, la ragione si eleva, ma senza poterle annettere al suo campo conoscitivo e senza neppure poterle utilizzare in funzione pratica.
Esse sono, per così dire, parerga della religione dentro i limiti della pura ragione, perché non ne fanno parte, ma tuttavia vi si ricollegano. La ragione, nella coscienza della sua impotenza a soddisfare le sue esigenze morali, si estende sino a certe idee trascendenti, che potrebbero compensare tale suo difetto, senza tuttavia appropriarsele come un’estensione del campo che le appartiene. Essa non contesta né la possibilità, né la realtà degli oggetti di tali idee, ma, soltanto, non può ammetterli nelle sue massime riguardanti il pensiero o l’azione. Essa, anzi, è sicura che se, nell’impenetrabile campo del soprannaturale, c’è ancora qualche cosa di più di quel che essa possa comprendere, ma che sia necessaria per supplire alla sua impotenza morale, questa cosa, pur essendole ignota, gioverà alla sua buona volontà, e ne è sicura con una fede che si potrebbe chiamare riflettente (riflettente, cioè, sulla possibilità di tale cosa), perché la fede dommatica, che pretende di essere un sapere (Wissen), sembra alla ragione insincera o presuntuosa; eliminare, infatti, le difficoltà che si oppongono a ciò che è certo di per sé stesso (dal punto di vista pratico) è, se esse riguardano questioni trascendenti, semplicemente una cosa accessoria (Parergon) (re 45; ak vi 52, con modifiche alla trad.).
22Il testo citato è molto ricco e complesso, anche se ripete, sia pur modificandolo in modo significativo, un modulo, quello della ragione «ai limiti/confini», che già conosciamo. La struttura dell’argomentazione con cui la ragione si apre alla speranza in un aiuto soprannaturale tramite le «idee trascendenti» degli effetti o dei mezzi della grazia, è della stessa natura dell’argomentazione con cui ci si apriva alla «fede morale razionale» nell’esistenza di Dio e nella vita futura. L’argomentazione poggia infatti sul nesso inscindibile tra dovere e potere etico. Identici sono anche i limiti di tale argomentazione: si esclude infatti che essa comporti un ampliamento del nostro «sapere» teoretico circa la natura degli oggetti trascendenti che si ammettono per fede.
23Ma il punto di partenza dell’argomentazione è diverso, e quindi è diversa anche la natura della fede cui si giunge e che Kant qui chiama «fede riflettente». Se infatti il processo postulatorio della Critica della ragion pratica aveva il suo inizio nella natura stessa della ragion pratica umana, ovvero in quell’esperienza della libertà morale che costituisce lo stesso soggetto etico razionale, qui il punto di partenza è l’esperienza sia della perversione storica contingente della libertà morale, sia del permanere dell’obbligo morale, ossia della razionalità etica dell’uomo. Il risultato dell’argomentazione è ancora una vera e propria «fede», che può essere ben salda perché fondata su sufficienti motivi soggettivi. Ma essa sembra distinguersi non solo dalla «fede dommatica», che in base ad argomentazioni che ritiene essere oggettivamente valide pensa di aver raggiunto il livello del «sapere» scientifico247; ma anche dalla «fede morale razionale», che si fondava sull’esperienza «soggettiva» della moralità. Kant – riprendendo la terminologia introdotta nella Critica del giudizio – la chiama «fede riflettente»248, Essa nasce infatti per riflessione su di una situazione storica contingente in cui si trova la soggettività umana. Lungi dal poter estendere e determinare la nostra conoscenza del mondo «oggettivo», essa comporta inoltre il riferimento ad un evento non dovuto, legato alla libertà dell’Essere supremo. Tale fede, più che una fede razionalmente fondata, va quindi intesa come un’«umile fiducia» nell’aiuto divino, che Dio non farà mancare a chi si impegna nella conversione etica secondo le sue forze249.
24Coerentemente, Kant sottolinea con insistenza che le idee di un aiuto soprannaturale non possono essere fatte proprie dalla ragione né per il suo uso teoretico, né per il suo uso pratico. Quanto all’uso teoretico, Kant nega non solo che per fede riflettente si possa giungere ad affermare teoreticamente l’esistenza di tale aiuto soprannaturale, ma anche che si possa in qualche modo comprendere «come» Dio possa aiutare l’uomo a superare la situazione di male radicale. Tale superamento è infatti legato alla libera volontà dell’uomo, e non si vede come Dio si possa sostituire con un suo atto libero all’atto libero dell’uomo.
Chiunque, … ispirato da un vero sentimento del dovere, fa tutto quello che è in suo potere per soddisfare ai suoi obblighi … può sperare che ciò che non è in suo potere sia completato dalla sapienza suprema in qualche maniera, … senza che essa, la ragione, presuma di determinarne il modo e di sapere in che cosa consista tale aiuto divino, il quale, forse, è così misterioso, che Dio potrebbe rivelarcelo al massimo in una rappresentazione simbolica, della quale soltanto l’aspetto pratico ci sarebbe intelligibile, senza poter cogliere teoreticamente che cosa è in sé tale rapporto di Dio all’uomo e senza poterlo esprimere mediante concetti, anche quando Dio volesse svelarci tale mistero (re 191; ak vi 171, secondo c. n.).
25Quanto all’uso pratico, la ragione non riesce ad annettersi i «parerga» perché non deve in alcun modo contare su tale aiuto soprannaturale, né come sostituto dell’impegno etico, né come convinzione che oltre all’impegno etico l’uomo possa fare qualcos’altro per ottenere tale aiuto, ad esempio preghiere, atti di culto, mortificazioni ecc. L’unica cosa che l’uomo può fare per ottenere la grazia della conversione è infatti solo il suo stesso impegno etico.
4. Il problema della fede nella grazia divina: antinomia o paradosso?
26La duplice esclusione, sia di un possibile uso teoretico sia di un possibile uso pratico dei «parerga», non toglie che la ragione, aprendosi alla prospettiva di una religione rivelata come quella cristiana, finisca per trovarsi di fronte ad una serie di antinomie che essa non può evitare, anche se, con un’appropriata ermeneutica filosofica, deve cercare di non cadere nelle assurdità che derivano dalla semplificazione affrettata dei problemi che tali antinomie presentano.
27Si tratta, essenzialmente, del problema di come comporre la fiducia religiosa nell’aiuto divino, che è indispensabile per restaurare la capacità di agire moralmente, e la consapevolezza che solo un nostro atto libero può ribaltare la situazione di libertà corrotta. In teologia, tale problema era noto come problema del primato della grazia divina o della libertà umana nell’opera della salvezza, del primato della fede o delle opere nel processo della giustificazione, del primato della soddisfazione vicaria di Cristo o del nostro impegno etico per la remissione dei peccati. La risposta filosofico-razionale che Kant cercherà di dare a questa problematica quanto mai complessa, se per un verso riesce a riportare nei limiti della ragione diverse posizioni teologiche da lui giudicate irrazionali, procedendo così a quell’opera di purificazione critica che si era proposta, per altro verso finirà per evidenziare ancor meglio le antinomie che tale problematica presenta. La ragione che si eleva fino al «limite» con il campo della religione rivelata s’imbatte infatti in veri e propri paradossi, ineliminabili eppure essenziali per la stessa ragione. Tentando di sintetizzare la posizione di Kant, ci limitiamo a segnalare i seguenti punti.
- Ciò che Kant esclude come del tutto contrario alla ragione, e quindi inammissibile, è che la salvezza si possa avere per puro e semplice dono della fede da parte di Dio, in seguito ad un suo incondizionato disegno. Ciò infatti costituirebbe «il salto mortale della ragione umana» (re 130; ak vi 43 121), ossia oltrepasserebbe di troppo le «barriere» (Schranken) della nostra ragione, tanto da non poter avere per noi alcun senso (cfr. re 90; ak vi 88). Kant quindi rifiuta, come del tutto irragionevole, la tesi teologica protestante della sola fide, coniugata con il rigido predestinazionismo teologico.
- Da un punto di vista pratico, egli ritiene che non si debba e possa far altro che «partire da ciò che noi dobbiamo fare» (re 126; ak vi 118), cioè dall’impegnarci a mettere in atto l’uso della nostra libertà, mossi dall’idea della perfezione morale che è in noi e da cui promana l’imperativo della conversione. Solo infatti colui che ha cercato di fare tutto ciò che è in suo potere, può fiduciosamente sperare che Dio completerà con un aiuto speciale la sua manchevolezza.
- Per quanto riguarda invece il punto di vista teoretico, Kant riconosce anzitutto la portata altamente speculativa della problematica. In essa, infatti, emerge quella che egli chiama una «sorprendente (merkwürdige) antinomia della ragione umana con sé stessa» (re 124; ak vi 116), consistente nella tensione tra la tesi del primato dell’impegno etico, che sembra dimenticare la nostra radicale corruzione, e quella del primato del dono gratuito di Dio, che sembra dimenticare che nessuno può sostituirsi alla nostra libertà; tra la tesi del primato della fede nella buona condotta, che non spiega come possiamo riparare i nostri peccati passati né come possiamo avere la certezza della perseveranza futura, e la tesi del primato della fede nella «soddisfazione vicaria» di Cristo, che non spiega come noi possiamo rendercene degni.
- Circa la possibile soluzione dell’antinomia, Kant rileva che essa risulterebbe del tutto irrisolvibile se si dovesse legare la giustificazione alla fede storico-empirica nella persona di Cristo, sia pur intesa come la «manifestazione» storica del modello dell’umanità gradita a Dio. In questo caso, infatti, ci troveremmo di fronte a due principi del tutto diversi, l’uno empirico (primato della fede nel Cristo storico, e in genere nei mezzi ecclesiastico-istituzionali della salvezza), e l’altro razionale (primato dell’impegno etico); e nessuna ragione sarebbe mai in grado di appianare il conflitto di massime che l’antinomia produrrebbe (cfr. re 128; ak vi 119).
Né va dimenticato che nel rilevare l’irrisolvibilità dell’antinomia, se impostata in questi termini, Kant intende esprimere tutta la sua critica allo stretto legame, che ha dominato nelle teologie delle varie confessioni cristiane fino ai tempi più recenti, tra possibilità di salvezza e fede storico-istituzionale250. Un legame che Kant, in ciò d’accordo con il sentimento illuministico più diffuso, si pensi anche soltanto a Lessing e a Rousseau, ha ritenuto decisamente inammissibile dalla ragione. Se infatti valesse tale legame, la salvezza non sarebbe di fatto possibile a tutti, e si cadrebbe così in una discriminazione incompatibile con la giustizia e la bontà di Dio. - Rifiutando di intendere in tal modo la diversità dei due principi che sono in gioco nell’antinomia, rendendola così irrisolvibile, Kant ritiene che sia possibile superare l’antinomia facendo vedere – con un’appropriata ermeneutica etico-filosofica – che, di fatto, i due principi convergono in uno solo, e che quindi l’antinomia è soltanto apparente.
Nella manifestazione (Erscheinung) dell’Uomo-Dio il vero oggetto della fede santificante non è ciò che di lui colpisce i nostri sensi, o che può essere conosciuto mediante l’esperienza, ma l’archetipo (Urbild) presente nella nostra ragione, che noi poniamo a fondamento di tale manifestazione, …e così tale fede è identica col principio di una condotta di vita gradita a Dio (re 128; ak vi 119).
28Soluzione analoga egli aveva peraltro cercato di dare a proposito della «soddisfazione vicaria», identificando il Figlio di Dio che porta i peccati dell’uomo in qualità di rappresentante di tutti coloro che credono, con la stessa nuova intenzione morale che emerge in noi, non senza grande sofferenza, nel momento stesso della conversione. In tale intenzione, infatti, Dio vede come unificato sia il nostro passato sia il nostro futuro, e per il merito che con essa ci guadagniamo egli può, a buon diritto, ritenerci giustificati. Una soluzione, questa, che Kant ritiene sufficiente per offrire, in qualche modo, una vera e propria «deduzione dell’idea di una giustificazione dell’uomo» (re 66-75; ak vi 71-78).
- 6. È però facile vedere, e a Kant non poteva sfuggire, che se questo è il massimo cui la ragione può giungere nel suo tentativo d’interpretare con le proprie forze la speranza religiosa, il risultato che per questa via si ottiene implica di fatto l’abolizione di uno dei termini del problema, che la ragione stessa aveva riconosciuto, ossia l’impossibilità per la libertà umana corrotta di convertirsi da sola. Donde il risorgere del problema, che in Kant sembra infine trapassare dal piano di un’antinomia inaccettabile da smascherare a quello – certo più pertinente – di un paradosso da riconoscere251.
29Così, ad esempio, ritornando, nell’«Osservazione generale» che si trova in calce alla IVa parte, sulla problematica del rapporto tra grazia e libertà, Kant afferma bensì che noi non possiamo comprendere come sia possibile un influsso soprannaturale di Dio che ci aiuti a compiere tutto il nostro dovere, dato che, com’egli scrive:
ciò che ci deve essere attribuito a titolo di buona condotta non deve derivare da un influsso esterno, ma dev’essere il risultato del migliore uso possibile delle nostre proprie forze (re 216; ak vi 191).
30Ma aggiunge anche, in modo molto significativo:
Tuttavia, neanche si può dimostrare l’impossibilità di questo caso (cioè che entrambi gli agenti coesistano l’uno accanto all’altro), perché la libertà stessa, benché nel suo concetto non sia incluso nulla di soprannaturale, ci resta, tuttavia, nella sua possibilità, precisamente così incomprensibile come il soprannaturale che si vorrebbe considerare quale surrogato (Ersatz) della sua determinazione spontanea ma insufficiente (re 216-217; ak vi 191, c. n.).
31Il paradosso del confluire in uno della grazia soprannaturale e della libertà sarebbe quindi da leggere sullo sfondo del paradosso della presenza in noi di una libertà che è nostra e al tempo stesso ci è stata donata, o, il che è lo stesso, della presenza in noi dell’archetipo della perfetta umanità, senza che noi ne siamo gli autori. Il paradosso centrale della religione cristiana, che ha il suo culmine nella figura di Cristo redentore – «il più grandioso dei parerga», come giustamente è stato definito252 – non sarebbe quindi come tale contrario alla ragione, ma espressione massima di quella tensione d’immanenza e trascendenza, che già caratterizza la struttura originaria della realtà umana. Tale paradosso non è certo risolvibile dalla ragione, dato che ci impone di tenere uniti due elementi che i nostri concetti non riescono a vedere come possano stare uniti, neppure nel caso che Dio volesse rivelarcelo253. Ma proprio perché ci porta a riconoscere i «limiti» della ragione umana, tale paradosso è segno che può avere senso e verità aprire il cuore alla fiduciosa speranza in un dono capace, nel modo che Dio solo può conoscere, di sovrapporsi al nostro libero impegno senza distruggerlo o renderlo superfluo, bensì sanando e potenziando in radice la nostra capacità di agire moralmente e quindi la nostra libertà. Il che, secondo Kant, è sufficiente per offrire, nei limiti del possibile, quella «giustificazione filosofica della speranza» che era negli intenti dell’opera e che ancora oggi vale la pena di meditare.
5. La portata del simbolo religioso: con Kant oltre Kant
32Le antinomie dialettiche che la ragione trova nel suo stesso campo, hanno quindi ancora una volta portato la ragione fino ai suoi limiti/confini (Grenzen), aprendo così lo spazio ad un campo del tutto nuovo e differente, cioè a quello della religione positiva o rivelata. Anche in questo caso, come nei precedenti, la ragione non può far proprio conoscitivamente il campo di ulteriorità-differenza che pur dischiude; questo le rimane così essenzialmente problematico. Tutt’al più, essa può determinare, in modo analogico, la natura del nesso che lega lo spazio dell’ulteriorità alla cui soglia si è affacciata, con lo spazio che le appartiene. Diversamente dai casi precedentemente analizzati (quello del noumeno e quello della teologia morale), nel caso dell’apertura allo spazio dell’ulteriorità soprannaturale la ragione si trova però di fronte non solo uno spazio che le rimane per principio incomprensibile, ma anche uno spazio che le si presenta come «paradossale», perché implicante affermazioni contrastanti, che la ragione giudica incomponibili (se non proprio contraddittorie) non essendo in grado di vederle logicamente unite. Il superamento delle antinomie della ragion pratica, data la situazione storico-contingente di «male radicale» in cui essa si trova, si paga quindi con il prezzo del «paradosso». Un paradosso di cui la ragione non riesce a venire a capo con i suoi concetti, e che la religione rivelata, e per essa la Scrittura, esprimono con l’unico linguaggio che è in grado di parlarne, il linguaggio simbolico. Che del «male radicale» e dell’aiuto soprannaturale indispensabile per superarlo, la religione possa parlare solo in modo simbolico, Kant lo dice espressamente. Ricordiamo il passo della citazione sopra riportata:
Tale aiuto divino … è forse così misterioso, che Dio potrebbe rivelarcelo al massimo in una rappresentazione simbolica (re 191; ak vi 171, c. n.).
33Il rimando al linguaggio «simbolico» proprio della Scrittura ritorna spesso in La religione. Ma, come ha fatto giustamente notare Ricoeur254, Kant non ha elaborato una vera e propria «filosofia dell’immaginazione religiosa», che consideri questa capace di creare dei simboli religiosi più ricchi ed efficaci che non i semplici concetti della ragione; dei simboli, cioè, in grado di aprire ad una ricchezza di senso non contenibile nei concetti della ragione e al tempo stesso fonte inesauribile per la riflessione della ragione. Diversamente da quanto ha elaborato in campo estetico, ove la sua teoria dell’immaginazione è veramente innovativa e rivoluzionaria, Kant si sarebbe limitato ad interpretare la rappresentazione propria del linguaggio religioso nei termini dello «schematismo dell’analogia», ove il simbolo non è più ricco rispetto alla conoscenza concettuale, ma più povero; qualcosa di cui ci si deve in qualche modo accontentare, data l’impossibilità di conoscere concettualmente il soprannaturale. Come già nei Prolegomeni, si tratterebbe, inoltre, di una semplice analogia di proporzione, che ci dice qualcosa del nesso tra il soprannaturale e il naturale, in funzione del nostro comportamento morale, ma nulla del soprannaturale in se stesso.
34Pur con questi limiti, rilevati da vari autori255, la teoria del linguaggio simbolico-religioso di Kant ha tuttavia un rilevante significato, perché è in grado di mostrare come la conoscenza del soprannaturale cristiano si radichi – secondo Kant – nello sfondo più generale del nostro modo di conoscere la realtà sovrasensibile. La cosa può essere ben documentata, ad esempio, da un testo di La religione, letto alla luce delle osservazioni che nella Critica del giudizio Kant ha fatto a proposito della conoscenza analogico-simbolica. Il testo fa parte di una lunga nota, introdotta da Kant a commento della rappresentazione del modello originario dell’idea della perfetta moralità, che la Scrittura ci offre nella figura di Cristo, il Dio fattosi uomo per salvarci (cfr. re 57-59; ak vi 64-65). La nota inizia con l’osservare che è un segno della limitatezza della ragione umana il fatto che noi non possiamo concepire il valore morale degli atti di una persona, «senza rappresentarci nello stesso tempo tale persona, o la sua manifestazione, in una maniera umana, benché con ciò non vogliamo affermare che in sé (kat’alétheian) la cosa sia così come ce la rappresentiamo». Ed a questo punto Kant aggiunge:
perché noi abbiamo bisogno, per renderci comprensibili alcune maniere d’essere soprasensibili, di certe analogie con gli esseri della natura. … Così anche la Scrittura si adatta a questo modo di rappresentazione per farci comprendere, secondo il suo grado, l’amore di Dio per il genere umano, quando attribuisce a Dio il più grande sacrificio che un essere amante possa fare per rendere felici anche delle creature indegne (“Dio dunque ha tanto amato il mondo” ecc. – Gv. 3, 16 – ); benché noi non possiamo concepire, mediante la ragione, in qual modo un essere, del tutto sufficiente a se stesso, possa sacrificare qualcosa che fa parte della sua felicità, e privarsi di ciò che possiede. Questo è lo schematismo dell’analogia (che serve alla chiarificazione), del quale noi non possiamo fare a meno (re 57-58; ak vi 65).
35Il linguaggio simbolico della Scrittura si radica quindi, per Kant, nella più generale necessità che ha l’uomo di rappresentarsi il sovrasensibile in modo analogo al mondo sensibile. Con l’avvertenza che tale uso dell’analogia è criticamente corretto solo se con essa non si presume di giungere a determinare il sovrasensibile in sé stesso, ma solo a determinare in qualche modo il suo rapporto con il sensibile, e quindi il suo senso per noi. Altrimenti, come già sappiamo dai Prolegomeni, si avrebbe non un legittimo «antropomorfismo simbolico», che concerne soprattutto il linguaggio, ma un assurdo «antropomorfismo dommatico», che concerne la cosa in se stessa. A tale contrapposizione, propria dei Prolegomeni, nel seguito della nota Kant sostituisce la contrapposizione tra il legittimo «schematismo dell’analogia» e il dannoso «schematismo della determinazione dell’oggetto», che conduce all’antropomorfismo puro e semplice.
36L’uso, in questa nota, del termine «schematismo» in riferimento alla conoscenza «analogico-simbolica», è però a sua volta un’«analogia», dato che nel § 59 della Critica del giudizio Kant, parlando del «simbolo», aveva ben distinto la «ipotiposi» (= viva raffigurazione di un concetto tramite un’intuizione) «schematica» da quella «simbolica». L’ipotiposi schematica si ha infatti quando l’intuizione (di cui abbiamo sempre bisogno per la realtà dei nostri concetti) è data a priori (si ricordi la tematica dello schematismo di cui parla la Critica della ragion pura); invece l’«ipotiposi simbolica» si ha:
quando ad un concetto che può essere pensato solo dalla ragione, e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, viene sottoposta una intuizione, nei cui confronti il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo; vale a dire, che si accorda con questo soltanto secondo la regola del procedimento, non secondo l’intuizione stessa, e quindi soltanto secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto (cdg 217; ak v 351, c. n.).
37I simboli sono, di conseguenza, delle esibizioni indirette256 di un concetto, nel senso che non me lo presentano in un’intuizione che gli corrisponde, ma attraverso l’intuizione di un altro concetto che può essere messo in rapporto di proporzione con il primo. E già abbiamo riportato, commentando il § 58 dei Prolegomeni, l’esempio che qui Kant adduce al riguardo, parlando del «mulino a braccia» come simbolo dello «stato dispotico»; ove tra stato o mulino non v’è nulla di analogo, dato che l’analogia vi è solo tra le regole di funzionamento dell’uno e dell’altro.
38Sia in questo testo della terza Critica, sia in quello della nota di La religione, la descrizione della conoscenza simbolica non si differenzia quindi quasi in nulla, rispetto a quanto si diceva nei Prolegomeni a proposito della conoscenza per analogia di proporzione. Tra gli aspetti di novità, si potrebbe segnalare quell’accenno, purtroppo non sviluppato, al fatto che il simbolo suscita una riflessione, e quindi sembrerebbe poter aprire a prospettive di conoscenza originale rispetto a quella di una semplice conoscenza intellettiva impoverita. Il che sarebbe in linea con tutta l’impostazione della Critica del giudizio, che distingue tra giudizio determinante e giudizio riflettente come tra due tipi di conoscenza del tutto originali. Avremo modo di ritornare su questo punto. Prima è però bene sottolineare un altro aspetto di novità, e cioè l’ampliamento dell’ambito di applicazione del simbolo, che Kant nella terza Critica estende a gran parte del nostro linguaggio, anche a quello strettamente teoretico.
La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione. Tali sono le parole fondamento (appoggio, base), dipendere (essere tenuto dall’alto), derivare da qualcosa (invece di seguire), sostanza (il sostegno degli accidenti, come dice Locke), ed innumerevoli altre ipotiposi non schematiche, ma simboliche (cdg 219; ak v 352, primo c. n.).
39Dunque le stesse parole chiave del discorso strettamente teoretico sono, per Kant, intrise di simbolismo. Ed è proprio sullo sfondo di tale ampliamento dell’uso linguistico del simbolo, che Kant, nel seguito del testo citato del § 59, parla della conoscenza teologica come di una conoscenza «simbolica».
Se si può già chiamare conoscenza un semplice modo di rappresentazione (il che è certo permesso, quando essa non è un principio della determinazione teoretica dell’oggetto, per quello che l’oggetto è in se stesso, ma un principio della determinazione pratica, per ciò che l’idea di esso dev’essere per noi e per il suo uso appropriato); allora tutta la nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica; e chi la ritiene schematica, con i suoi attributi di intelletto, volontà, etc., che attestano la loro realtà oggettiva soltanto negli esseri di questo mondo, cade nell’antropomorfismo; così come chi in essa ripudia ogni modo di rappresentazione intuitiva, cade nel deismo, per il quale non si può conoscere assolutamente niente, nemmeno dal punto di vista pratico (cdg 219; ak v 353, c. n.).
40Nella citazione abbiamo sottolineato l’espressione: «tutta la nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica»; essa però è nuova solo come espressione, ma non nel contenuto, dato che questo ricalca tale e quale quello dei Prolegomeni. Lo si può notare anche dalla menzione dei due pericoli che Kant dice di evitare con la sua posizione: l’antropomorfismo da un lato e il deismo dall’altro; pericoli già presi in esame nei Prolegomeni.
41Pur rileggendo il testo della nota sopra citata di La religione alla luce della Critica del giudizio, non sembra quindi che in essa si trovino delle novità sostanziali rispetto alla teoria kantiana della conoscenza analogico-simbolica, che già abbiamo trovato applicata alla conoscenza teologica nei Prolegomeni. In La religione, egli trasferisce puramente e semplicemente tale teoria anche alla conoscenza teologica del soprannaturale cristiano. Così, ad esempio, egli interpreterà sia le affermazioni cristologiche che le affermazioni trinitarie non come riferentesi alla realtà di Dio in se stesso, ma solo come linguaggio analogico/simbolico, tratto dalla nostra esperienza sensibile, per rappresentare come Dio si atteggia eticamente nei nostri riguardi.
42Verrebbe però da chiedersi se la dialettica della ragion pratica, innescata dalla situazione esistenziale del male radicale, non esiga qualcosa di più, per il fatto stesso che ci porta fino all’idea di un aiuto soprannaturale di tipo paradossale, che non solo nessun concetto, ma anche nessuna analogia di proporzione con il nostro mondo sensibile sembra in grado di rappresentare. Donde l’esigenza, per la religione che di tale paradosso intende parlarci, di un linguaggio simbolico più ricco, che vada oltre la semplice analogia di proporzione con ciò che avviene nel mondo sensibile.
43Kant, come ci ha ricordato Ricoeur, non ha elaborato una concezione dell’immaginazione religiosa in grado di rispondere a questa specifica esigenza di un linguaggio simbolico capace di rappresentare il paradosso religioso. Ma forse ne ha posto in qualche modo le premesse con la sua dottrina dell’immaginazione estetica. Ci riferiamo, in particolare, al notissimo § 49 della terza Critica, ove si parla dell’immaginazione come della facoltà in grado di «rappresentare le idee estetiche». Ove per «idee estetiche» Kant intende:
quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un concetto possa essere loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e fade comprensibili (cdg 173; ak v 314, c.n.)
44Si noti la differenza – che Kant sottolinea – tra queste idee estetiche e le corrispondenti idee della ragione. Mentre le idee della ragione sono concetti «cui nessuna intuizione – rappresentazione dell’immaginazione – può essere adeguata» (ivi), le idee estetiche sono invece delle rappresentazioni dell’immaginazione cui nessun concetto o pensiero può essere adeguato. Ove, se nel primo caso il concetto era più ricco della rappresentazione dell’immaginazione, ora è la rappresentazione dell’immaginazione che è più ricca di ogni concetto. Ed è significativo che Kant chiarisca che egli chiama «idee» queste rappresentazioni dell’immaginazione per la loro capacità di tendere «oltre i limiti dell’esperienza», rendendo così in qualche modo sensibile proprio l’invisibile e l’inesprimibile di natura religiosa.
Il poeta osa rendere sensibili idee razionali di esseri invisibili, il regno dei beati, il regno infernale, l’eternità, la creazione, e simili; o anche trasporta ciò, di cui trova i modelli nell’esperienza, come per esempio la morte, l’invidia e tutti i vizi, l’amore, la gloria, ecc., al di là dei limiti dell’esperienza (über die Erfahrungsgränze hinaus) con un’immaginazione che gareggia con la ragione nel conseguimento di un massimo, rappresentando tutto ciò ai sensi con una perfezione di cui la natura non dà nessun esempio. … In una parola, l’idea estetica è una rappresentazione dell’immaginazione associata ad un concetto dato, la quale, nel libero uso dell’immaginazione, è legata con tali quantità di rappresentazioni parziali, che non si potrebbe trovare per essa nessuna espressione che designi un concetto determinato; e quindi una rappresentazione che dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili, di cui il sentimento vivifica le facoltà conoscitive e dà lo spirito alla parola in quanto semplice lettera (cdg 174-176; ak v 314-315, c. n.).
45Ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema commentare questo importantissimo luogo dell’estetica kantiana, approfondendo la concezione kantiana delle idee estetiche e dell’immaginazione creatrice che ne è all’origine. Ma riteniamo importante rilevare come Kant, con questa concezione delle idee estetiche, quali rappresentazioni-intuizioni più ricche della conoscenza concettuale, abbia in qualche modo aperto la via alla concezione romantica del simbolo religioso, quale sarà sviluppata soprattutto da Schelling. Una concezione del simbolo come frutto di un’immaginazione religiosa capace di intuire e di esprimere la verità sovrasensibile molto più a fondo che non la conoscenza concettuale. Ove il simbolo, proprio perché costituito dalla viva rappresentazione dell’unione di elementi contrastanti in tensione, è particolarmente atto a rappresentare in sé stesso la superiore verità che si rivela nel paradosso religioso. E proprio per la sua capacità di esprimere, in modo che a lui solo è possibile, una verità sovrasensibile inesauribile dal concetto, esso non sopporta di essere trascritto o interpretato in termini puramente razionali. Il simbolo, infatti, «dà a pensare» molto di più di ogni concetto257.
46Ma con questi accenni ad una teoria del simbolo religioso più adeguata di quella kantiana, che semplicemente lo appiattisce sulla conoscenza analogico-proporzionale, non solo andiamo oltre Kant, ma anche oltre i limiti di questo lavoro. In conclusione, Kant ci «dà a pensare» non solo per i problemi che ha saputo dipanare, non solo per i moduli di pensiero che ci ha lasciato fruttuosamente in eredità, ma anche per i problemi che ha solo intravisto e lasciato insoluti, pur conducendoci fino alla loro soglia. Ancor oggi è possibile andare oltre Kant, solo dopo essere passati per Kant. Ed un «ritorno a Kant» è forse anche per noi tra i modi migliori per prepararci a pensare rivolti al futuro.
Notes de bas de page
238 Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. G. Durante, Chiantore, Torino 1945 (citeremo da questa traduzione, d’ora in avanti con la sigla RE). Questa traduzione è stata ripresa, con poche varianti, nel volume I. Kant, Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989; 65-216. Esistono però, di quest’opera, anche altre traduzioni italiane, come quella a cura di A. Poggi, rivista da M. M. Olivetti, Laterza, Bari-Roma 1980.
239 Si ricordi la distinzione che Kant fa, in La religione, tra «religione rivelata» e «religione naturale», dopo aver ripreso la definizione più generale di religione da noi sopra riportata. «La religione (considerata dal punto di vista soggettivo) è la coscienza di tutti i nostri doveri come comandi divini. Quella in cui io devo, prima, sapere che qualcosa è un comando divino, per riconoscerla, poi, come mio dovere, è la religione rivelata (o che esige una rivelazione); quella, invece, in cui devo sapere che qualche cosa è un dovere, prima che la possa riconoscere come un comando divino, è la religione naturale » (re 168; ak vi 153-154).
240 Cfr. La ragione ai confini della trascendenza cristiana in Kant, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata», xix (1986), Antenore, Padova 1987, in particolare 202-256.
241 Rimandando per una bibliografia più completa di tale critica alle note 1 e 3 del saggio sopra citato, ricordiamo qui soltanto i fondamentali studi di J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der “Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft”. Mit besonderer Berücksichtigung ihrer theologisch-dogmatischen Quellen, Hamburg 1938; L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Paris 1968; O. Reboul, Kant et le problème du mal, Montréal 1971; H. D’aviau De Ternay, Traces bibliques dans la loi morale chez Kant, Paris 1986; P. Ricoeur, Une berméneutique pbilosophique de la religion: Kant, in Interpreter. Hommage amicai à Claude Geffré, Études réunis par Jean-Pierre Jossua et Nicolas-Jean Sed, Cerf, Paris 1992, 25-47.
242 Com’egli stesso dichiarò spiegando la scelta definitiva del titolo dell’opera (cfr. Il conflitto delle facoltà, tr. it. di A. Poggi, Pubbl. dell’Ist. di Magistero, Genova 1953 (sigla cf), 6; ak vii 6; Vorarbeiten zur Religion, ak xxiii 90-97).
243 re xxi; ak vi 12.
244 Cfr. Ricoeur, Une berméneutique pbilosopbique de la religion cit.
245 Il termine si trova già in Lutero. Ma sembra che Kant lo abbia desunto non direttamente da Lutero, ma da Baumgarten. Così sostiene Bohatec in Die Religionsphilosophie Kants in der “Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft” cit., 269.
246 La critica alla superstizione religiosa e al falso culto a Dio è particolarmente sviluppata da Kant nella IVa parte dell’opera. Questa resta indubbiamente uno dei più efficaci ed equilibrati «classici» della filosofia moderna relativi alla critica, in chiave etica, di tale superstizione e di tale falso culto.
247 Il termine di «fede dommatica» compare qui per la prima volta. Esso sembra far riferimento non tanto alla «fede dottrinale», che abbiamo trovato nel Canone, e neppure alla «metafisica dommatica», di cui si parlava nella Critica della ragion pura. Bensì a quella concezione della fede che era in voga, non senza intime contraddizioni, nella teologia razionalistica del tempo. Questa infatti riteneva di poter dare delle vere e proprie «dimostrazioni» scientificamente valide (con argomentazioni di tipo storico e di tipo razionale) della fondatezza della fede nel fatto della rivelazione cristiana di Dio e quindi nei contenuti dottrinali del cristianesimo stesso. L’aggettivo di «dommatica», come qualificazione della «fede», vuole quindi far riferimento non ad una fede asserita senza argomentazioni, bensì ad una fede che ritiene di avere dalla sua delle argomentazioni oggettive di stretta valenza scientifico-universale.
248 Si ricordi la distinzione che Kant fa, all’inizio della Critica del giudizio, tra «giudizi determinanti» e «giudizi riflettenti». I primi, propri dell’intelletto, permettono di estendere la nostra conoscenza oggettiva; i secondi, invece, propri della facoltà del giudizio, si riferiscono ad un convergere armonico delle nostre facoltà conoscitive ed etiche con i nostri sentimenti; convergere che indica problematicamente verso una realtà oggettiva ulteriore, non afferrabile né determinabile con la conoscenza intellettiva, ma che può spiegare tale armonico convergere.
249 Kant era giunto a questa posizione già nel 1775, come testimonia la lettera a J. K. Lavater del 28 aprile di quell’anno. In essa, ad esempio, si dice: «Potrebbe darsi che noi non conoscessimo nulla del mistero di ciò che Dio fa da parte sua, e non andassimo oltre la convinzione che, data la santità della sua legge e il male insuperabile del nostro cuore, Dio deve necessariamente serbare nascosto nella profondità del suo consiglio un qualche supplemento alla nostra manchevolezza, in cui possiamo umilmente avere fiducia, se facciamo tutto ciò che è in nostro potere per non esserne indegni. Con ciò per quel che ci riguarda saremo sufficientemente istruiti, quale che sia la maniera in cui la bontà di Dio ci elargisce questo soccorso. La fede morale, che io ho trovato nel Vangelo, quando ho cercato nella misura di fatti e misteri rivelati la dottrina pura che sta a loro fondamento, è da porsi proprio in questa fiducia incondizionata riposta in Dio, senza cioè volere sapere impertinentemente la maniera in cui Egli intende compiere la sua opera, e ancor più senza la presunzione di evocarla sulla base di qualche informazione, a garanzia della beatitudine delle nostre anime» (Epistolario filosofico 1761-1800, tr. it. cit. 90; ak x 176-177; ma abbiamo riportato la tr. it., che ci è parsa più efficace, che si trova in Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989, 48, cc. nn.).
250 Una chiara documentazione di come la teologia critiana più recente abbia sciolto tale legame (per quanto riguarda la teologia cattolica soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II e per impulso di teologi come K. Rahner) la si può oggi trovare oggi in P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, che distingue tra «fede salvifica», offerta ed accessibile a tutti, e «fede testimoniale», connessa con una chiamata specifica al servizio del Vangelo, anche in forma istituzionale.
251 È questa, peraltro, l’interpretazione verso cui tende Ricoeur nel saggio sopra citato, anche se egli ritiene che Kant sia stato frenato, nel farla esplicitamente propria, dalla polemica, che domina la IIIa parte di La religione, contro l’aspetto statutario della fede. Cfr. Ricoeur, op. cit., 40-41.
252 Cfr. X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, tr. it. a cura di G. Sansonetti, Queriniana, Brescia 1989, 83.
253 cfr. la citazione di re 191; ak vi 171 sopra riportata.
254 Cfr. Ricoeur, Une herméneutique philosophique de la religion cit. 42.
255 Cfr., ad esempio, Mancini, Kant e la teologia cit., 82-93; Melchiorre, Analogia e analisi trascendentale cit., 75-80. Più in generale, Lamacchia, La «Cognitio symbolica»: un problema dell’ermeneutica kantiana cit.
256 «Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono rappresentazioni dirette del concetto, le seconde indirette (indirekte Darstellungen des Begriffs)» (ivi).
257 Per un originale sviluppo della concezione del simbolo teorizzata da Schelling, e qui appena accennata, rimandiamo alla trattazione che ne fa L. Pareyson in Filosofia ed esperienza religiosa, in «Annuario filosofico», 1 (1985), 19-27 (ora in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995 99-113). «L’immagine sensibile del simbolo – scrive egli ad esempio – non è tanto un’immagine riflessa quanto un’immagine rivelativa, non tanto un segno arbitrario e sostituibile quanto la cosa stessa nella sua presenza visibile. … Ed è questa presentificazione vivente, anzi questa radicale identità, che chiamiamo unità tautegorica, la quale fa sì che nel simbolo sia presente ciò che non può esser presente in altro modo, e che perciò esso sia essenzialmente manifestazione o rivelazione» (ivi, 21).
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Un’indagine sui processi reconditi dell’atto volontario
Germana Pareti et Antonio G. Zippo
2016
Filosofie della natura dopo Schelling
Iain Hamilton Grant Emilio Carlo Corriero (éd.) Emilio Carlo Corriero (trad.)
2017
Vertigini della ragione
Schelling e Nietzsche. (Nuova edizione riveduta e ampliata)
Emilio Carlo Corriero
2018
Cristalli di storicità
Saggi in onore di Remo Bodei
Emilio Carlo Corriero et Federico Vercellone (dir.)
2019