La sfida delle mogli: recensione del film di Peter Cattaneo
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    La sfida delle mogli: recensione del film di Peter Cattaneo

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    I soldati, la guerra, gli eroi che combattono per la patria generalmente sono oggetti, e soggetti, di un protagonismo narrativo senza precedenti. Da La battaglia di Hacksaw Ridge a Salvate il soldato Ryan, la maggior parte delle pellicole sulla guerra pone l’io narrante al centro di una battaglia, tra trincee e faide sanguinose. La sfida delle mogli (Military Wives il titolo originale) è un film sulla guerra, che parla della guerra, ma che non la mostra mai. La narrazione è nelle mani delle mogli dei militari inglesi che, con i loro partner che prestano servizio in Afghanistan, vivono assieme in una sorta di cittadina paramilitare.

    Durante questa convivenza lunga e solitaria, Kate, la moglie del colonnello, decide di partecipare alle attività quotidiane di un gruppo di donne, capitanante da Lisa, che sul fronte interno si ritrova sporadicamente la mattina per tentare di distrarsi dal pensiero dei mariti lontani. Kate, notando la totale disorganizzazione di quel gruppo che non fa altro che bere caffè o birra, capisce che è ora di rivoluzionare quegli incontri per dare uno scossone a queste donne che vivono quotidianamente tramortite dal pensiero dei loro mariti in pericolo. Così decide di fondare un coro, un coro piccolo ma coeso, che rapidamente diventerà fautore di un movimento globale.

    La sfida delle mogli è un film che parla della guerra ma che non la mostra mai

    Una storia vera, o almeno ispirata al primo coro di queste military wives. Un film che unisce la scintilla narrativa di Sister Act con il gusto amaro della solitudine, perno attorno al quale le donne protagoniste di La sfida delle mogli dipanano la loro esistenza, costrette a dover dire addio a scadenze regolari ai loro mariti, scrivendosi lettere strazianti, sperando che quelle parole non siano le ultime che potranno aver scritto ai rispettivi coniugi. Ciò a cui si assiste è una storia di base commovente, tragica ma che viene ribaltata dal tono comico delle scene e da una scrittura vivace, fresca, che mette l’accento sul senso di abbandono quotidiano delle military wives, destinate a fare da madri e da padri ai loro figli, a dover tenere insieme una famiglia che vive una sottrazione indelebile, con un senso di morte e di paura nel cuore.

    La sfida delle mogli

    Il coro è un salvagente strabiliante, è la loro occasione di sfogarsi, di usare la voce come strumento di liberazione, di potersi concentrare per qualche ora su qualcosa che non sia la guerra. Il coro diventa uno strumento simbolico di agitazione culturale, attraverso cui dire il non detto, guardare ciò che non si osava guardare: il coro diventa anche l’azione prosecutrice di un movimento globale, che darà il via a tutta una serie di cori militari in giro per il mondo, in cui le donne possono avere libero accesso ad uno spazio fibrillante, che restituisce loro unità, sorellanza e un pizzico di pace interiore. Kate e Lisa hanno trasformato un hobby terapeutico in un successo da capogiro.

    Military Wives non tramortisce per inventiva

    Le sceneggiatrici Rosanne Flynn e Rachel Tunnard hanno scritto questo film come una ballata per l’unità femminile; l’unica pecca della narrazione è che spesso continua a porre blocchi palesemente artificiali sulla strada per l’obiettivo finale delle donne, che è quello di esibirsi alla Royal Albert Hall di Londra per un concerto di beneficenza. Questo per fare in modo che il traguardo finale possa essere recepito ancora più dolcemente e anche in modo disatteso, dai più ingenui. Da questo punto di vista La sfida delle mogli non tramortisce per inventiva. Nonostante questo resta una pellicola godibile, che sa come commuovere, come far riflettere e ci restituisce l’immagine delle military wives come donne sempre in divenire.

    La sfida delle mogli arriverà nelle sale italiane il 9 aprile, distribuito da Eagle Pictures.

    Overall
    5.5/10

    Verdetto

    La sfida delle mogli è una pellicola godibile, divertente, che ci restituisce l’immagine delle military wives come donne sempre in divenire. L’unica pecca è la narrazione, che, soprattutto sul finale, diventa artificiosa e opaca.

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    Furiosa: A Mad Max Saga, recensione del film con Anya Taylor-Joy

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    Furiosa: A Mad Max Saga

    Dopo la rivoluzione di Mad Max: Fury Road, George Miller torna al franchise a cui è indissolubilmente intrecciata la sua carriera con Furiosa: A Mad Max Saga, prequel del film precedente incentrato sul personaggio che fu di Charlize Theron prima di essere riassegnato ad Anya Taylor-Joy. Lo fa con una vera e propria origin story, che mostra nel dettaglio la crescita, l’evoluzione e gli eventi capaci di segnare nel profondo l’animo di Furiosa, eroina coraggiosa e indomabile che abbiamo ammirato al fianco di Max Rockatansky. Un’opera meno incendiaria e rivoluzionaria rispetto al precedente capitolo, ma capace comunque di espandere il desolato universo postapocalittico di George Miller con una riuscita storia di rivincita e vendetta.

    Facciamo la conoscenza della giovane Furiosa (Alyla Browne), che viene rapita dalla sua casa nel Luogo Verde delle Molte Madri da un pericoloso gruppo di motociclisti. La disperata madre, Mary Jo Bassa, si mette alla ricerca della piccola, raggiungendo l’accampamento dei motociclisti, guidati dal Signore della Guerra Dementus (Chris Hemsworth). Il tentativo di liberazione non va però a buon fine, e Furiosa è costretta ad assistere alla tortura e all’esecuzione della madre, rimanendo prigioniera di Dementus. Quest’ultimo inizia però una turbolenta collaborazione con il leader della vicina Cittadella, Immortan Joe, che chiede e ottiene la proprietà della bambina, per farla diventare una delle sue mogli. Incontriamo nuovamente Furiosa da adulta (Anya Taylor-Joy), travestita da uomo per sfuggire ai pericoli della Cittadella e determinata a ottenere indipendenza e riscatto.

    Furiosa: A Mad Max Saga, la origin story di un’eroina in cerca di vendetta

    Furiosa: A Mad Max Saga

    Furiosa: A Mad Max Saga è un film opposto a Mad Max: Fury Road per diversi motivi. Non siamo solo di fronte a un prequel volto a completare una storia già brillantemente raccontata, ma a una produzione che, pur rimanendo fedele ai canoni e alla mitologia del franchise, ha un respiro diverso. Il minimalismo narrativo del precedessore lascia spazio a un film molto più scritto, nonostante le pochissime battute della Furiosa adulta. Il racconto per immagini è molto più limitato, come la cura per le scenografie e per i dettagli visivi, in nome di numerosi dialoghi fra le varie figure maschili che circondano la protagonista. Fra queste, spicca indubbiamente Dementus, che Chris Hemsworth caratterizza in pericoloso equilibrio fra il suo caricaturale Thor e una folle ferocia, che riesce però a trasmettere solo a tratti.

    Con il passare dei minuti e con l’ingresso in scena del Praetorian Jack di Tom Burke, emergono inoltre alcune scelte problematiche di scrittura. In Mad Max: Fury Road e anche nel lungo prologo di Furiosa: A Mad Max Saga (Anya Taylor-Joy entra in scena dopo un’ora), Furiosa è una persona determinata e pienamente autosufficiente, che ha dentro di sé le risorse per superare qualsiasi pericolo di questo mondo sinistro e desertico. Nonostante ciò, George Miller indugia in un contraddittorio rapporto fra mentore e allieva, schivando brillantemente la trappola sentimentale ma facendo allo stesso tempo compiere un passo indietro non necessario a Furiosa, che coincide con il segmento meno riuscito del film.

    Un frangente che mette anche in evidenza i limiti della scelta di Anya Taylor-Joy, che dimostra impegno e notevole dedizione alla causa, ma fatica a scrollarsi di dosso la sua naturale eleganza, del tutto assente nella belluina Furiosa di Charlize Theron.

    Furiosa: A Mad Max Saga e il western

    Furiosa: A Mad Max Saga

    Fra suggestivi richiami alla storia del franchise (su tutti il breve campo lunghissimo di Max Rockatansky, unica fugace apparizione del personaggio ed evidente collegamento all’incipit di Mad Max: Fury Road), Furiosa: A Mad Max Saga trova infine la propria strada, che inevitabilmente passa per l’azione e per l’inseguimento. L’imponente messa in scena quasi esclusivamente analogica del film del 2015 lascia in questo caso spazio a qualche inserto in CGI di troppo, che da una parte ha indubbiamente facilitato la realizzazione di quest’opera, ma dall’altra stona se messo a paragone con il superlativo e adrenalinico lavoro svolto in precedenza. Un compromesso che comunque non impedisce a George Miller di dare vita a un action di altissima qualità, in cui si forgia definitivamente il carattere della protagonista.

    Mentre Mad Max: Fury Road si riconnetteva direttamente alle origini del western e ai suoi archetipi, con un lungo inseguimento che ricordava Ombre rosse di John Ford, Furiosa: A Mad Max Saga guarda più alla vendetta al centro del cinema di Sergio Leone, in particolare al suo monumentale C’era una volta il West. Un cambiamento di prospettiva accompagnato da uno stile visivo molto più convenzionale e meno esagerato, che fonde l’immaginario postapocalittico con un utilizzo degli scenari desertici capace di attingere tanto all’imponenza di Ben-Hur quanto alle sfumature più inquietanti e magnetiche dei recenti di Dune di Denis Villeneuve.

    Un poderoso climax conclusivo

    Furiosa: A Mad Max Saga

    Nel climax emotivo conclusivo, Furiosa: A Mad Max Saga trova finalmente la propria ragion d’essere, superando qualche perplessità narrativa e riconnettendosi con la ferocia alla base di Mad Max: Fury Road, in un crescendo di tensione e violenza. Un epilogo in cui curiosamente la storia di questo franchise ricalca nuovamente quello di Star Wars: entrambe queste saghe hanno infatti goduto di un vero e proprio reboot realizzato nello stesso anno (Mad Max: Fury Road poteva addirittura contare su un villain con una maschera e con evidenti problemi respiratori) e su un prequel pensato per scandagliare in profondità determinati personaggi e specifici avvenimenti; esattamente come Rogue One: A Star Wars Story si riallacciava millimetricamente al primo Guerre stellari, Furiosa: A Mad Max Saga si chiude con un perfetto collegamento al precedente lavoro di George Miller, capace di dare nuove sfumature di senso al percorso della protagonista.

    Parallelismi e contaminazioni che non penalizzano questa nuova sontuosa opera di George Miller, che sconta solo il pesantissimo confronto con la dirompente forza di Mad Max: Fury Road, anche in termini di ricezione e aspettative. Un film talmente importante e debordante da traboccare anche qui, trasmettendo la sensazione che spesso i suoi vuoti siano ancora più suggestivi ed efficaci delle storie che li hanno riempiti in Furiosa: A Mad Max Saga.

    Furiosa: A Mad Max Saga è disponibile dal 23 maggio nelle sale italiane, distribuito da Warner Bros.

    Dove vedere Furiosa: A Mad Max Saga in streaming

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    7/10

    Valutazione

    George Miller firma un prequel più convenzionale e meno travolgente dell’inarrivabile Mad Max: Fury Road, che trova però la propria strada nell’impetuoso climax conclusivo.

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    Io e il Secco: recensione del film di Gianluca Santoni

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    Io e il Secco

    Si apre con la struggente Sere nere di Tiziano Ferro Io e il Secco, mentre sullo schermo scorrono le immagini delle torri Hamon di Ravenna, recentemente abbattute ma indelebili nella memoria dei cinefili grazie a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, capolavoro di alienazione, incomunicabilità e disumanizzazione. Temi che ricorrono, nei medesimi luoghi ma con registri diversi, anche in questa notevole opera prima di Gianluca Santoni, dolceamaro incontro di solitudini e disperazioni.

    È la storia del piccolo Denni (con la I, curioso richiamo al precedente corto di Gianluca Santoni Gionatan con la G), che dopo aver assistito all’ennesimo atto di violenza nei confronti della madre (Barbara Ronchi) da parte del padre (Andrea Sartoretti) elabora uno spiazzante piano. Il bambino (interpretato da Francesco Lombardo) si rivolge al sedicente super-killer Secco (Andrea Lattanzi) per affidargli il compito di uccidere suo padre. In realtà, Secco è un giovane sbandato del tutto innocuo, che vive in un’area povera e desolata della Rivera romagnola insieme al fratello ex galeotto. Fiutando la possibilità di derubare il padre di Denni, Secco accetta comunque l’incarico, dando il via a un’inaspettata amicizia col bambino, fatta di amarezza e ironia e basata sui problemi di entrambi con la figura paterna.

    Io e il Secco: un incontro di solitudini sulle note di Sere nere

    Io e il Secco

    Io e il Secco racconta dal punto di vista di un bambino una società al crepuscolo, fiaccata da problemi ormai noti come la violenza domestica, la tossicità delle figure paterne e l’impossibilità di raggiungere una soddisfacente stabilità economica e personale. Lo fa ambientando la narrazione in una terra da sempre associata alla leggerezza e al divertimento come la Riviera romagnola (nello specifico il ravennate e il cesenate), di cui invece in questo caso sono mostrati i risvolti più cupi opportunamente nascosti dalla macchina del turismo, come gli ecomostri, il lavoro nero e la criminalità legata alla costa. Il lavoro di Gianluca Santoni diventa così il perfetto controcampo narrativo ed emotivo del recente documentario Vista mare, anch’esso capace di mostrare cosa realmente avviene fra un’estate e l’altra, nei pressi delle discoteche e delle spiagge non ancora prese d’assalto dai turisti.

    Ci si affeziona alla fragile e improbabile amicizia di Denni e Secco, che si sostengono a vicenda in mezzo a malavitosi, abbandono e famiglie disfunzionali, legati da un piano fantasioso e brutale, come fantasiosi e brutali sanno essere a volte i bambini, intenti a interpretare una realtà che sfugge alla loro comprensione. Non mancano alcune semplificazioni (Denni lasciato libero di vagare per il territorio a soli dieci anni di età, l’improbabile melting pot di accenti e dialetti, un epilogo che avrebbe beneficiato di un pizzico di coraggio in più), ma Io e il Secco, a differenza di gran parte del cinema italiano contemporaneo, dimostra di avere un cuore, tratteggiando un rapporto in continuo divenire fra due emarginati, in lotta contro la realtà per motivi diversi ma complementari e perciò affini al di là delle loro differenze e delle loro divergenze.

    Un promettente esordio

    Fra abitazioni abbandonate, piscine putride e spiagge deserte ma sempre suggestive, Denni e Secco perdono l’innocenza ma guadagnano una cosa altrettanto importante, cioè un’amicizia capace di resistere alla sofferenza, agli imprevisti e alla violenza e di regalare slanci poetici e momenti di sincera commozione. Il promettente esordio di un talento da proteggere, capace di dare nuove sfumature di senso a un caposaldo della musica pop italiana come Sere nere fino ai titoli di coda, quando la ascoltiamo nuovamente nella versione dei Santi Francesi.

    Io e il Secco è disponibile nelle sale italiane dal 23 maggio, distribuito da Europictures.

    Dove vedere Io e il Secco in streaming

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    7/10

    Valutazione

    Gianluca Santoni firma una convincente opera prima, ambientata in una Riviera romagnola desolata, teatro di un’amicizia improbabile e della perdita dell’innocenza di due giovani emarginati.

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    Mad Max: Fury Road, recensione del film di George Miller

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    Fiammeggiante, adrenalinico e soprattutto furioso. Mad Max: Fury Road di George Miller è tutto questo, nonché un perfetto connubio fra cinema d’azione e autorialità, che fin dalla presentazione durante il Festival di Cannes del 2015 ha ispirato spettatori e cineasti, diventando di fatto l’asticella difficilmente superabile per ogni blockbuster action. Un’opera sontuosa, a cui è opportuno ripensare in occasione dell’arrivo in sala del prequel Furiosa: A Mad Max Saga, diretto ancora dall’inossidabile regista australiano.

    Nonostante le incursioni nel fantastico (Le streghe di Eastwick, Tremila anni di attesa), nel cinema per famiglie (Babe va in città, Happy Feet, Happy Feet 2) e nel più straziante dramma (L’olio di Lorenzo), la carriera di George Miller è indissolubilmente legata alla saga di Mad Max e alle sue atmosfere postapocalittiche. Nel 1979 è infatti stato il primo film del franchise (in Italia Interceptor) a imporre all’attenzione generale il regista australiano e il suo giovanissimo protagonista Mel Gibson nell’iconico ruolo di Max Rockatansky. Una felice contaminazione fra azione, fantascienza e sfumature western, rielaborata già nel 1981 con il sequel Mad Max 2 (in Italia Interceptor – Il guerriero della strada) e nel 1987 con il terzo capitolo Mad Max oltre la sfera del tuono, impreziosito dal celebre brano di Tina Turner We Don’t Need Another Hero (Thunderdome).

    Siamo quindi di fronte a una saga che George Miller ha più volte continuato e riavviato, apportando di volta in volta piccole variazioni a un canovaccio ben rodato, fatto di desolazione, violenza e lotta per le materie prime. Un progetto interrotto dall’ascesa di Mel Gibson e da numerosi ostacoli economici e produttivi, riportato però a nuova vita proprio con Mad Max: Fury Road, vero e proprio reboot con Tom Hardy nei panni di Max Rockatansky.

    Mad Max: Fury Road, un prodigioso, furente e fiammeggiante inseguimento

    Mad Max: Fury Road

    Le poche nozioni salienti dei precedenti capitoli (lo scenario postapocalittico, il doloroso passato del protagonista) vengono brillantemente riassunte da George Miller in un rapidissimo incipit, a cui fa seguito la descrizione di un mondo distrutto e scarnificato, ma allo stesso tempo dall’ampia mitologia. Tutti i dubbi sulla capacità di George Miller di compiere un efficace world building dopo 3o anni di distanza dal cinema d’azione vengono fugati in pochi minuti, durante i quali facciamo la conoscenza dello spietato villain Immortan Joe, che nonostante le sue difficoltà respiratorie (evidente il richiamo a Darth Vader) impone una dittatura grazie alle sue immense e preziose scorte di acqua, dei suoi fedeli Figli di Guerra in precarie condizioni fisiche, e della nuova versione di Max Rockatansky, fatto prigioniero e ridotto a mero donatore di sangue per rinvigorire questi guerrieri.

    Ma a dominare la scena è soprattutto la Furiosa di Charlize Theron (interpretata da Anya Taylor-Joy in Furiosa: A Mad Max Saga), prestigiosa e potente Figlia della Guerra che con la scusa di recuperare carburante dalla vicina Gas Town si dà alla fuga insieme alle Cinque Mogli di Immortan Joe (Rosie Huntington-Whiteley, Zoë Kravitz, Riley Keough, Abbey Lee e Courtney Eaton) schiave del tiranno da lui scelte per perpetuare la sua stirpe. Insieme ai suoi fedelissimi, Immortan Joe si mette alla caccia di Furiosa, alla guida di un esercito di mezzi pesanti e sinistri.

    Dal punto di vista della mera trama, Mad Max: Fury Road non è quindi altro che un lungo, folle e vorticoso inseguimento, interrotto solo da brevissime fermate intermedie, irrobustito da alcuni notevoli personaggi secondari (il tormentato Nux di Nicholas Hoult e la coraggiosa Valchiria di Megan Gale) e alimentato dal rapporto in continua evoluzione fra Max e Furiosa, fatto di odio e diffidenza ma anche di necessaria cooperazione.

    Uno spettacolo visivo e sensoriale

    Mad Max: Fury Road

    In un’epoca di blockbuster raffazzonati a colpi di CGI e spettacolarizzazioni fini a loro stesse, George Miller va in netta controtendenza, affidandosi il più possibile a scelte analogiche (fondamentali in questo senso le desertiche location della Namibia) e dando vita a una scenografia curata nei minimi dettagli (giustamente premiata con l’Oscar, uno dei 6 conquistati dal film), capace di tratteggiare le dinamiche di un mondo morto, in cui ogni residuo della civiltà diventa oggetto di riciclo e riuso. Le vecchie auto (fra cui la celebre V8 Interceptor di Max) vengono quindi riadattate per solcare la sabbia, le ossa diventano ornamenti e persino le chitarre elettriche risorgono a nuova vita, sparando note e fiamme dall’alto di un camion per incitare gli inseguitori.

    Una messa in scena prodigiosa e allucinata, priva di qualsiasi compromesso logico, fiore all’occhiello di un lavoro in cui il mezzo si fa continuamente contenuto, rinvigorendo la narrazione e mai limitandola. Uno spettacolo visivo e sensoriale, che non deve però mettere in secondo piano la sostanza di un racconto moderno e per certi versi in anticipo sui tempi, con al centro un’eroina pericolosa, taciturna e solitaria, alla guida di un’ardita ribellione ai danni della tirannia e del patriarcato. Un’opera complessa e sfaccettata, che fra i suoi tanti eccessi (le cinture di castità coi denti, i continui richiami al Valhalla) riesce a fare emergere riflessioni sul ruolo della donna, sulle dittature e persino sul fondamentalismo, in grado di convincere le persone a sacrificare le loro stesse vite in nome di cause inutili e di ricompense illusorie.

    Mad Max: Fury Road, un mondo al crepuscolo

    Mad Max: Fury Road

    In questo mondo al crepuscolo si muove come un fantasma Max Rockatansky, l’altra faccia della medaglia di Furiosa. Il personaggio di Charlize Theron (che dimostra la sua predisposizione per il cinema action, sfruttata successivamente anche in Atomica bionda e The Old Guard) ha evidentemente un passato malvagio ma adesso lotta per un nobile ideale, imboccando però spesso la strada sbagliata; al contrario, Max era un poliziotto, difensore per eccellenza dell’ordine, ma si ritrova adesso a lottare esclusivamente per la sua sopravvivenza, seguendo il vento come una banderuola ma prendendo di frequente la scelta più giusta, seppur in maniera del tutto accidentale.

    Un contrasto su cui George Miller dipinge una diffidente e astiosa collaborazione, fatta di pochissimi dialoghi e molti sguardi torvi, alimentata dalla situazione di estrema tensione e dalle menomazioni dei due, fra cui il braccio meccanico di Furiosa (come Luke e Anakin Skywalker, altro richiamo a Star Wars) e la maschera che copre per lunghi tratti il viso di Tom Hardy, alle prese con questa dinamica anche per Christopher Nolan ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno e nel successivo Dunkirk.

    Mad Max: Fury Road e il western

    Come anticipato in apertura, le suggestioni western fanno parte della storia di questo franchise, ma in Mad Max: Fury Road emergono in maniera dirompente, anche senza la presenza di una specifica frontiera da attraversare o proteggere. Non solo per le sconfinate ambientazioni desertiche che cingono il racconto e per i suoi personaggi costantemente in bilico fra bene e male e fra diverse fazioni, ma anche per la stessa struttura narrativa.

    Se si risale fino alle origini del western, ci si imbatte infatti inevitabilmente nel seminale Ombre rosse di John Ford, che come il film di George Miller non è altro che un lungo e frenetico inseguimento, popolato di personaggi archetipici e intriso di vendetta, innocenza, coraggio e redenzione. Se sostituiamo le diligenze con l’imponente insieme di mezzi pesanti creati per Mad Max: Fury Road, gli indiani con i seguaci di Immortan Joe e la Monument Valley con la Namibia, ci rendiamo conto che siamo di fronte a una rilettura moderna e originale di un genere che è parte fondante della storia del cinema hollywoodiano e che continua a esistere e resistere nelle forme più disparate e a diverse latitudini.

    Un successo senza fine

    Nel suo furente peregrinare, George Miller compie qualche piccola decelerazione, come la fermata al Luogo Verde delle Molte Madri, in cui il direttore della fotografia John Seale dà vita a un suggestivo effetto notte, arricchito da lampi di luce tanto inverosimili quanto efficaci. Piccoli momenti in cui rifiatare prima di riprendere la corsa, scandita dalle roboanti musiche di Junkie XL e da un’azione fatta di inseguimenti, corpo a corpo, esplosioni e luoghi angusti, che a tratti ricorda lo spirito avventuroso di Steven Spielberg e della saga di Indiana Jones, seppur con spirito molto più cupo e meno giocoso.

    Il risultato è un film mozzafiato, che nell’esiguo spazio di due ore riesce a cesellare un mondo ai minimi termini e al tempo stesso sconfinato dal punto di vista narrativo, in cui si muovono personaggi fantasiosi e bizzarri ma al contempo credibili e tridimensionali, protagonisti di un racconto in perenne equilibrio fra tradizione e insopprimibile spinta creativa. Un universo in cui la morte è dietro l’angolo, ma paradossalmente è un evento effimero, un danno collaterale da archiviare velocemente fuori campo mentre continua la corsa verso la libertà, la redenzione o molto più probabilmente verso un destino ignoto e tutt’altro che rassicurante.

    Un ultimo sguardo di intesa fra Furiosa e Max chiude questa vera e propria pietra miliare del cinema del ventunesimo secolo, che fra i vari riconoscimenti può contare anche sull’inserimento nella top 10 dei film del 2015 secondo i prestigiosi critici dei Cahiers du cinéma e sul titolo di miglior film uscito fra il 1998 e il 2023 secondo un sondaggio di Rotten Tomatoes.

    Mad Max: Fury Road

    Dove vedere in streaming Mad Max: Fury Road

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.

    Mad Max: Fury Road in Home Video

    Overall
    9/10

    Valutazione

    George Miller alza l’asticella qualitativa e narrativa dei blockbuster d’azione, firmando un’opera capace di segnare indelebilmente l’immaginario collettivo.

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