Lo strano viaggio di Giorgia Meloni in Libia - Messaggero Veneto
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Lo strano viaggio di Giorgia Meloni in Libia

Non è di accordi con i signori della guerra che avremmo bisogno

Peppino Ortoleva
2 minuti di lettura
(ansa)

Il 7 maggio Giorgia Meloni è andata in Libia. Una visita durata poche ore, di cui si è saputo quando la premier era già in viaggio, e del cui reale significato si è potut0 apprendere ancora meno.

Il comunicato ufficiale informa che “sono state firmate delle dichiarazioni di intenti in materia di cooperazione universitaria e ricerca, salute, sport e giovani nella cornice del Piano Mattei per l’Africa”.

Ma è davvero per firmare simili vaghe “dichiarazioni” che Meloni e alcuni dei suoi ministri hanno fatto questo spostamento? E non c’è contraddizione tra il coinvolgere nel “piano Mattei” il governo di Tripoli e l’incontrare nello stesso giorno il padrone di un’altra parte della Libia, il generale Haftar, legittimando così contemporaneamente due forze che si fanno la guerra?

Nei comunicati ufficiali sul viaggio di Meloni mancano due elementi. Il primo è che la Libia non è uno stato vero e proprio, ma uno di quelli che in inglese si chiamano failed state, un’entità semi-anarchica divisa in due nella parte costiera e, all’interno, spezzettata tra molte bande più gangsteristiche che propriamente militari.

Il secondo è che un tema cruciale degli incontri riguarda il “contenimento” dei flussi migratori da parte dei due “governi” della Libia del nord.

In cambio di un analogo freno alle partenze i governi di Tunisi e del Cairo hanno ricevuto abbondanti sussidi, anche se nel caso di Tunisi i patti non sono stati poi rispettati.

Possiamo credere che il premier di Tripoli o il generale Haftar si siano offerti di farlo gratis? Di questa parte degli accordi, sicuramente più sostanziosa di qualsiasi “dichiarazione d’intenti”, non c’è però traccia nei comunicati.

Che cosa vuol dire poi “contenimento”? Da tempo il governo Meloni ma anche altri che lo hanno preceduto ci dicono che la loro principale preoccupazione non è compiacere la xenofobia che essi stessi alimentano, è fermare “i trafficanti di esseri umani” che identificano soltanto negli scafisti, cioè in coloro che conducono i migranti nel tratto finale (e troppo spesso mortale) del loro viaggio.

È, semplicemente, una menzogna. Il traffico di esseri umani viene esercitato, con grande profitto, da molti diversi soggetti, a cominciare dai governi di vari paesi.

In Libia, solo una parte dei migranti riescono ad arrivare alla costa e cercare di partire, per essere poi spesso mandati indietro da una “guardia costiera” foraggiata dall’Italia e dall’Unione Europea ma composta prevalentemente da criminali di professione.

Quelli che non ci arrivano, o sono respinti, sono “contenuti” in veri e propri lager, oggetto di compravendita tra le bande che occupano il territorio, usati per ricattare le loro famiglie.

Almeno due libri usciti in italiano lo documentano con precisione agghiacciante: uno è Fratellino di Amets Arzallus e Ibrahima Balde (Feltrinelli), racconto di un viaggio dalla Guinea alla Libia e fortunosamente alla Spagna, l’altro.

E’ la quarta volta siamo annegati di Sally Hayden (Bollati Boringhieri), un’inchiesta rigorosa sulla condizione dei migranti in Libia, e sui “contenimenti” che li riconsegnano non al paese di guerra o fame a cui cercavano di sfuggire ma agli orrori dei lageri libici.

Non è di accordi con i signori della guerra che avremmo bisogno, ma al contrario di uno sforzo (necessariamente internazionale) per mettere fine a questi crimini contro l’umanità a così poca distanza da noi, di fatto sotto i nostri occhi. Il resto è ipocrisia, demagogia, e una politica senza trasparenza.

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