Le catene della colpa

Le catene della colpa

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Un gangster diabolico, una torbida dark lady, un detective privato cinico e disilluso. È un vero e proprio prontuario dei codici del noir Le catene della colpa di Jacques Tourneur. In programma a Il cinema ritrovato.

Chi ha incastrato Robert Mitchum

Jeff Bailey gestisce una stazione di servizio in una piccola città di provincia dove vive dividendosi tra il lavoro, la pesca sul fiume e la sua fidanzata Anne. Ma il suo torbido passato torna a tormentarlo quando riceve la visita dello sgherro del gangster Whit Sterling, per il quale aveva lavorato anni prima. Jeff si ritrova così a raccontare ad Anne di come aveva accettato di rintracciare l’amante di Sterling, Kathie Moffat, scomparsa dopo aver sottratto al gangster 40 mila dollari e avergli piazzato 4 colpi di pistola nell’addome. Rintracciata la donna in quel di Acapulco, Jeff se ne era però innamorato perdutamente. E lì erano iniziati tutti i suoi guai… [sinossi]
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Gangsters, detectives, dark ladies, Martini e sigarette accese o da accendere, pronte a sbuffare nell’aria un fumo quasi cristallino, che si fa luce nelle tenebre che avvolgono anime in pena, tormentate da un passato che non possono cancellare. È un vero e proprio prontuario di tutto quanto deve esserci in un noir Le catene della colpa di Jacques Tourneur (Out of the Past, 1947), riproposto alla 31esima edizione de Il cinema ritrovato, all’interno della retrospettiva dedicata a Robert Mitchum.

Tratto dal romanzo di Daniel Mainwaring Build My Gallows Highby (firmato con lo pseudonimo di Geoffrey Homes) e da lui sceneggiato con il contributo di James M. Cain (non accreditato), Le catene della colpa si apre con uno sguardo sull’edenica provincia americana, dove tra candide staccionate dipinte di fresco, rasserenanti vedute lacustri e una stazione di servizio dall’insegna forse troppo proterva, si srotola placida la vita del benzinaio Jeff Bailey (Mitchum), perlomeno fin quando il suo passato non torna a tormentarlo. Nel dettaglio a scovarlo lì, nelle inedite vesti di uomo medio americano, con tanto di fidanzata virtuosa, è un vecchio compare di loschi intrighi: lo sgherro del gangster Whit Sterling (Kirk Douglas).
Il vecchio boss vuole vederlo e a Jeff non resta che raccontare tutto alla sua amata, fin dal principio, proprio nel corso del tragitto che lo condurrà a un nuovo incontro con il malavitoso. In passato, Jeff era stato infatti un detective privato e Sterling lo aveva assoldato per rintracciare la sua amante, Kathie Moffat (Jane Greer), scomparsa dopo avergli sottratto 40 mila dollari e assestati nello stomaco quattro colpi di pistola. Ma una volta rintracciata la donna fuggitiva in quel di Acapulco, Jeff se ne era perdutamente innamorato. Ambigua ma anche animata di un’irresistibile energia quasi di stampo adolescenziale, Kathie lo aveva trascinato con sé, ventilandogli la possibilità di una vita insieme. Ma rintracciati e ricattati da un vecchio socio di Jeff, i due si erano poi dovuti separare, dopo che la ragazza aveva ucciso l’incauto ricattatore con un fumante colpo di pistola. Ora, a distanza di alcuni anni, Sterling ha un nuovo incarico per Jeff: deve aiutarlo a liberarsi di uno zelante avvocato che minaccia di denunciarlo al fisco per evasione fiscale. Ma lì nella villa di Sterling sul lago Tahoe, Jeff ritrova anche Kathie. E il sentore di essere sul punto di cadere in una esiziale trappola, per lui si fa sentire ben netto.

Provoca un certo stupore il finire catapultati in una trama contorta e ben orchestrata quale è quella di Le catene della colpa, lo spettatore odierno non può che provare un certo disagio e concludere tra sé e sé che probabilmente il cinema hollywoodiano da lungo tempo ripone ben poca fiducia nelle sua capacità di attenzione ed elaborazione di una storia, se è vero, come è vero, che vicende complesse come queste nessuno ha più l’ardire di sottoporgliele. Né personaggi così complessi, multiformi, intriganti, sempre esposti sul crinale tra il bene e il male, tra una vita tranquilla nella più anonima delle province americane e un rocambolesco caleidoscopio di intrighi, contrattempi, voltafaccia tra le più varie e talvolta esotiche location.

È un film ricchissimo Le catene della colpa, di situazioni, svolte narrative, personaggi presentati con precisione a prescindere dalla durata della loro presenza sullo schermo. Oggi basterebbe anche solo uno dei suoi colpi di scena a fare di un qualsiasi film, un grande film.
Oggi che si ha forse eccessivo pudore anche a proporre un lungo flashback, come quello che occupa quasi la metà del film di Tourneur. Ma a prescindere dall’ingrato paragone con il cinema odierno, Le catene della colpa deve la sua grandezza, oltre che all’abilità con cui è congegnato il suo script, anche alla brillantezza mai doma dei suoi dialoghi, sui quali fin dal principio (lo sgherro che chiede informazioni su Jeff a una pettegola di paese) si innesta un ritmo cadenzato che non cede mai il passo, affinché allo spettatore sia sempre ben chiaro che non può e non deve cedere ad alcuna distrazione.

Ha un qualcosa di sinceramente appassionato la regia di Tourneur, che oltre a concentrarsi con dedizione sui suoi interpreti, si prodiga in sinuosi movimenti di macchina da presa che fanno impallidire di vergogna la fluidità forse troppo abusata della staedicam contemporanea. Elegante sperimentatore della grammatica cinematografica, il regista di Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombi riesce qui infatti a costruire un erotismo rovente con una lampada che cade, una porta sbattuta dal vento e un’incursione rapida verso la vegetazione lucidata dalla pioggia battente. Numerose sono poi nel film le sequenze al chiaro di luna, illuminate con strabiliante maestria da Nicholas Musuraca, direttore della fotografia per il Fritz Lang di Gardenia Blu e il Siodmark di La scala a chiocciola.

Caposaldo imprescindibile del noir classico, Le catene della colpa è stato inoltre oggetto di un poco incisivo remake nel 1984 ad opera di Taylor Hackford (Due vite in gioco, con Jeff Bridges e Rachel Ward), mentre la disillusione densa di ironia e autoironia del personaggio incarnato da Mitchum si è poi travasata nel miglior cinema degli anni ’70, in particolare in quei film che hanno saputo coglierne l’impreritura attualità, affidando proprio all’attore dei personaggi ancora più votati a un insopprimibile decadentismo, come l’Harry Kilmer di Yakuza (Sydney Pollack, 1974, sempre in programma a Il cinema ritrovato) o il detective chandleriano di Marlowe, il poliziotto privato (Dick Richards, 1975).
Alla cinefilia raffinata di Peter Bogdanovich non deve poi essere sfuggito il personaggio chiave del film, ovvero il ragazzo sordomuto, aiutante nella stazione di servizio di Jeff, che avrà un ruolo decisivo nella risoluzione delle sue traversie e a cui sarà affidato il finale del film. Echi di questo ruolo li ritroviamo infatti nel personaggio di Billy (Sam Bottoms) de L’ultimo spettacolo (The Last Pcture Show, 1971).

La nostalgia per i grandi noir del passato ha dunque accompagnato tanto cinema degli anni ’70, in parte quello della decade successiva, fino ad arrivare al più tardo neo-noir dei ’90. Difficile resistere alle suggestioni degli intrighi cui sono condannati personaggi fragili e tormentati, facili prede per le bizze di un destino cinico e baro, creature spettrali di non-morti ancora intenti a sfidare la sorte, obnubilati dalla malìa di una torbida dark lady, ma senza mai svendersi, proprio come il protagonista di Le catene della colpa, per un Martini.

Info
La scheda de Le catene della colpa sul sito de Il Cinema Ritrovato.
Il trailer originale de Le catene della colpa.
 
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