'Ndrangheta, processo Gotha, la procura chiede 28 anni per Paolo Romeo. "Ha piegato un'intera comunità ai propri scopi" - la Repubblica

Cronaca

'Ndrangheta, processo Gotha, la procura chiede 28 anni per Paolo Romeo. "Ha piegato un'intera comunità ai propri scopi"

L'ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo (ansa)
I magistrati di Reggio Calabria lo hanno definito una "divinità criminale a due facce". Chiesti anche venti anni ciascuno per l'ex senatore Antonio Caridi e per l'ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra, tredici per don Pino Strangio, parroco di San Luca
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Ventotto anni di carcere per l’ex deputato Psdi, Paolo Romeo, motore immobile del progetto eversivo che ha permesso alla direzione strategica della ‘Ndrangheta di trasformare le istituzioni in una macchina per riciclare capitali sporchi e gestire il consenso sociale e criminale. Venti ciascuno per l’ex senatore Antonio Caridi e per l’ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra, fondamentali strumenti di realizzazione di quella colonizzazione dello Stato. Tredici per don Pino Strangio, storico rettore del santuario di Polsi, ancora oggi parroco di San Luca, altro fondamentale filo di quella ragnatela eversiva.   

Sono pene pesantissime quelle invocate dalla procura antimafia di Reggio Calabria al termine della requisitoria del processo Gotha, che in quasi 400 udienze ha ricostruito il progetto criminale eversivo con cui l’élite riservata dei clan ha azzerato la democrazia, è entrata “non chiedendo permesso, ma da padrona nelle istituzioni” e le ha piegate ai propri scopi.   

Reggio, la Calabria e le istituzioni diventate paravento di un sistema mafioso 

“La componente riservata della ‘Ndrangheta la trasforma converte in un contropotere in grado di trasformare gli organi di governo in un paravento di un sistema mafioso la cui componente apicale opera stabilmente all’interno delle istituzioni”. Così il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha spiegato il cuore del progetto criminale eversivo della direzione strategica dei clan ed qui è da ricercare il motivo delle pesantissime richieste di condanna, invocate in aula dal procuratore capo Giovanni Bombardieri al termine di una "maratona" di udienze iniziata il 30 aprile e che ha visto anche i pm Sara Amerio, Walter Ignazzitto, Stefano Musolino e Giulia Pantano.  

“Questo processo – dice Bombardieri - è un processo alla ‘Ndrangheta, quella più pericolosa, che si prende le istituzioni, che sottrae risorse riservate allo sviluppo, è un processo fondamentale per quello che è stato, è e sarà il destino di questa comunità”. Quella che troppo spesso, è emerso nel corso del processo della lunga istruttoria, ha fatto finta di non vedere e non sapere, che si è prestata ad un gioco delle parti “andato in scena anche grazie alla diffusa mafiosità sociale. Ma se la ‘Ndrangheta condiziona le realtà economiche e domina la politica e le istituzioni, il risultato non può essere quello che abbiamo davanti: una città povera, con ridotte possibilità di sviluppo e con una pressione fiscale fra le più alte d’Italia”.  Conclusione amara, ma inevitabile per una comunità – è emerso da anni di indagini, continuate anche durante il lunghissimo dibattimento – per quasi due decenni diventata ostaggio, se non vittima consapevole, della direzione strategica dei clan. “Non è un’entità astratta – sottolinea il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo -  Ha compiti ben precisi che sono compiti che la ‘Ndrangheta deve svolgere in relazione a quelle che sono le sue mansioni di tipo politico di gestione del territorio”.  

Il manifesto della componente riservata della ‘Ndrangheta 

È la ‘Ndrangheta vera, quella più pericolosa, capace di aspettare decenni pur di attuare un progetto eversivo. E di nascondersi. Lo ha dichiarato – si ricorda nel corso della requisitoria - il boss di Limbadi Luni Mancuso, nell’ormai nota intercettazione in cui proclama che “la ‘Ndrangheta non esiste più, esiste la massoneria. La ‘Ndrangheta gliel’abbiamo lasciata a quei quattro straccioni che ancora ci credono”. Lo ha confermato l’ex Gran Maestro del Goi, Giuliano Di Bernardo, sentito come teste in aula, quando ha spiegato che all’epoca della P2 è stata sciolta solo una sigla. “Come cambiare l’insegna di un bar” dice Lombardo, che amaro osserva “è devastante pensare che l’azione di contrasto di determinati fenomeni, non sottrae alla ‘Ndrangheta la sostanza ma solo l’apparenza esteriore”. Ecco perché, fa notare il procuratore, il boss di Limbadi, ascoltato dagli investigatori, può dichiarare “la possono chiamare P3,P4,P5, rimaniamo sempre noi” dichiarava intercettato Luni Mancuso.  

Ed è una sorta di manifesto della ‘Ndrangheta invisibile. Quella che ha imparato a usare l’esercito di picciotti e gregari che ancora si inginocchiano di fronte ad altari e giurano su quei santini bruciati, considerati “buffonate” dall’élite dei clan persino all’epoca del “re dei re” Giovanni De Stefano, che nel 1930 veniva condannato per omicidio. Quella che a quelle truppe ha imparato a nascondere nasconde anche la propria esistenza, trincerandosi dietro generali visibili e regole certe. Quella che nel tempo ha immolato interi “reparti” di picciotti, luogotenenti e boss per distogliere le attenzioni investigative dal cuore del sistema, ma non ha mai dimenticato di redistribuire le briciole della sua immensa ricchezza fra la fanteria.  

Il programma eversivo della direzione strategica e il necessario ruolo dei soldati dei clan  

Come? Piegando le istituzioni al programma criminale eversivo della ‘Ndrangheta che non si vede ma governa. Quella ‘Ndrangheta invisibile che “nella sua componente apicale riservata allarga i suoi orizzonti operativi fino ad inglobare funzioni pubbliche che solo in apparenza continuano ad essere gestiti da organi amministrativi e politici, ma sono paravento di logiche deviate evolute pensate e rese operative da sistema mafioso, la cui componente apicale opera stabilmente all’interno delle istituzioni”. Da qui – è stato ricostruito nel corso del processo –  è nata la balcanizzazione delle società miste che per il Comune di Reggio Calabria, dagli anni Duemila in poi, sono state chiamate ad occuparsi di rifiuti, manutenzione, raccolta tributi, e sono state spartite tra clan ancora prima che nascessero. Da qui, il controllo dei gangli fondamentali della burocrazia comunale, con uomini come Marcello Cammera, storico “padrone” di settori delicatissimi come i “Lavori pubblici” e braccio operativo di Paolo Romeo all’interno dell’organizzazione, per il quale la procura ha chiesto 13 anni di carcere. Da qui, la militarizzazione del “Decreto Reggio”, in teoria un rubinetto di miliardi destinato allo sviluppo della città calabrese dello Stretto, in realtà un’inestimabile riserva di denari per i clan. “Il “Decreto Reggio” – spiega Lombardo – si rifà ad un riferimento normativo che prevedeva nell’89 un finanziamento per questo territorio pari a 600miliardi di lire. Oggi corrisponderebbero, secondo dati Istat, a un finanziamento di più di 600milioni di euro. Non è un interesse ideologico quello che spinge Romeo ad interessarsi ad un finanziamento superiore a mezzo miliardo di euro”. Capitali enormi – denuncia il procuratore Lombardo – “canalizzati a favore di componenti di ‘Ndrangheta”.  

La ‘Ndrangheta, nei suoi massimi vertici, ha fatto politica. E non comprando questo o quel rappresentante eletto, ma piegando per due decenni, se non di più, il destino di un’intera comunità, disegnando un progetto eversivo delle istituzioni democratiche che le ha svuotate di ogni significato. Un programma impossibile da realizzare – chiariscono i magistrati – senza il coinvolgimento diretto della ‘Ndrangheta visibile. Quella che sul territorio si mostra, ma in realtà è specchietto per le allodole e strumento. “È uno schema a tre punte” dicono intercettati alcuni dei protagonisti del processo, come l’avvocato Marra, storico braccio destro di Paolo Romeo per il quale la procura ha chiesto una condanna a 16 anni. C’è Giorgio De Stefano, che è di diritto parte della componente invisibile ma per sangue è il corifeo di quella violenza mafiosa di rango che può ostentare chi è erede dei fondatori della ‘Ndrangheta nuova. C’è Paolo Romeo, l’altra faccia della divinità a due teste che ha controllato il destino della Calabria e non solo, anche grazie alla rete di relazioni massoniche e paramassoniche che è riuscito a tessere. È c’è la triade, espressione cristallina dei vertici della ‘Ndrangheta visibile del “mandamento Centro”, Reggio città, il cuore “istituzionale” della capitale mondiale dei clan calabresi. Sono le famiglie De Stefano, Condello, Tegano “che gestiscono la terra di mezzo” e assicurano che le decisioni prese dalla componente riservata diventino operative. Diventino quelle regole e quegli ordini che l’organizzazione visibile può comprendere, assimilare, eseguire. Senza neanche capire da dove arrivino davvero.  

Potere necessariamente collegiale 

Per la ‘Ndrangheta che non si vede ma governa, quell’esercito indistinto e anche sacrificabile è una riserva di violenza potenziale – spiega il procuratore Lombardo nel corso della requisitoria – che insieme alla straordinaria liquidità di cui i clan dispongono è carta necessaria per sedersi ai tavoli che contano. Perché la ‘Ndrangheta non è monade – è emerso da questo ed altri processi – si relaziona, ormai da decenni, con altri poteri “che non nascono mafiosi ma lo diventano nel contatto sinergico con le mafie”. Un sistema pancriminale allargato, oggi ipotesi investigativa di decine di inchieste in corso, in cui i clan calabresi siedono da protagonisti.  

Precondizione necessaria è che ci sia un organismo di vertice capace di sviluppare strategie di breve, medio e lungo periodo.  Un organismo collegiale, perché “il capo unico è un modello perdente”, la collegialità è un argine naturale alla conflittualità e anche un’ottima cortina di fumo per distogliere le attenzioni investigative. È proprio questo organismo, la direzione strategica, che per la prima volta è stato individuato dalla procura antimafia di Reggio Calabria ed è oggi al centro del processo Gotha, capace di individuare identificare anche due degli elementi di vertice, gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Il primo è già stato riconosciuto e condannato come tale in primo grado e in appello nel processo con rito abbreviato. Per Romeo, i magistrati hanno chiesto una condanna a 28 anni di carcere. Una “divinità criminale a due facce” per i magistrati la pubblica accusa, che con funzioni e ruoli diversi ha saputo piegare un’intera comunità ai propri scopri, individuare politici come l’ex senatore Caridi o l’ex sottosegretario Alberto Sarra per raggiungerli, oppure costruirli a tavolino come l’ex sindaco ed governatore Scopelliti “che non è imputato in questo processo perché non è ancora stato raggiunto il dato probatorio sufficiente per la sua giusta collocazione”.  

Il circuito criminale relazionale arma della direzione strategica 

Grazie a relazioni paramassoniche, gli uomini della direzione strategica hanno costruito un “circuito relazionale criminale” che tiene insieme politici di caratura nazionale, regionale e locale, piccoli e grandi burocrati a ogni livello istituzionale, imprenditori e professionisti. Persino l’associazionismo è diventato strumento di potere, necessario per tessere relazioni e dragare fondi, ma anche per nascondersi mettendosi in bella vista come per anni ha fatto Paolo Romeo. E il suo circolo Posidonia era “la sede effettiva, fisica, di un sodalizio segreto funzionale o meglio destinato a garantire la funzionalità pratica del progetto criminale della direzione strategica”. 

Ufficialmente era un circolo di pescatori ed amanti del mare. Quando è stato abbattuto è lì che è stata trovata una delle prove concrete dell’esistenza di quella ‘Ndrangheta riservata che ha intossicato la Calabria e non solo. Una rivista massonica che risale esattamente al periodo della latitanza del terrorista nero Franco Freda, quello di cui Romeo ha ammesso di aver curato la latitanza e che per i collaboratori era a Reggio per fondare una superloggia – che a Catania aveva una gemella tenuta a battesimo da Michele Sindona – progettata per piegare lo Stato alle esigenze di clan e altri poteri. Secondo quanto emerso nel processo Gotha, quel progetto è stato realizzato. “Non ci sono dinamiche politiche, economiche finanziarie che non siano ‘ndrangheta – commenta Lombardo - Abbiamo perso tutti in questa terra”. Almeno fino ad oggi.