“Voglio vivere a modo mio”. Luis de León, il poeta in carcere - Pangea
19 Dicembre 2023

“Voglio vivere a modo mio”. Luis de León, il poeta in carcere

Luis de León starebbe bene in un romanzo di Marguerite Yourcenar. Nato a Belmonte, Spagna, tra il 1527 e il 1528, in una famiglia di ebrei convertiti al cristianesimo, rappresenta il punto d’unione tra la cultura biblica e quella classica, tra Atene e Gerusalemme. Uomo arguto, tenace, dall’intelligenza ferrea, preferì la pazienza alla rivolta, la prova bianca agli eccessi d’abisso. Divenuto maestro teologo all’Università di Salamanca, da ragazzo si era fatto Agostiniano, lavorando, negli anni, a una riforma dell’ordine, di cui scrisse la nuova regola di vita. Con la stessa acribia, traduceva i libri biblici e le poesie di Orazio, Virgilio, Pindaro. Nel suo poetare, il senso della solitudine, lo stile austero, schietto, ‘latino’ si mescola al ritmo del salterio: Luis de León fu, allo stesso tempo, poeta cortese e profeta. Un umanista in pieno, insomma.

Tra i sommi poeti spagnoli dell’era aurea, elogiato per “il suo lavoro di pulizia, di cura della parola” per “la costruzione esatta della strofa e per l’uso di un linguaggio preciso, levigato, assolutamente efficace in bellezza e armonia” (Rosa Navarro), Luis de León va letto in contrasto al suo più noto contemporaneo, Juan de la Cruz. In Luis de León la vita nascosta ha il privilegio sulla notte oscura, lo studio primeggia sulla mistica, la leggerezza sulla genuflessione, la costanza sulla fuga, la pura forma sulla smisurata purezza, l’ascesa sull’ascesi. La prigione, piuttosto, relega entrambi tra i grandi fustigati della loro epoca. Luis de León subisce il carcere nel 1572, nel contesto delle diatribe legate alla Controriforma. Il poeta e teologo aveva osato tradurre il Cantico dei Cantici in volgare, riferendosi all’ebraico antico e non alla canonizzata traduzione latina. In realtà, era poeta notissimo, sotto spettro d’invidia. I domenicani adottarono ogni stratagemma giudiziario per impedire l’insegnamento al poeta: l’Inquisizione lo bloccò nelle carceri di Valladolid fino al dicembre del 1576. Ottenne la cattedra in Sacra scrittura a Salamanca nel 1579: tra gli allievi figurava proprio Juan de la Cruz. Alla prima lezione, dopo quattro anni di carcere, il poeta e teologo esordì con una locuzione passata alle cronache: Dicebamus hesterna die, dicevamo proprio ieri…

In Italia, l’opera di Luis de León è per lo più assente: Einaudi ha tradotto il suo lavoro più complesso, I nomi di Cristo (1997), mentre Città Nuova ha pubblicato il suo Commento al Cantico dei Cantici (2003); una raccolta delle Poesie è stata resa in italiano da Oreste Macrì, per Vallecchi, era il 1964. Così, nell’edizione del 1934 dell’Enciclopedia Italiana, scriveva di lui Salvatore Battaglia:

“La sua anima si riconosce e si effonde nelle ore notturne, quando tace l’assillo delle passioni e riposano le lotte degli uomini; egli sogna e percorre nella sua lirica esaltazione le profondità della vòlta celeste, le luminose armonie stellari, il murmure dell’acqua che scende a valle, la vaghezza musicale che desta indefinite risonanze di pace; ma soprattutto misura la propria ansia di ascesa verso le mistiche altezze: Luis de León è il poeta dei silenzî e delle solitudini, sempre inseguito dalla nostalgia di spazî interminati e di oasi spirituali”. 

Uomo d’infiniti orizzonti, ammirava Petrarca e il Bembo: nelle sue poesie l’angoscia non ha mai il sentore del cilicio, non è a servaggio della rinuncia; la via nuda, la vita spoglia è sempre misurata: persegue il cliché classico, la sequela stoica, il lirico afflato che da Seneca e da Agostino giunge, appunto, a Petrarca e all’Ariosto. L’ebbra mattanza di sé è aliena al geniale Luis de León, il poeta che desidera vivere con se stesso, a suo modo – Vivir quiero conmigo – nella grazia dei giusti.

Nel suo “Libro degli uomini illustri” il pittore Francisco Pacheco descrive Luis de León in un cammeo significativo:

“Era piccolo di corpo, ben proporzionato; la testa grande, armonica, ricoperta di ricci; vasta la fronte; il viso più rotondo che aguzzo; bruno l’incarnato; verdi e vivaci gli occhi. Per costume, è stato l’uomo più quieto che abbia mai conosciuto, benché le sue parole fossero dotate di singolare spigolosità. Sobrio nel bere, nel mangiare, nel sonno, era pudico, fedele, puntuale nella promessa esposta, composto. Di rado rideva”.

L’iconografia ce lo mostra come un uomo pronto a tutte le prove, mai prono; di quell’umiltà che posseggono senza gara le orgogliose nature. In un’era di preziosismi e di maldicenze, di lussi e di mendicanti, di incanti e di disincantati, preferì l’equilibrio, la bella misura, il sole da tenere in mano, come una mela. Tra i suoi capolavori, va ricordata l’ispirata traduzione – con commento – del libro di Giobbe. Morì mentre agosto sfioriva, nel 1591, pochi giorni dopo essere stato eletto priore agostiniano della provincia di Castilla.

La maggior parte delle poesie più note – a cui dava poco peso, per retrattile perfezionismo – Luis de León le scrisse in carcere. Fa parte anche lui della specie dei poeti reclusi, che tramutarono la propria cella in una galassia.

***

Quando contemplo la mia vita

Quando contemplo la mia vita
e mescolo occhi e pensieri
vedo membra sfibrate e senza
fiato: la robusta età è finita,

la giovinezza, così ricca, è stata
pari a una candela nel cuore
del vento, falciata con tale forza
da perdersi quasi subito –

condanno la mia vita tiepida
il disorientamento che mi ha
tradito e messo in pericolo.

Con velocità e leggerezza voglio
fuggire questo stato, a cui
mi costringe la continua colpa.

*

Amore mi ha preso in un volo

Amore mi ha preso in un volo
dove alcun pensiero arriva;
ma tutta questa grandezza
al contempo mi intristisce e turba:

chi non è rovesciato a terra
per infecondo fondamento
e ascende ad alti seggi, presto
subisce di sé rapida rapina.

Ma mi consola, illustre signora,
non essere altro che un ricamo
della vostra grazia – confido in voi:

la vostra supremazia mi risarcirà
dalle mie colpe, il vostro bene
saprà rendere duraturo il mio.

*

A Francisco Salinas, musicista cieco

Si rasserena l’aria
ammirando la bellezza e la cieca luce
di Salinas, quando suona
la sua musica estrema
governata da sapienti mani.

Divina è la mia
anima, annegata nell’oblio:
riscopre i pozzi
della memoria perduta
l’origine che la ha generata.

Accade, così,
che nel pensiero e nel destino si eleva;
disconosce l’oro
che il cieco volgo adora
bellezza ingannevole e caduca.

Tutto traspira nell’aria
e raggiunge la più alta sfera
dove si ascolta in altro modo
una musica
che non muore, la primizia.

Quel sommo maestro
con destrezza crea
su questa immensa cetra
il suono sacro
che sostiene il nostro eterno tempio.

Composto
di numeri concordi, a cui lega
consonante risposta
con profitto entrambi
sensali di una dolce armonia.

L’anima vaga
nel mare della dolcezza, finalmente
lì annega
nessun accidente
estraneo o improvviso si avverte.

Ebbro svenire!
Morte che dona la vita! Dolce oblio!
Tienimi in tale riposo
non restituirmi mai
a questo vile sentire!

Tienimi nel bene
gloria di apollineo coro
insieme agli amici,
a ciò che amo sopra ogni tesoro:
il resto non è che triste decoro.

Suona di continuo
Salinas, le tue orecchie sono
le mie: il divino bene
dà fuoco ai sensi e lascia
chi non gli appartiene nel sonno.

*

In carcere

Invidia e menzogna
mi hanno incarcerato.
Lode all’umile stato
del saggio che si ritira
da questo mondo malvagio
e dalla povera casa
sceglie la via dei campi
per stare con Dio il solo
compassionevole e la vita
passa solitario
né invidioso né invidiato.

*

Vita nascosta

Che vita felice quella
di chi fugge i rumori mondani
e segue la via nascosta
il sentiero percorso
dai rari saggi che abitano il mondo!

Non intorbida il suo cuore
l’orgoglio dei grandi di Stato
il dorato frontone
degno di lode, costruito
dai supremi mori, sorretto dal diaspro.

Non si cura della fama
che grida il suo nome
non si cura se scocca
la lingua delle lusinghe
perché la verità la condanna.

Perché dovrei essere felice
se un vano dito mi indica
se preso da questo vento
mi scopro inerme
torturato da desideri mortali?

Oh campo, monte, fiume!
Segreto delizioso e fermo!
La nave rischiò di spezzare
il riposo dell’anima: fuggo
dal mare in tempesta.

Sogno ininterrotto, voglio,
un giorno puro, felice, libero;
non mi importa del viso
inutilmente severo
che esalta il sangue e il denaro.

Mi farò svegliare dagli uccelli
il cui canto non ha legge
non mi lascio imbrigliare
dalle convenzioni
da chi dipende dall’arbitrio altrui.

Voglio vivere a mio modo
voglio godere del bene che devo al cielo
solo, senza testimoni,
privo di amore e di zelo,
di odio, di speranze, di ricatti.

Sul crinale della montagna
ho piantato un giardino:
in primavera si ricopre di fiori
è già il frutto della mia speranza.

Desidero che la sua
bellezza si accresca
in questa ombrosa valle:
per questo corro
verso la fontana limpida.

Seguo la sinuosa
spirale degli alberi:
i sentieri ricchi
di verdure e di fiori
che si diffondono ovunque.

Nel giardino, il vento
è in preghiera: offre mille
odori ai sensi; gli alberi tremano
con rumori morbidi
dimentichi dell’oro e dello scettro.

Ha il suo tesoro
anche chi confida in un legno debole:
ma non baderò al pianto
di chi diffida
quando il vento insiste.

Per me, una povera
mensa, fornita di amabile pace
è migliore dei piatti d’oro
finemente decorati: sono
di quelli che non temono l’ira del mare.

Miserabili, gli uomini
arsi da una sete
implacabile, da un comando
che non dura. Sdraiato
all’ombra io canto.

Sdraiato all’ombra
coronato di edera e allora
tendo l’orecchio
al dolce suono, armonico,
del plettro mosso con sapienza.

Luis de León

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