Encanto, sessantesimo lungometraggio della Disney, ha un’ambientazione sudamericana e il soggetto originale (come le musiche) è firmato da Lin-Manuel Miranda, autore del celebratissimo Hamilton, da anni uno dei musical di maggior successo a Broadway e a Londra.

Al centro della storia c’è la famiglia Madrigal, guidata con autorevolezza e severità dalla nonna Alma, custode del cimelio più prezioso della famiglia, una candela che è simbolo sia di dolore (la morte del marito di Alma, sacrificatosi per salvare lei e i loro bambini appena nati e dare loro un futuro) che di rinascita. Ha infatti regalato un talento magico a ciascun membro della famiglia: c’è chi ha un udito eccezionale, chi ha forza erculea, chi è capace di prendere le sembianze di chiunque, chi guarisce con il cibo e chi fa nascere fiori.

Mirabel è l’unica normale, ma forse bisognerebbe dire che è lei, senza talenti magici, quella “diversa” e, nonostante un carattere solare e generoso, non può fare a meno di soffrire questa condizione. Eppure proprio per questo è la prima a notare e ad avere il coraggio di affrontare le crepe che si insinuano nella magia di famiglia, incarnata da un’abitazione incantata dove gli spazi si moltiplicano e cambiano secondo le necessità e le prerogative dei suoi abitanti. Una casa che è un vero e proprio mondo, insieme al piccolo villaggio che è cresciuto e ha prosperato lì accanto proprio grazie alla magia generosa dei Madrigal. Mirabel si mette alla ricerca di una spiegazione, ma chi tenta di avvisare di un pericolo spesso non viene creduto o preso per menagramo, come era successo anni prima allo zio Bruno (in italiano doppiato da Luca Zingaretti), dotato di preveggenza e a un certo punto emarginato perché troppo spesso latore di notizie brutte o non conformi alle aspettative.
Come aveva fatto anni fa Coco, raccontando in modo commovente il rapporto con il passato e la memoria di chi non c’è più, Encanto (che pure non raggiunge il livello di poesia di quel precedente) si confronta con un universo famigliare unito quanto contraddittorio, dove a volte l’amore reciproco non basta a risolvere i problemi e dove bisogna avere il coraggio di scombinare le carte e tornare alle origini per recuperare se stessi.

La Disney si gioca (soprattutto nella versione originale) un cast creativo e di interpreti ispanico omaggiando, come aveva fatto con il Messico, un altro universo culturale e visivo; e a prima vista Encanto potrebbe sembrare l’ennesimo inno all’inclusione e alla valorizzazione della diversità. La condizione di Mirabel, infatti, senza talenti in una famiglia tutta un po’ super, che all’inizio sembra una condanna, si rivela invece un dono, e il film suggerisce che anche i talenti eccezionali possono a loro volta diventare una specie di condanna nel momento in cui finiscono per definire in modo troppo rigido il ruolo di fronte alla famiglia e al mondo (come accade alla forzuta Luisa).

Una riflessione non banale che viene trasmessa in una confezione impeccabile, colorata e piena di inventiva, capace di mescolare momenti di pura comicità con altri di dramma vero e profondo, come quello di nonna Alma, una matriarca autorevole segnata dal dolore, che solo alla fine saprà recuperare il senso del dono ricevuto tanti anni prima.

Laura Cotta Ramosino

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