Devozione | minima&moralia

Devozione

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di Cristina Eleni Kontoglou

La prima volta è stato per gioco. I giochi nascondono delle insidie, sul momento. Ma dopo vinci. O perdi. Niente di più.
Quella mattina io e mia cugina giocavamo a bucare margherite con lo stelo, macchiando i polpastrelli di residui gialli farinosi.
Le nostre corone non duravano. Le corolle dei fiordalisi, aperte a forza con le dita, mimavano abiti immaginari, gonne di petali a nascondere vuoti senza arti.
A un tratto mia cugina si guardò il dito: riposava ancora un ciglio, non riusciva a toglierselo di dosso, le mani troppo piccole, incerte.
Io ero la maggiore, ed era un gioco che conoscevo e facevo al mare, quando l’acqua trascina con sé cellule inservibili, capelli, croste antiche.
Avevo fatto così tante volte il gioco… Flip flop, lo chiamavamo.

Ora l’acqua non c’era.

“Si fa così”, le dissi incollando il mio dito al suo. “Esprimi un desiderio”, intimai.

Lei restò zitta.

“Spingi”, suggerii. “Altrimenti non vincerai mai”.

Sentii la pressione di quel suo dito contro il mio. Poi ci separammo. Il ciglio era passato a me.
Avevo espresso il mio desiderio. Avevo vinto. Ma la vittoria dona spesso la voglia di essere generosi, l’accondiscendenza verso i perdenti.
Vedendo il suo viso ramato dal sole spegnersi per la delusione, proposi una rivincita. Staccai con le dita un ciglio. Sentii il dolore estendersi appena sotto la fronte.

“Ecco.”

Sul suo indice era rimasto il ciglio, al pari di uno stelo morto. Di me conservava ancora le cellule, l’ordine. Lei lo liberò, soffiandolo via come soffiano i bambini. Con violenza simulata.
La giornata di giochi era finita. Mia zia si portò via la figlia, e tornarono alla loro casa sulla discesa, verso la costa.
Io restai a osservare un orizzonte pulito, diversificato nelle gradazioni del tramonto che ora non si fondevano neppure, non sapendo in che punto compenetrarsi, da dove iniziare.

Quella notte dormii profondamente.
Provavo una sensazione rilassante che mi si allargava dentro, come una macchia libera di respirare.
La mattina seguente non avevo compagne di giochi. Corsi in cortile e pensai a un gioco da inventare, sola. Fu facile tornare con la mente al giorno prima. Troppo facile.
Staccai dall’arcata un pelo del sopracciglio, stavolta, poi espressi il desiderio.
Voglio che oggi piova per non andare al parco.
Ne staccai un altro.
Voglio che Elga mi prepari la crostata all’uva.
Mi sedetti, il viso un muscolo atrofizzato.
Voglio che si dimentichino di darmi la parte alla recita.
Voglio che Claudio mi scelga per fare la ricerca insieme.
Staccavo uno dopo l’altro quei peli, ero anestetizzata dalla ripetizione, come dopo averci passato un cubetto di ghiaccio. I desideri non erano un problema. E mi sentivo sempre più libera, gratificata. Pulita.

Arrivò l’ora di pranzo e venni richiamata in casa da Elga, la nostra domestica.

Stava preparando il tiramisù, quando le raccontai del gioco mi ascoltò appena. Prese a stirare le lenzuola sotto la macchina elettrica, il vapore avvolgeva il tavolo in olmo sbiancato, e io sparivo in una coltre equa di contorni attutiti, resi emollienti.
Il processo che avevo iniziato era una metafora di quella nube interna, che odorava di acqua per ferro da stiro e candeggina.

Il pomeriggio, proseguii il gioco. Volere o meno qualcosa, la premessa, era diventato irrilevante rispetto alla sensazione di tranquillità che mi procurava eliminare un eccesso da me.

La sera andai a cena. I miei mi fissavano perplessi mentre assaggiavo le verdure.

Poi mia madre, con le dita ancora sporche di salsa, mi prese il mento e mi girò verso di lei e il gesto era nitido, preciso. Non ero abituata a essere toccata. Non eravamo fisici, in casa, tranne per le questioni indispensabili. Ad esempio quando mi vestiva, mi abbottonava il grembiule o annodava le scarpe. Se avevo la febbre mi applicava la crema di canfora sul petto, massaggiava, ma il contatto era un espediente estraneo. Sentivo il gelo della sua pelle, e le sue dita, più tozze e solide delle mie, mi perlustravano con cautela.

“Cosa ti è successo?”

Non risposi.

A quel punto mi costrinse ad alzarmi e mi portò sotto la luce della finestra.
Vedevo il suo orrore, lo spavento, la preoccupazione.

“Chi ti ha fatto questo?”

Io, sono stata io, avrei voluto rispondere. Nessuno avrebbe mai potuto farmi niente, questo doveva saperlo bene. Nessuno poteva entrare dove io non lasciavo porte e insinuazioni socchiuse.
Ero così. Ma lei ancora si illudeva che il problema fossero gli estranei.
Guardavo la sua espressione, lo sguardo risplendere di un azzurro oro invadente. Perspicace.
Lo immaginavo più bello, valorizzato dalla pulizia di insieme. Non mi ero ancora guardata allo specchio, quel giorno. Ma non serviva.
Io ero rivestita di specchi dentro e fuori, come gli incantamenti.

Mia madre finse di immaginare che mi fossi fatta male mentre correvo in giardino.

“Tanto ricrescono” mi disse.

Questo mi ferì. Non volevo che accadesse, che quello che avevo estirpato ritornasse decretando la mia sconfitta.
E non accadde.

Quel giorno, il giorno seguente, e quello dopo ancora tolsi anche gli ultimi peli con una pinzetta che avevo trovato nella trousse di mia madre, su entrambi gli occhi.
Ormai era chiaro che le intenzioni erano sincere. Sinceramente certa di volermi senza quegli archi a delimitare le mie espressioni, le inclinazioni. Un disvelamento non richiesto.
Ora, quando mi guardavo allo specchio, dovevo indovinarmi. Impegnarmi, soffermarmi. Capire dove i segni sarebbero andati a parare. La bocca era diventata il centro del tutto. Forse anche gli zigomi. Ma persino le orecchie, i padiglioni, potevano dire qualcosa che prima, invece, non avrebbero confessato.

Il problema era uscire di casa.
Mia madre con una matita da trucco testa di moro ripercorreva tracciati a memoria, finché non riacquistavo di nuovo un volto.
Ero come un’opera d’arte ristrutturata ogni mattina, e questo mi faceva sentire ancora più eccezionale.

Gli anni passarono e il mio corpo si profuse nelle forme, mentre il viso restò quello di una bambina, come se avessi inconsapevolmente fatto un patto quel giorno, sotto gli alberi maledetti dai fiori rampicanti.

Ero passata dalle sopracciglia ai peli pubici, a quelli delle braccia, delle gambe. Poi ai capelli. Quelli, mi avevano avvisata, non sarebbero più ricresciuti. La nuca innocente, lattea come il viso, un ritorno alle origini della placenta buia. Non indossavo neppure le parrucche.

La pelle costantemente arrossata.

Gli sguardi di riprovazione in casa non bastavano a farmi sentire colpevole. Non capivo dove stessi sbagliando.
A scuola, i compagni credevano che la mia fosse una malattia congenita, come il ragazzino della sezione A con la vitiligine e le macchie di latte soffuso, che non lo rendevano meno attraente. I laghi chiari nel terreno scuro, mappe da seguire.
Mi portavano ancora dagli psicologi. E ogni volta era come prepararsi a entrare in scena.

Effetto di una mancata regolazione dei meccanismi di omeostasi, la mente segue due tipi di stimoli. Quando sono troppo alti è ipereccitata, quando diventano troppo bassi subentrano sentimenti quali noia e apatia. In alcuni il meccanismo di dopamina e serotonina non funziona correttamente. E si regolano con metodi personali. Quindi mi ricoprivo di benessere. Sapevo come darmi piacere.

Esordivano chiedendomi come stessi. E io descrivevo fatti, eventi. Fornivo informazioni.
Mi ero iscritta a un corso di giornalismo.
I miei avevano comprato una nuova macchina.

“Non voglio sapere cosa succede, ma cosa provi emotivamente, rispetto a questi fatti.” Incalzava.

Entravo nella sua mente immaginando cosa volesse sentirsi dire, cosa mi avrebbe resa più interessante, basandomi sulle poche informazioni estrapolate dal suo abbigliamento, dagli oggetti personali radunati sul tavolo.

Accennavo racconti, che di me non avevano nulla tranne il disegno preparatorio, fingendomi reticente per poi lasciarmi corteggiare, esortare.

In uno ero triste, non ero arrabbiata per la separazione dei miei. Mi sentivo come se nessuno mi avesse chiesto niente per paura di mettermi in difficoltà.

La volta dopo ero sotto pressione per l’esame di danza. Mi usavano come allieva modella, e questo mi faceva sentire in dovere di essere sempre perfetta. Ma ora sarei andata a San Pietroburgo per uno stage. E la tensione si sarebbe allentata. Lei ha mai visto gli inverni a San Pietroburgo? Sono sommersi dal grigio bianco estenuante in ogni angolo, fuori e dentro, e non incontra nessuno per giorni.

Sono stanca, adesso. Ma sono stata brava.
Ora è il mio turno di ascoltare.

Lo psicologo si sistema sulla sedia da ufficio in spandex, scelta dalla segretaria in uno stock deprezzato. Se la sua storia non sarà soddisfacente, gli farò saltare la testa come Turandot. Uno, due, tre enigmi.
Lo psicologo estraeva spiegazioni e rivelazioni sul concetto della famiglia come oppressione. Le aspettative erano ciò che mi strappavo via, a suo dire.

La responsabilità che sentivo di proteggere i miei genitori, di diventare quello che loro non avevano avuto la possibilità di desiderare, concludeva.
Di me ne usciva un’immagine levigata come un totem, che camminava sui simulacri dei miei avi.
Nobilitata. Grave.

Ero solo una ninfa innocente, nuda in boschi immaginari di Dafne odorosa, la pianta intoccabile che procura vesciche, dove le stagioni erano fatte di vetro, e i piedi sulle spine di alianto, di gerbere, si strofinavano l’uno sull’altro per scacciarle via da sé. Una ninfa senza comprensione. Che giocava ancora con gli altri in mancanza di meglio. E infilava le dita dovunque, nelle proprie e nelle altrui cavità umide di polpa. Ora sperimentando un dito ora due, ora leccandosi le dita prima di inserirle nel sonno ovattato di polvere e piacere, poi solo scostandosi appena i lembi dello slip, mentre qualcuno stava arrivando dall’altra stanza delle fragole, purché fosse l’unica, la sola a toccarsi. Gli altri potevano stare a guardare. Potevano osservarla. Dunque ero solo un gioco e potevo usarmi, strapparmi, accarezzarmi, giocarmi come desideravo. Che colpe o pensieri poteva avere il mio corpo?

Inventavo il dolore non conoscendolo. Risultavo convincente.
Non potevo dire la verità.
Gli altri ora sapevano tutto, non mi truccavo neppure più. Ma non contava. Mi volevano.
Mi dicevano che ero bella, e io non sapevo cosa fosse.
Tutto questo non aveva a che fare col corpo.
Non mi odiavo, non mi punivo, non soffrivo. Volevo solo vedermi senza indovinarmi con precisione. Togliendo, alleggerendo, facendomi vapore oscuro. Inintelligibile.

Come quando ero piccola, e i miei mi portavano in estate nei borghi, nei paesi dalle case senza porte, dove a ogni crocevia c’era un tabernacolo sacro davanti al quale fermarsi. Le mani a congiungersi in un segno della croce ripetuto tre volte.

Ero affascinata dalla reiterazione ipnotica, dalla soggezione con cui ricchi e poveri indistintamente si fermavano, di fronte a quelle teche incastonate nella pietra bianca, sovrastanti fiori di campo disposti in semplici bicchieri da cucina.

Ricordo le soste alle abbazie di campagna, o sulle pendici dei monti.
Le falesie che percorrevano in verticale le spaccature della terra in aromi sulfurei di mirto.
Le eikon dei monasteri, le immagini sacre, annerite nei pigmenti dagli incensi e dalle candele ravvicinate. Nonostante tutto, niente aveva potuto distruggere l’oro del fondo o le preziose cornici in argento, in altro oro pesante e denso.

La luminosità delle immagini sacre risaltava nell’oscurità delle sale, delle navate, tra le litanie montuose e i canti ortodossi.

La bidimensione con cui le figure eternizzavano, fuori dalle imitazioni realistiche, dalle leggi della natura e degli uomini e dalle tecniche pittoriche umane, esaltava la spiritualità dei luoghi: quelle immagini non avevano altro significato che il segno, nessuna prospettiva, punto di fuga. Solo una distesa oro. La luce non era restituita dai chiaroscuri, ma dal metallo prezioso. Il punto di fuga era collocato all’esterno, nel cuore e nello sguardo dei fedeli che le osservavano: come me oggi, le eikon indossavano solo un cuore oro e il vestito terso della pelle.

Nessuna bellezza nei disegni sgraziati, infantili.

Eppure il fascino delle icone, nella dimensione atemporale, catturava come una malia, la mano alzata, le tre dita esposte. Il libro stretto nell’altra, i simboli identici.
Una volta a casa, mia madre metteva sotto i cuscini le riproduzioni, piccole litografie a poco prezzo in fogli dorati, plastificati.
Non avevano niente di quelle che vedevamo nei monasteri, nelle pareti di icone dedicate.
Desideravo persino loro, i falsi miniaturizzati nella loro imitazione devota.
E avevo voluto farmi liki: viso puro, senza tempo. Senza segni, ombre a delimitare. Bidimensionale.

Una forma di iconoclastia, quella in cui mi ero trasformata io stessa in icona, in immagine votiva. Il tempo che avevo dedicato al mio corpo, la dedizione, la scrupolosa precisione mi avevano resa artefice e oggetto, iconografo e tavola dipinta. Loro vedevano sofferenza dove io vedevo purezza, devozione. E ancora più sotto, nello sfondo oro epurato dai segni e dalle linee, ero precisione dell’essenza.

 

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