What Doesn’t Float di Luca Balser, recensione: accade a New York

What Doesn’t Float. O del perché New York è solo questione di affondare o di restare a galla

Un film indipendente per eccellenza che attraverso sette storie diventa un inno alle stramberie umane, nevrosi cittadine legate solo dalla città e dall'acqua. In concorso al Riviera International Film Festival

Uno degli ultimi cartelloni pubblicitari nella metro di New York, realizzato dal Metropolitan Transportation Authority, recita: “Don’t be someone’s subway story”. Non diventare la storia di qualcuno in metropolitana. Il riferimento è a un accadimento strambo, a volte rude o scortese, qualcosa che sia comunque degno di essere non solo notato ma anche raccontato. Proprio così, infatti, è nato What Doesn’t Float di Luca Balser, in concorso al Riviera International Film Festival. Nel film c’è l’attrice Pauline Chalamet, che è anche co-produttrice. Lei e la sceneggiatrice Shauna Fitzgerald erano a cena a Brooklyn, discutendo delle stranezze che rendono New York invivibile, almeno finché non diventano storie divertenti da condividere davanti a un drink. Il regista passava di lì e l’hanno invitato a unirsi alla conversazione.

Potrebbero esserci state almeno 8 milioni di storie, quanti sono gli abitanti di New York. Il primo lungometraggio della loro Gummy Films, realizzato insieme alla co-produttrice Rachel Walden, ne racconta sette. Tra loro slegate. Delle vignette, stazioni di una sorta di via crucis profana per la città percorsa da uno spettatore che deve arrivare alla fine della giornata. Sette storie vicino all’acqua, da una spiaggia a un piccolo acquario, prese dal fondale, emerse rispetto a tutto quello che non galleggia, un po’ come gli ossi di seppia che il mare deposita. Umani relitti.

What doesn’t float, cosa c’è sull’acqua

Così un uomo su una tavola da stand up paddle raccoglie plastiche abbandonate in un canale si ritrova a discutere con violenza con una passante, una ragazza sale sulla motocicletta di un ragazzo non così affidabile, un anziano e un bambino e l’ira e il desiderio di protezione, l’iniziale piacere per la droga che si trasforma in un terrore sconcertante, un segreto svelato, un’ubriacatura che diventa tragedia e il panico di rimanere senza lavoro.

Quello che galleggia sono gli accadimenti, le occasioni della vita in cui le emozioni intense al centro delle sette storie escono fuori. Restano in apnea invece le motivazioni, i perché dei comportamenti dei personaggi, come si sono incontrati, che cosa stavano facendo prima, che cosa faranno dopo. Se non che le loro storie sono crude e reali, a volte riconoscibili con facilità.

Storie di New York

Quale migliore modello di New York Stories, il film collettivo del 1989 fatto di tre episodi diretti da Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Woody Allen. Il regista ha anche lavorato per tre anni sul film Rolling Thunder Revue di Scorsese.

Nonostante la dipendenza da alcuni luoghi comuni del cinema indipendente, What Doesn’t Float si distingue per eleganza. C’è un ventaglio di elementi che danno ai film il caratteristico sapore “indie” e il film non si sbilancia mai. Con una durata di soli 69 minuti, lontano anni luce dalle epopee di tre ore, il film offre abbastanza intrattenimento senza protrarsi oltre il necessario. E fa anche riflettere sul perché il genere antologico continui a prosperare, nonostante la sua familiarità: catturare istantanee di vita umana è semplicemente affascinante.

Farlo nelle grandi città ancora di più, dove la densità di popolazione costringe a riconoscersi come esseri umani. Gli scontri tra le persone più disparate mostrano compassione, ostilità, aggressività e molte altre emozioni intense. Anche perché New York è tutta una questione di affondare o restare a galla.