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Paolo Fresu: «Non inseguo il pubblico, suono quello in cui credo»

Il trombettista sardo e il suo Devil Quartet domenica all’MdV: «Questa musica ha cento anni di storia, giusto andare avanti»

Luca Muchetti

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09 Maggio 2024 - 05:15

Paolo Fresu: «Non inseguo il pubblico, suono quello in cui credo»

CREMONA - Un concerto tagliato su misura, con artigiana cura e precisione è quello che il Devil Quartet di Paolo Fresu si prepara a portare sul palco dell’Auditorium del Museo del Violino domenica alle 21 per il secondo appuntamento di Cremona Jazz. Il musicista sardo, alla tromba, flicorno ed effetti, sarà affiancato da Bebo Ferra alla chitarra, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria. Impromptus, titolo dello spettacolo, fa parte di un evento-anniversario discografico regalato da Fresu a tre dei suoi maggiori progetti contemporanei.

Fresu, suonerete in versione elettrica o acustica? Il titolo lascia immaginare che lo spazio lasciato all’improvvisazione sarà più generoso del solito.
«Conosco bene l’auditorium, dove ho sempre suonato in situazioni di natura cameristica. Il nostro quartetto ha una dimensione molto ricca dal punto di vista sonoro: principalmente elettrici, anni fa abbiamo fatto un tour acustico. Forti di questa ricchezza, sceglieremo un repertorio che sia costruito appositamente per la vostra sala da concerti. Lo stesso repertorio infatti può essere affrontato in molti modi differenti. Lavoreremo quindi su una dimensione molto acustica trattando i brani con una sensibilità differente. Impromptus è il titolo del triplo disco che sta per uscire: uno registrato col mio quintetto, uno registrato coi Devil e uno con Uri Caine. In un unico box tre dischi completamente improvvisati. Ci sono anche tre altri vinili con musica che il CD non contiene. L’insieme di questi elementi sarà alla base del concerto di Cremona».

Insieme a Stefano Bollani, lei oggi è probabilmente il jazzista italiano più noto al grande pubblico. Si sente un po’ ambasciatore del jazz nei confronti di ascoltatori non jazzofili? E questi panni sono scomodi? Penso soprattutto a certe rigidità dei puristi del jazz.
«Di recente ho suonato al Lingotto di Torino, con mille e settecento persone ad ascoltare, cioè il massimo che quello spazio può ospitare. Per il jazz è un successo, alla faccia della musica di nicchia. Penso che il pubblico stia crescendo, e poi ci sono artisti che riescono a raccogliere un pubblico più ampio. Non sento particolari responsabilità perché ho sempre fatto solo quello in cui credo, non ho mai fatto cose ‘per’ il pubblico, ma ho sempre raccontato al pubblico quello che ero e che sono, sperando che questa musica sia apprezzata. Cosa è il purismo del jazz? È una musica che ha cento anni di storia. Parliamo di Parker o Davis? Oggi siamo in una società nuova, e dobbiamo metabolizzare il passato per guardare al futuro. C’erano anche quelli che sostenevano che il jazz fosse morto negli anni Sessanta. Gente, credo, morta dentro. Bisogna andare avanti, a volte sbagliando. Il futuro di questa musica sta nella capacità di mettere un piede più avanti, nel guardare oltre. Se qualcuno dice che sono fra gli ambasciatori di questa musica, la cosa mi fa piacere. Passiamo il tempo a lamentarci che il jazz non passa in tv, che è di nicchia, allora ci vuole qualcuno che ne modifichi l’assetto. Esserne testimoni, per un musicista, è un insieme di pensieri e di buone pratiche che possano permettere al pubblico di conoscere questa musica, o di goderne di più».

Si parla molto di come i social network e gli algoritmi delle piattaforme di streaming stiano progressivamente omogeneizzando la musica pop dettando tempi, estetica, e persino nuovi criteri per stabilire il successo o meno di una proposta. Lei pensa che oggi chi fa musica jazz sia esente da questo tipo di influenza?
«La nostra musica non è avulsa dal cammino che sta compiendo il digitale, come gli ascolti mordi e fuggi. È vero che il digitale viene ascoltato in modo differente rispetto all’analogico. Da questo punto di vista però non penso che l’ascolto del jazz sia cambiato, anche perché la maggior parte delle persone che lo frequentano prediligono il supporto fisico. Non sono contrario al digitale, la mia etichetta è una delle prime indipendenti che in Italia che ha compreso il potenziale di questo strumento. Se produci musica e vuoi portarla nelle case degli altri devi cavalcare i mezzi necessari. C’è quindi un rapporto sinergico, appunto senza approcci da purista. Il digitale affianca quel mondo del disco fisico che continua a esistere. Nell’equilibrio fra questi due mondi si può dare buona musica agli ascoltatori. Amo sentire ancora musica in CD, ne ho tantissimi, e mi sono riappassionato al vinile. Anche grazie a mio figlio, che ha sedici anni e che compra molta musica, soprattutto rapper importanti come Kanye West, Kendrick Lamar, Eminem. Come etichetta stiamo producendo vinili molto raffinati. Anche il mio nuovo lavoro esce con un lussuoso bauletto, con vinili colorati. La musica non viene snaturata, deve essere necessariamente di grande qualità. È una riflessione in atto quella sul digitale, per questo ogni giorno con l’etichetta cerchiamo di operare nelle maniere più corrette. Come produttori, è una responsabilità».

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