In questo periodo di caos (a dire il vero, non troppo calmo) a Sandro Veronesi – scrittore ma anche architetto, autore del bestseller dell'anno, ora con grande merito candidato al premio Strega – comincio col chiedere se può dirmi qualcosa sull’architettura de Il Colibrì: la storia di Marco Carrera, la cui vita è fatta di sospensioni, coincidenze, dolori abissali e amori assoluti, e della sua famiglia; una moglie, un'amata, un fratello, una sorella, una figlia... il futuro e il passato che si mescolano in una narrazione non lineare che, ha spiegato lui, è stata anche scritta in modo non lineare. "La non-linearità del romanzo è una faccenda tutta legata al tempo. Non riguarda, per esempio, la lingua. È un passo più in là della linearità, nel senso che rinuncia alla stampella della narrazione cronologica tradizionale, e mescola i tempi delle vicende narrate".

Spiegato così può sembrare un guazzabuglio. Invece poi lo leggi ed è meravigliosamente chiaro.
È perché in questo si comporta (il romanzo, il soggetto è il romanzo) come la memoria. Dopodiché, tutte le altre semplificazioni “lineari” (la lingua, per l’appunto, l’univocità dei personaggi, eccetera), vale a dire le regole dello scrivere per essere compresi, sono state rispettate. Sarà bello, in futuro, avventurarsi a infrangere anche qualcuna di quelle.

Domanda-corollario della precedente: è possibile azzardare un paragone tra la stesura di un romanzo e un progetto (di architettura)? E se sì come, considerato che lei conosce bene entrambe le materie?

Be’, io non ho mai fatto e nemmeno assistito alla realizzazione di un progetto architettonico della difficoltà e della portata paragonabili a quelle tipiche di un romanzo, perciò non posso parlare “per esperienza”. Quello che posso dire, però, è che c’è una strana, arcana similitudine nell’abbracciarsi dei due elementi estremi, cioè l’idea pura e la pura struttura – che in entrambi, romanzo e manufatto architettonico, si contengono reciprocamente. Non a caso, nel romanzo viene citato come libro-feticcio “On growth and form” di D’Arcy Wentword Thompson. .

A un certo punto Marco, il protagonista del romanzo, invia al fratello Giacomo un inventario dei mobili e degli oggetti di design contenuti nella casa appartenuta ai genitori, con l'intento di metterli all'asta. Ma fa una premessa, in riferimento alla storia tragica della famiglia: "Ricorda che le cose sono innocenti, Giacomo". Invece più avanti, a proposito di un uomo e una donna che hanno tra loro una relazione turbolenta, viene specificato: "Nessuno dei due era innocente".

Be’, le cose sono innocenti, io lo credo fermamente. Anche una pistola lo è. Anche una presa di veleno. A non essere mai innocenti sono le persone, considerazione, mi rendo conto, non proprio originale dato che rispecchia la più tradizionale e semplificata idea dell’uomo, proveniente dalle antiche religioni.

Ancora a proposito dell'inventario, come ha scelto l'elenco di mobili e oggetti di cui parla, e cosa significano per lei?

Be’, ho sognato una casa arredata tutta tra gli Anni 60 e gli Anni 70 da due persone, i genitori del protagonista Marco, che condividevano il gusto del loro tempo e non avevano problemi economici. E ho selezionato i pezzi più belli, che avrei voluto vedere in casa mia. Alcuni c’erano davvero, nella casa dei miei, e ci sono ancora: le Bambole di Bellini, le sedie Planula di Carini, il Totem Brionvega (rotto), le Plia, le Teti, un esemplare della lampada Gherpe del SuperStudio (che al momento sta illuminando la mia scrivania)… Ma poi, ovviamente, ho completato l’inventario reale con altri pezzi più belli (e costosi) che ho solo fatto in tempo a vedere nelle case degli altri e negli showroom dell’epoca.

Ha con qualcuno dei pezzi elencati, che sono decine, un legame particolare? Perché?

Il legame è con l’uso, e l’uso, di una poltrona, ad esempio, non cambia molto se siamo in presenza di un pezzo di design o no. È la ragione per cui dico che le cose sono innocenti. Io sono molto legato all’idea di Italia che viene fuori dalla somma storica di tutti quegli oggetti, che secondo me ha dato e dà ancora conto del nostro genio nazionale anche più della moda o dell’industria alimentare. Se devo pensare a dieci eccellenze italiane dell’era moderna, almeno sei-sette sono pezzi di design (e quasi tutti sono costruiti, anche solo parzialmente, in plastica e suoi derivati).

Ha, come appassionato di design, degli oggetti-feticcio? Qualcosa che non può mancare e magari si è portato dietro nelle case in cui hai abitato? Qualcosa che per lei è un capolavoro assoluto?

Be’, le ho menzionate prima. La lampada Gherpe, per l’appunto. La sedia Planula di Carini, che purtroppo mi si è rotta proprio ieri (rottura del tubolare cromato all’altezza del piedino di plastica) e chissà quanto dovrò aspettare prima di ripararla. Le Bambole. La libreria Dodona di Artemide. Dovunque sia andato, queste cose le ho portate con me. Io vorrei tutt’ora vivere in una casa arredata con quei pezzi, che sono per me il meglio per un’abitazione borghese, dove crescere i figli.

Come ha scelto di fare entrare così tanto design (e in particolare l’inventario!) in questa sua storia?

Il primo lavoro che ho svolto è stato di disegnatore tecnico nello Studio B di Piero Brachi a Prato, nel 1977, subito dopo la maturità. Ho piazzato alcuni di quei pezzi nelle camerette o nei salotti dei miei concittadini. Sono abituato da allora a quegli elenchi – erano i capitolati sui quali si calcolava il conto, per utilizzare appieno il budget messo a disposizione dal cliente.

Un’altra importante, ancorché fuggevole, citazione riguarda Archizoom e Superstudio – che mi dice di loro?

Quando sono arrivato io sulla scena, come studente di architettura, a Firenze, i fuochi dell’architettura radicale fiorentina erano già finiti. Rimaneva il fumo – che a differenza di molti io non disdegno, perché il fumo di un buon fuoco è un buon fumo. Natalini insegnava in Facoltà, per dire, plastica ornamentale.

In un’intervista racconta di “non aver messo niente di sé” in Marco, il protagonista, che è dunque personaggio principale di un “racconto libero”. Si può dire lo stesso del progetto di un architetto? Esiste casa in cui l’architetto non metta nulla di sé stesso?

Attenzione: Marco Carrera, di mio, ha le aspirazioni non esaudite, che non è poco. Ho sempre desiderato essere paziente e resistente come lui, giocare a tennis come lui, avere la sua tenacia, la sua mansuetudine. Non ha niente del me che si è realizzato. Ha molto del me che avrei desiderato realizzare. Allo stesso modo credo che avrei operato se avessi fatto l’architetto: avrei messo nei miei progetti anche i miei fallimenti, potenziando proprio gli aspetti che avrei voluto ma non saputo incarnare.

Che relazione c’è tra le storie dei romanzi e l’architettura?

I romanzi devono “stare su” – e questo è un primo elemento che li accomuna all’architettura. E poi entrambi sono composizioni, ed entrambi hanno come elementi base da comporre l’uomo e lo spazio.

Quando viaggia(va) in albergo: fa caso all’ambiente che ti circonda? Conta il modo in cui una stanza è arredata per farle scegliere di soggiornare, o meno, in un posto?

Non arrivo a decidere in quale albergo soggiornare in base agli arredi, perché non potrei permettermelo. Quello che non sopporto, però, e che cerco di evitare come la peste, sono i cosiddetti design-hotel, generalmente all’estero, dove per design-hotel s’intende un hotel con stanze piccolissime, total white a strafottere e tavolini per la colazione troppo piccoli. Quanti ce ne sono, ahimè...

Una cosa di design di cui non potrebbe fare a meno in casa sua?

Posso fare a meno di tutto. Ma, certo, la sedia di Carini rotta mi tiene in apprensione. Devo trovare qualcuno che saldi l’acciaio inox, e non è proprio facile, a Roma , durante il lockdown del coronavirus.

Infine, last but not least (e si dilunghi su questo punto quanto vuole), ci racconta qualcosa del progetto "la Serra dei Poeti", la sua installazione in legno riciclato che è già stata in Triennale (nel 2019) e in altri posti, e ancora girerà?

Non mi dilungherò. Dirò solo che deriva da una delle prime lezioni di disegno e rilievo all’università, sulle forme geometriche, e da un modellino che mio padre, ingegnere, mi suggerì di realizzare. Essendo ingegnere laureato negli Anni 50 uno dei suoi miti era il paraboloide iperbolico, il simbolo stesso della “resistenza per forma”, e mi indicò come realizzarlo con il compensato e dei raggi di bicicletta. Be’, la "resistenza per forma”, a propria volta, è secondo me il simbolo della poesia – scrittura spesso esile, molto snella, che con poche parole trasporta una quantità enorme di dolore e di destino. Ho incrociato le due simbologie... ed è venuta fuori la Serra dei Poeti.

Text, Yellow, Poster, Font, Book cover, Album cover, pinterest