Maria Sole Agnelli: quindici anni alla ricerca di un’Italia più moderna - La Stampa

Seduta su una poltrona di fronte a una delle grandi vetrate che guardano il parco della tenuta di Torre in Pietra, Maria Sole Agnelli utilizza un tono colloquiale che manifesta un antico bisogno di concretezza per raccontare il senso di questi quattordici anni alla presidenza della Fondazione che porta il nome della sua famiglia. Un viaggio concluso ieri con il passaggio di testimone a suo nipote John Elkann. «Il primo presidente fu Valletta. Nel 1967, subito dopo la sua morte e pochi mesi dopo la nascita della Fondazione, mio fratello Gianni, che l’aveva immaginata e voluta, prese il suo posto. Nel 2003 è toccato a Umberto. Poi a me, che ora, a 92 anni, lascio a mio nipote John». È uno di quei giorni in cui il sole tramonta come se credesse di trovarsi in un film, mentre i cavalli pascolano nei prati che si perdono nel bosco.

Maria Sole Agnelli, soddisfatta di questi quattordici anni alla guida della Fondazione?

«Vede, la verità è che io non ho fatto niente di speciale. Mi sono limitata a seguire i binari che erano davanti a me. E mi sento fortunata per questo. È stato bello sentirsi parte di un progetto che considera la competenza e lo studio gli strumenti principali per consentire alle persone di diventare dei cittadini. La forza della Fondazione Agnelli è la capacità di tenere questi temi al centro del dibattito pubblico».

Quali sono i risultati di cui è più orgogliosa?

«Vado molto fiera di Eduscopio, il portale online che aiuta i ragazzi nella scelta delle scuole superiori. È una forma di orientamento importante per le famiglie. E poi sono orgogliosa del progetto “Torino fa Scuola”. Abbiamo investito direttamente circa cinque milioni di euro, e stiamo rinnovando da capo a piedi una scuola media pubblica per fornire un modello per le scuole di domani».

Per quarant’anni la Fondazione si è interessata a un’infinità di temi: dalle migrazioni al welfare. Nel 2007, invece, avete deciso di occuparvi di scuola, di università e di formazione, quella che gli anglosassoni chiamano «education», e avete affidato la direzione della Fondazione ad Andrea Gavosto. Perché questa scelta?

«L’istituto attraversava un momento di incertezza e abbiamo pensato che a fare di tutto non sempre si fa bene. C’era la necessità di concentrare idee e risorse per tornare a dire cose utili per l’Italia in un modo concreto e misurabile. La scelta della scuola era la più giusta, perché un’istruzione più moderna e all’altezza dei cambiamenti della società è la chiave di tutto».

Oggi qual è la condizione della scuola pubblica italiana?

«In Italia l’istruzione pubblica è ancora un problema. Siamo in forte ritardo rispetto agli altri Paesi avanzati. C’è molto lavoro da fare. Non solo per quello che riguarda l’istruzione, ma anche per ciò che riguarda l’educazione. Sui giornali si leggono ogni giorno cose orribili, di studenti che aggrediscono i professori e di genitori che difendono gli alunni e non gli insegnanti. Ma quando si mettono in discussione l’autorità e la competenza è difficile tornare indietro».

Che eredità lascia al nuovo presidente John Elkann?

«A John lascio davvero un bel po’ da fare, ma sono felice di vederlo al mio posto. Con lui alla guida, la Fondazione godrà di una notorietà e di un prestigio ancora maggiori».

Le piaceva la Buona Scuola di Renzi?

«C’erano delle cose buone e delle cose meno buone. A un certo punto il Paese ha detto no a Renzi più che alla riforma. Ma le responsabilità sono da distribuire. Ad esempio, il progetto scuola lavoro ha funzionato a macchia di leopardo. I ragazzi qualche volta si considerano maltrattati perché devono lavorare gratis. In altri Paesi questo tipo di protesta degli studenti non c’è».

Lo scorso anno il presidente Mattarella ha inaugurato la nuova sede della Fondazione a Torino in via Giacosa, dove per altro la Fondazione era già stata tra il 1970 e il 2011. Perché la presenza fisica della Fondazione in città è così importante?

«Quella di via Giacosa era la casa di mio nonno. Io ci andavo a pranzo la sera di Natale. Dietro al villino, che ancora si vede, hanno fatto questa costruzione moderna su vari piani, progettata dall’architetto Ratti, che accoglie le start up. Un luogo aperto alla città e ai giovani, dove la Fondazione può continuare a fare ricerca, ma anche altro. Al laboratorio didattico Combo tutti i giorni una classe può sperimentare un nuovo modo di fare lezione, con i robot».

Le piacciono i robot?

«Qualche giorno fa, proprio in via Giacosa, ho visto i robot che insegnavano ai bambini a contare. Affascinante».

Ci riuscivano?

«Direi di sì. I bambini erano molto interessati. E a scuola non esiste niente di peggio della noia. Se i ragazzi si divertono, imparano molto di più. Vedo una forte continuità tra la Fondazione di oggi e la Fondazione nata nel 1966 per volontà di mio fratello Gianni. Continuiamo a lavorare per il futuro dell’Italia e dei giovani, con i più moderni metodi di ricerca».

Un simbolo della continuità della Fondazione è stato Vittorino Chiusano, appena scomparso.

«Vittorino c’è stato fin dall’inizio, dal 1966, quando mio fratello Gianni lo mandò negli Stati Uniti a studiare le Fondazioni che in Italia erano ancora poche. Era coraggioso e sinceramente legato alla Fondazione, dove negli ultimi tempi veniva alle riunioni pur dovendosi portare dietro l’ossigeno che gli era necessario per respirare. È stato per 51 anni nel consiglio d’amministrazione non smettendo mai di offrire idee e stimoli. Un uomo di grande livello».

E adesso?

«Adesso la Fondazione continuerà come ha sempre fatto. John e Gavosto sono due persone brillanti. E io li continuerò a scocciare».