L’eclettismo di Frank Sinatra, le influenze italiane e la sua inaspettata imprenditorialità - Linkiesta.it

The VoiceL’eclettismo di Frank Sinatra, le influenze italiane e la sua inaspettata imprenditorialità

La biografia scritta per Feltrinelli da Luca Cerchiari ripercorre le tappe e i retroscena della carriera del cantante, morto ventisei anni fa, spiegando come la combinazione della sua voce inconfondibile e le capacità da paroliere abbiano portato alla costruzione di un impero musicale

AP/LaPresse

La figura di Francis Albert Sinatra (Hoboken 1915-West Hollywood 1998) è tutt’altro che riassumibile solo in quella di un attore cinematografico con oltre sessanta film in curriculum (di cui alcuni firmati da registi di vaglia quali Frank Capra, Otto Preminger e Vincente Minnelli) o soltanto in quella di uno dei più grandi cantanti, e quasi inventori, della popular music del ventesimo secolo, straordinaria icona della canzone d’autore statunitense e internazionale e dei suoi molteplici risvolti interpretativi, produttivi, mediatici e promozionali.

La sua carriera non solo percorre e rappresenta mezzo secolo di vita dello spettacolo e dell’ideologia sociale e politica degli Stati Uniti, ma si presta anche, come poche, a un’analisi volta a metterne adeguatamente in luce la complessa stratificazione di ruoli, l’ubiquità e interattività tra «arte» e «commercio», tra vocazione espressiva e impresa finanziaria e produttiva; tra personale evoluzione iconologica e costruzione, da parte di terzi, di una complessa e mutante iconografia.

La componente iconica non è solo parte essenziale della costruzione dell’immaginario sinatriano: essa è di fondamentale premessa e accompagnamento allo sviluppo della sua carriera musicale, al perenne confine tra jazz e pop, ed è venuta appunto crescendo come conseguenza della popolarità sempre maggiore della sua immagine pubblica, variamente riferibile agli ambiti della fotografia, del cinema, della televisione e della pubblicità.

Una carriera nata all’insegna dell’autodidattismo, tanto stigmatizzato da una ideologia del necessario apprendimento di competenze musicali, semiotiche e pratiche in accademie e conservatori quanto incompreso, proprio in ragione della rigida e limitante prescrittività di questa visione scolastica in rapporto al talento creativo. Com’è analogamente accaduto per numerosi grandi esponenti del teatro, della radio, della televisione, della musica jazz e, ancora, della canzone (si pensi solo al caso italiano di Mina, che con Sinatra ha avuto un rapporto di filiazione ispirativa, ma anche, negli anni Sessanta, di potenziale collaborazione, con un importante invito negli USA rivolto alla cantante, peraltro lasciato cadere). E come è stato il caso di una delle maggiori voci operistiche del Novecento, quella di Enrico Caruso, fra l’altro un modello tecnico-espressivo per numerosi padri della musica statunitense, non solo vocale, del ventesimo secolo.

Frank Sinatra è stato giustamente identificato, prima nella ricezione sulla stampa periodica e quindi nella vasta bibliografia internazionale a lui dedicata, con l’appellativo “The Voice”. La voce di Sinatra, per molti aspetti unica e insuperata nel panorama musicale del Novecento in rapporto al genere popular, è stata condivisa per decenni con la parallela esperienza cinematografica, in qualità di attore. La relazione di reciproca influenza tra la voce musicale e la voce cinematografica, tra l’intonazione e la dizione, tra l’interpretazione delle liriche e la recitazione delle sceneggiature dei molti film cui ha partecipato, varianti e improvvisazioni testuali incluse, è tuttavia un tema sinora mai affrontato dalla saggistica, e al quale invece accenno in questo volume.

Si tratta di un argomento di cui avevo intuito l’importanza nel 1999, quando scrissi un saggio sul cantante-attore per un editore torinese, e che trova riscontro, da parte dello stesso Sinatra, in un’affermazione riportata in un volume di Charles Pignone: «Con una celebrità mondiale come la sua, il grande schermo ci mise poco a sfruttare il carisma di Frank. E, per Sinatra, si trattava di un abbinamento divino. Quando gli domandarono se preferisse cantare o recitare, replicò: “Ho esordito come cantante. Il cinema è stato un intermezzo. Ma non mi piace incasellare le cose, creare categorie di merito, perché c’è molta recitazione nel mio modo di cantare, e la canzone mi ha aiutato molto nell’interpretazione dei ruoli del cinema”».

Uno degli altri diversi temi sviluppati nelle seguenti pagine, ma solo recentemente adombrato dalla bibliografia sinatriana, riguarda la sua consumata e stimata professionalità, la sua serietà di approccio verso qualunque occasione, musicale, cinematografica, televisiva o mediatica che fosse, e la sua propensione – coerente con un carattere tutt’altro che facile, poco malleabile ed estremamente esigente, che di per sé rappresenta un altro punto fermo dell’ampio indice tematico sul personaggio – a primeggiare, a dar ordini, a organizzare. Serietà, scrupolo professionale, attenzione ai dettagli, perfezionismo in vista del risultato finale e vocazione dirigistica e imprenditoriale hanno finito per sovrapporsi. E hanno concorso a determinare una parte di quella visione del ruolo, tipicamente californiano, dell’entertainer-imprenditore-investitore di capitali in attività diverse e spesso collegate, che ha un illustre precedente nella figura di Bing Crosby, e un esempio parallelo in quella di un altro collega cantante-attore (nonché altrettanto accorto imprenditore-investitore finanziario) col quale Sinatra ha condiviso parte dell’iter esistenziale e artistico: Dino Crocetti, in arte Dean Martin, anch’egli italo-americano.

Ma la questione della voce di Frank Sinatra, in senso strettamente musicale, merita a sua volta un sensibile ampliamento prospettico, in parte anticipato nel mio saggio del 1999. Il contributo innovativo e al contempo conservativo dato dal cantante di Hoboken alla vocalità popular del Novecento e all’ampio repertorio d’autore di grandi compositori e parolieri soprattutto attivi nella prima metà del secolo, non può essere correttamente inteso prescindendo da modelli stilistici e di genere diversi rispetto alla forma-canzone di Broadway e Hollywood e al jazz, principali terreni di coltura della sua straordinaria esperienza musicale.

Di fatto, vuoi per le origini italiane, siciliane e liguri, vuoi per il contesto culturale e musicale del tempo, la voce di Sinatra affonda le sue radici anche in alcuni aspetti vocali dell’opera europea – se non altro poiché da lui presi come modello in seguito all’ascolto effettuato in ambiente familiare – nei suoi interpreti tenorili, da Richard Tauber a John McCormack, da Enrico Caruso al giovane Mario Lanza, che i genitori ascoltavano a casa, lui ragazzo, sui dischi a 78 giri.

Tale contributo, inoltre, si riferisce anche e soprattutto alla svolta tecnicamente decisiva dell’invenzione del microfono e al suo nuovo utilizzo, tra la fine degli anni venti e l’inizio dei trenta, da parte di Bing Crosby, Russ Columbo, Rudy Vallée, Gene Austin e altri: capaci tutti, con lo stile poi denominato crooning, di farne un uso appropriato per modulare la dinamica del canto, per diminuire il «forte» o il «fortissimo» (non dovendo sgolarsi per reggere il retrostante impatto del volume sonoro di un’orchestra) e per articolare piacevolmente le linee melodiche e le pronunce dei testi. Sinatra aderisce in tal modo, più o meno inconsapevolmente, all’estetica della ballad d’autore emersa negli anni trenta e quaranta del ventesimo secolo, come anche ai «sogni di carta» di alcune precedenti pagine editoriali di Tin Pan Alley destinate al musical di Broadway (ma non solo) o, ancora, al «sogno audiovisivo» dell’immaginario hollywoodiano.

Sinatra ha più e più volte enfatizzato la centralità del suo approccio al testo di una canzone, evocandone la parentela con la poesia, e sforzandosi sempre di interpretare al meglio i percorsi verbali ideati dai parolieri, alcuni dei quali non a caso suoi amici, membri più o meno ufficiali del suo celebre clan, come Sammy Cahn, divenuto losangelino al pari suo e di numerosi altri protagonisti del sistema dello spettacolo newyorkese.

La carriera musicale dello showman non avrebbe potuto svilupparsi com’è accaduto senza la proficua dialettica instauratasi (come e più di altri cantanti) tra la sua voce e lo sfondo di un’orchestra ora guidata da un leader (come Harry James e Tommy Dorsey all’inizio della sua carriera), ora coordinata da sapienti arrangiatori-direttori, uomini come Axel Stordahl, Nelson Riddle, Gordon Jenkins, Billy May, Don Costa o Quincy Jones, che hanno condiviso e anzi parzialmente determinato le sorti ascendenti della sua carriera musicale, ma ai quali la società dello spettacolo non ha mai tributato un adeguato riconoscimento, qualitativo e autoriale.

Certo, anche Bing Crosby, modello, padrino e poi fratellocollega di Sinatra, era partito dalla collaborazione con un grande della direzione orchestrale americana come Paul Whiteman, ma è solo Sinatra a poter vantare un così ampio parterre di maestri dell’orchestrazione e dello sfondo sonoro, cui dobbiamo per completezza aggiungere Heinie Beau, Andy Gibson, Johnny Mandel, Neal Hefti, Marty Paich, Claus Ogerman, George Siravo, Sy Oliver, Ernie Freeman, e, in fondo, sia pur per brevi periodi, anche Count Basie.

Tratto da “Frank Sinatra: ‘The Voice’ tra musica e cinema” (Feltrinelli), di Luca Cerchiari, pp. 384, 27,55 €

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