Fu Manchu - Clone Of The Universe - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

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Il titolo del nuovo album, il dodicesimo per la precisione, della formazione stoner californiana per antonomasia Fu Manchu potrebbe suonare alquanto ironico. Non di meno, comunque, programmatico, visto che il gruppo è rimasto fedele a una formula che per alcuni potrebbe risultare sempre uguale a sé stessa, mentre per altri è il simbolo di un genere ricondotto alle sue radici e ripulito dalle varie trasformazioni a cui è andato incontro negli anni. Di conseguenza, le uscite discografiche della band sono come un rito che si rinnova ogni volta, una certezza accolta sempre con entusiasmo da quella nicchia di fan ai quali i Fu Manchu vogliono testardamente rivolgersi. Clone of the Universe rinnova ancora una volta questo strettissimo legame tra due interlocutori – ascoltatori e gruppo – che sanno di parlare la stessa lingua e che quindi se ne fregano di sperimentare altre vie, per dare invece sfogo al loro amore condiviso per certe sonorità. Un amore incondizionato, verso un gruppo che ha fatto la storia dello stoner rock, che permette di “perdonare” anche due album considerati dalla maggior parte del pubblico non propriamente riusciti, ovvero We Must Obey e Signs of Infinite Power. Forse esageratamente ed ingiustamente sottovalutati, questi lavori hanno avuto il merito di condurre il quartetto alla loro attuale fase artistica, inaugurata ormai quattro anni fa dal precedente Gigantoid, che aveva saputo rinnovare il sound quel tanto da renderlo più duro e compatto, meno incline all’acidità del fuzz, marchio di fabbrica dei Fu Manchu nel primo decennio della loro attività, e più orientato invece verso la pesantezza del doom – mettendo in campo, inoltre, una capacità di scrittura molto più matura, duttile e affinata (per il genere di riferimento almeno), frutto di quasi trent’anni di esperienza capaci di farsi sentire ad ogni riff, accordo e pattern di batteria.

Clone of the Universe tiene fede al suo nome e si pone su una stretta linea di continuità col disco che l’ha preceduto – tanto che i due album potrebbero far parte di un lavoro unico – sia dal punto di vista sonoro, sia da quello del songwriting e di certe tematiche sci-fi, quest’ultime amate alla follia da Scott Hill e soci sin dagli esordi ma mai così sfruttate come negli ultimi dischi. Sin dai primi ascolti è facile notare come la capacità di scrittura dei Fu Manchu sia diventata mestiere: ogni nota, ritmo e melodia sono lì dove dovrebbero essere e dove ogni fan si aspetterebbe che fossero. Che questo aspetto – non di poco conto, in ogni caso, anzi centrale – sia positivo o negativo, dipenderà dall’approccio che si vorrà avere verso il disco. L’impressione che traspare, però, è che Clone of the Universe sia l’esatta copia di Gigantoid e che, di conseguenza, non viva di luce propria. Se si conosce bene il disco del 2014, il nuovo lavoro apparirà come un forzato prolungamento di tutto ciò che quei pezzi avevano già efficacemente espresso, quasi una nota a margine, una postilla ulteriore che nulla toglie ma che nemmeno aggiunge alla musica dei Fu Manchu. È come se Clone of the Universe fosse arrivato in ritardo rispetto al suo predecessore, e che quindi il suo ruolo non sia altro che quello di ripetere cose già dette nello stesso modo, penalizzando l’efficacia e perdendo tutta la potenziale incisività. In quest’ottica, il mestiere messo in campo non aiuta, anzi si rivela essere un’arma a doppio taglio.

Eppure, alla fin fine, non si può certo dire che la qualità latiti, e la maestria dei Fu Manchu riesce sempre, in ogni caso, ad iniettare forti dosi di groove in ogni pezzo, anche in quelli meno ispirati: dalla coppia iniziale Intelligent Worship e (I’ve Been) Hexed – più rock & roll la prima, pesante e dalla tracimante andatura la seconda – al mix esplosivo di stoner e punk di Don’t Panic, all’immancabile pezzo lento e cosmico di Slower Than Light, passando per Nowhere Left To Hide e la title track, i due brani meno efficaci del lotto. Ma è alla fine dell’album che la band riesce a risollevare l’interesse verso il loro lavoro grazie a Il Mostro Atomico, brano per lo più strumentale di diciotto minuti. Esperimento inusuale per dei tipi come i Fu Manchu (nato dall’inserzione di numerosi riff scritti per quattordici nuove canzoni), è un bignami di tutto ciò che un fan dello stoner potrebbe desiderare, molto densa dal punto di vista sonoro e divisa fra una prima parte cosmica e acida e una seconda più diretta e tirata, giocata su sapienti incastri di chitarra e sezione ritmica, e dove i quattro danno libero sfogo alla loro tecnica. Sorpresa nella sorpresa: Alex Lifeson dei Rush come special guest ad impreziosire questo lungo trip con i suoi tocchi chitarristici, qui costretto a confrontarsi con una materia lontana, in termini di atmosfera e di suono, dai consueti lidi prog/hard rock e, allo stesso tempo, familiare, grazie alle possibilità di esplorazione musicale che un brano così lungo può dare, echeggiante – volontariamente o meno – suite come 2112 e pezzi alla Cygnus X-1 Book II: Hemispheres.

Alla fine, Clone of the Universe andrebbe ascoltato essenzialmente per Il Mostro Atomico, che si configura come uno dei brani più interessanti e affascinanti dei Fu Manchu; il senso di questa ennesima pubblicazione dei californiani è tutto racchiuso in quei diciotto minuti, che sapranno meravigliare i fan della prima ora e non, così come potrebbero influenzare anche i dischi futuri del gruppo. Speriamo che i Nostri sappiano fare tesoro di questo esperimento, evitando così il pericolo del “solito, ennesimo disco dei Fu Manchu”.

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