Il principe rosso: Guglielmo d’Asburgo, l’arciduca dimenticato - Universo letterario

Il principe rosso: Guglielmo d’Asburgo, l’arciduca dimenticato

Il principe rosso di Timothy Snyder, edito da Neri Pozza con la traduzione di Lorenza Lanza e Isabella Vicentini, è l’accurata biografia di Guglielmo d’Asburgo, ma non solo. È la storia di una famiglia, di un’Europa, di un mondo che, all’apparenza, sembrerebbe non esistere più. Eppure, in queste pagine scopriamo che molta dell’Europa che conosciamo pone le sue fondamenta proprio sul ruolo degli Asburgo e su quella monarchia danubiana che identifica, secondo molti studiosi, il concetto di Mitteleuropa. In particolare, Snyder si concentra sulla figura di un arciduca all’apparenza dimenticato, erede di un ramo cadetto della casa imperialregia: Guglielmo d’Asburgo, figlio minore dell’arciduca Carlo Stefano.

Il principe rosso

Chi è Guglielmo?

Guglielmo, detto Willy, nato nel 1895 e morto nel 1948, è una figura complessa e sfaccettata, inafferrabile e con cui, nonostante tutto, è difficile non empatizzare. Figlio minore dell’arciduca Carlo Stefano e di Maria Teresa d’Asburgo, principessa di Toscana, cresce lontano dalla corte viennese, in un contesto, tuttavia, estremamente asburgico, a partire dalla babele di lingue che si trova ad ascoltare e parlare durante l’infanzia, trascorsa nel palazzo paterno sull’isola di Lussino, nel mare Adriatico. Sarà un richiamo, quello del mare, che Guglielmo, come in fondo tutti gli Asburgo, rincorrerà più o meno coscientemente per tutta la vita.

Nato alla fine del XIX secolo, Guglielmo era cresciuto in un mondo di imperi, la cui grandezza, però, cominciava a sgretolarsi. Non era esente dalla decadenza neanche l’impero degli Asburgo, anche se non era mai esistito un impero europeo retto per così tanto tempo da un’unica dinastia, dal Sacro Romano Impero fino a quel momento. Non era nemmeno mai esistito, in fondo, un impero tanto scintillante e, al contempo, tanto statico e grandioso. Eppure, a Vienna come ai margini dell’enorme stato sovranazionale che gli Asburgo governavano da secoli, si danzava già incerti sull’orlo di un abisso che, però, era sempre visto “più in là”. Più lontano.

Il mondo del K. u. K.: la monarchia imperialregia

Per arrivare a capire la figura di Guglielmo d’Asburgo, tuttavia, Snyder ci ricorda che occorre fare un passo indietro.

Robert Musil, nella sua opera più conosciuta, Der Mann ohne Eigenschaften, L’uomo senza qualità, parla del concetto di Cacania, lo stato retto dalla monarchia imperialregia, il mondo del K. u. K., kaiserlich und königlich, imperiale e reale, secondo l’acronimo che precedeva il nome di tutte le istituzioni statali asburgiche. 

Quello degli Asburgo non è mai stato un impero nazionale, bensì uno stato prettamente sovranazionale, in cui i popoli si riconoscevano, in fondo, nella figura dell’imperatore. Uno stato hinternazionale, nascosto (da hinter, in tedesco, “dietro”) dalle nazioni che lo componevano: gli austriaci di lingua tedesca, gli ungheresi, gli italiani del Triveneto, gli Ebrei sparsi per tutto l’impero, i boemi e i moravi, gli slavi del sud, i polacchi, gli ucraini. Uno stato retto da un imperatore vegliardo che si rivolgeva alle genti apostrofandole, come troviamo scritto in La marcia di Radetzky, di Joseph Roth, “An meine Völker”, “Ai miei popoli”: una koinè, una babele di lingue e nazionalismi governate da una dinastia che raramente ha ottenuto vittorie sul campo di battaglia, ma che ha bensì costruito se stessa attraverso i matrimoni.

“Bella gerant alii, tu, Felix Austria, nube!”

“Bella gerant alii, tu, Felix Austria, nube!”, “Si facciano guerra gli altri, tu, Felice Austria, sposati!”: se prima dell’epoca francogiuseppina queste parole potevano ben adattarsi alle politiche adottate dall’Austria verso gli altri stati, con l’ultimo grande imperatore europeo della vecchia scuola ci si sposta verso il sentimento che lega (e che deve legare) il monarca “ai suoi popoli”. Francesco Giuseppe non poteva (e, in fondo, non voleva) ampliare l’impero, ma poteva conservarlo in nome di un’aurea mediocritas aderente al concetto tutto mitteleuropeo del Fortwursteln, del tirare a campare.

Snyder ci dice proprio questo, all’inizio del libro, nel narrare le celebrazioni del sessantesimo anniversario di salita al trono di Francesco Giuseppe a cui Guglielmo assistette con tutta la famiglia: gli Asburgo, nonostante tutto, “amavano davvero i loro popoli, almeno in quanto rappresentavano terre della Corona, potere e ricchezza. Per secoli avevano adottato le lingue e le usanze che meglio permettevano loro di governare. Il loro era un amore cosmopolita, indiscriminato, egoista, irriflessivo, e quindi in un certo senso perfetto”. 

Non si poteva attribuire un’etnia agli Asburgo: la loro nazionalità era ereditaria, ed era la loro stessa famiglia.

Guglielmo e Alberto, Ucraina e Polonia

È da questa duplice consapevolezza tra l’amore verso i popoli dell’impero e l’intuizione dell’appressarsi dell’abisso che l’arciduca Carlo Stefano decide di votarsi a un nazionalismo monarchico che possa vedere i propri figli a capo di nazioni come la Polonia, periferia dell’impero ma grande speranza. La Galizia, la Lodomiria, la Bucovina sono le frontiere a cui tendere. Carlo Alberto, il figlio maggiore, consacrerà la propria vita e la propria famiglia, nonché la propria identità, al servizio della Polonia. Guglielmo, invece, si avvicinerà sempre di più all’Ucraina, e alla speranza di un’Ucraina satellite sì dell’Impero Asburgico, ma libera. Combatteranno entrambi per tutta la vita per perseguire questa speranza.

Alberto è l’erede leale, Guglielmo è l’erede ribelle: eppure, entrambi sono consci del fatto che il nazionalismo è inevitabile, la distruzione degli imperi no. Nella loro ottica, trasformare ogni nazione in uno Stato non avrebbe liberato le minoranze nazionaliste, ma avrebbe indebolito l’Europa, rendendola un’accozzaglia di staterelli. Sarebbe stato necessario conciliare le aspirazioni nazionali in una forma di lealtà a un impero tollerante. 

Il fallimento di questa speranza, per Stefano, Alberto e Guglielmo, e per la dinastia intera, è proprio la disfatta della prima guerra mondiale, e il dover assistere al trionfo del nazionalismo dilagante in tutta l’Europa.

Guglielmo, Vasil Vyšívání

La disfatta della Grande Guerra si abbatte in particolare su Guglielmo e le sue aspirazioni per un’Ucraina libera, per cui ha combattuto in prima linea dal 1917: era diventato l’Asburgo ucraino, aveva imparato la lingua e cambiato il nome in Vasil Vyšívání, aveva assunto il comando delle truppe del paese durante il conflitto. Di più, poco più che ventenne, si era impegnato a costruire una coscienza nazionale tra i contadini e aiutò i poveri a conservare la terra che avevano faticosamente strappato ai ricchi. Era diventato una sorta di leggenda, il principe rosso, un arciduca che amava la gente comune.

Eppure, con Snyder scopriamo che Guglielmo non era un innocente, “ma gli innocenti non fondano nazioni”. Questo Asburgo dimenticato, nella sua breve vita è stato molte cose, con l’insofferenza di chi non si sente a casa dopo aver avuto casa, in fondo, in ogni posto. Forse è per questo che a volte, anche intellettuali contemporanei come, ad esempio, Magris o Matvejević, sostengono che la Mitteleuropa sia dopotutto una patria del cuore in cui ogni esiliato, ogni apolide può tornare a casa.

E poi?

Nei capitoli di questa biografia ci sono molti Guglielmi, ed è difficile parlarne in un articolo solo: forse non c’è altro modo che leggere il libro di Snyder e addentrarsi in una storia che, in quanto europei ed europee, ci appartiene più di quanto pensiamo.

Guglielmo d’Asburgo è stato un ufficiale austriaco, un cavaliere del Toson d’Oro, un arciduca, un esule parigino, una spia, sensibile inizialmente al nazismo più per ripicca verso una parte della famiglia, per poi combatterlo, così come il comunismo fagocitante dell’Unione Sovietica, poliglotta affascinante, impudente nella lealtà politica e nella franchezza sessuale: è stato un figlio della parte forse migliore di quell’impero statico ed elefantiaco, eppure a suo modo grandioso, un rivoluzionario che deve, come ogni incontro d’amore, qualcosa a chi o a quanto è venuto prima. Tra scandali, cadute e voli di gloria, la certezza è una: la ferma volontà di negare che lo Stato possa definire un individuo. Una volontà che sia lui sia il fratello Alberto pagheranno con la vita, sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, nei paesi che avevano amato, Guglielmo dimenticato in una prigione nella sovietica Kiev, l’altro in una Polonia che non lo riconosceva più.

E poi? Che posto c’è, nell’Europa di oggi, per questa concezione asburgica della storia e del tempo? Snyder ci risponde così:

Forse questi Asburgo, con quel logoro senso dell’eternità e il sostegno offerto alle aspirazioni del momento nella speranza di avere ancora un futuro, hanno qualcosa da offrire. Dopotutto, ogni istante del passato è gravido di quanto non è accaduto e probabilmente non accadrà mai, come una monarchia ucraina o una restaurazione asburgica, ma anche di quando pur sembrando impossibile si è dimostrato invece possibile: come uno Stato ucraino o una libera Polonia in un’Europa in via di unificazione. E se ciò è vero per questi momenti del passato, lo è anche per il presente.

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