Il Re di Staten Island Recensione

Il re di Staten Island: la recensione del film di Judd Apatow

30 luglio 2020
4 di 5

Judd Apatow torna al cinema dopo 5 anni con una commedia nata dalla collaborazione col giovane talento Pete Davidson e che è il bel film di un regista maturo, che dal suo interprete riceve nuova linfa.

Il re di Staten Island: la recensione del film di Judd Apatow

Era dal 2015, anno di Quel disastro di ragazza con Amy Schumer, che Judd Apatow non dirigeva un lungometraggio di finzione. In questo periodo ha realizzato due documentari, uno dedicato alla band degli Avett Brothers e un altro, molto apprezzato, al compianto attore Gary Shandling. Il suo ritorno al cinema, con Il re di Staten Island, non avrebbe potuto essere più felice, grazie anche al contributo di un giovanissimo comico, Pete Davidson, ancora sconosciuto da noi, nuovo esponente di quella particolare e benedetta specie umana conosciuta col nome di “funny people” che Apatow da sempre frequenta e a cui ha dedicato uno dei suoi film migliori. Davidson ha 26 anni, è lungo e dinoccolato e si è imposto come comico al Saturday Night Live. Durante le sue serate di stand-up comedy parla anche con sincerità di sé, della sua vita e dei suoi problemi. Ha perso il padre, un pompiere, durante gli attacchi dell'11 settembre 2001. Ed è proprio a Scott Davidson che il film è dedicato e la sceneggiatura è ispirata: ne esce un convincente mix di realtà autobiografica e immaginazione, in cui la comicità si innesta nella storia con la stessa naturalezza del dramma. Ed è col più giovane dei suoi interpreti, così naturale in tutto quello che dice e che fa, che il regista firma il suo film più maturo, che non punta solo alla risata.

Non che non ci siano anche qua temi scatologici (Scott soffre del morbo di Crohn) o le scene di sesso, ma non sono utilizzati - come ormai sembra d'obbligo nella commedia americana di epigoni meno ispirati di Apatow - in modo infantile, solo per far ridere i ragazzini: fanno parte della caratterizzazione di un ragazzo traumatizzato dalla perdita subita, capace di scherzare sull'argomento con gli amici sballati più di lui, che soffre come molti di un deficit di attenzione e che fa impazzire la sorella più giovane e matura, preferendo restare in un limbo in cui la madre inconsciamente lo tiene e lo protegge. Questo fino al giorno in cui proprio lei (una bravissima Marisa Tomei), dopo la lunga vedovanza, incontra (in circostanze assolutamente esilaranti) un altro uomo, che caso vuole sia un pompiere come il venerato (e misterioso) ex marito, e decide di mettere in atto una specie di terapia d'urto per far crescere Scott, buttandolo fuori casa e scatenando una guerra tra i due maschi. Ma dopo un'escalation che sembra rapidamente andare fuori controllo, è proprio grazie a Ray (un Bill Burr da applauso, baffi nclusi) che Scott scopre del padre e di sé cose che non conosceva e, forse, crescerà.

All'inizio, quando lo conosciamo mentre si fa le canne guardando The Purge con gli amici e quando fa sesso con l'amica di sempre, dopo che già l'abbiamo visto rischiare un incidente d'auto, non ci è immediatamente simpatico, ma man mano che lo conosciamo ci avviciniamo con empatia al suo disagio e riconosciamo in lui tanti ragazzi pieni di qualità che continuano a girare a vuoto per mancanza di fiducia in sé. Scopriamo che è capace di entrare immediatamente in sintonia coi figli del nuovo compagno della madre e anche con gli anziani colleghi di lui, che lo trasformano in una specie di mascotte. Ed è toccante vederlo scoprire che quello che lo faceva soffrire era l'impossibile perfezione di un modello inavvicinabile, che era invece molto più simile a se stesso di quanto avesse sempre creduto. Si cresce quando si scopre che la realtà, per quanto dolorosa possa essere, è sempre migliore della sua idealizzazione. Perché a fare paura, in molti casi, è il non credersi all'altezza di un mondo popolato da estranei pronti a giudicare.

Judd Apatow si prende tutto il tempo necessario per raccontare la storia di formazione di un ragazzo di provincia (Staten Island non è New York), senza mai annoiare lo spettatore o perderlo per strada. Merito anche degli attori, che dirige in ottime performance, dai più noti (oltre ai citati ci sono anche Steve Buscemi e Pamela Adlon), ai meno conosciuti, come il gruppo degli amici, Bel Powley e Maude Apatow, la figlia, che sui suoi set è cresciuta e che qua interpreta la sorella di Scott. È un bel film Il re di Staten Island, non solo una bella commedia, perché fa ridere (irresistibili tutte le scene che hanno a che fare col desiderio di Scott di diventare un tatuatore) e al tempo stesso fa riflettere sulla fatica di trovare il proprio posto in un mondo per cui gli irregolari sono sempre un problema. Pieno di omaggi e citazioni cinefile e con un'ottima colonna sonora - le cui canzoni fanno eco a quel che avviene nella storia - è un film scritto col cuore, oltre che con la testa, da Davidson, il cui debutto ci ricorda quello di un altro attore, fisicamente ai suoi antipodi, oltre 50 anni fa: Dustin Hoffman ne Il laureato. In fondo, fatte le debite proporzioni, Scott Carlin potrebbe essere il Benjamin Braddock di questo tormentato decennio del Duemila.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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