A cura di Alessandro Savi 

Chi ricorda i Rockets? Recensione

Di certo chi ha più di cinquant’anni non può non ricordare questa band francese che, tra la fine
degli anni ’70 e i primi anni ’80, spopolò in Italia anche grazie ad un look futuristico e ad un alone
di mistero che li circondava.
Furono tra i primi ad usare strabilianti effetti speciali che trasformavano i loro concerti in un vero e
proprio viaggio onirico che rapiva gli spettatori dalla prima all’ultima nota.
Esordirono nel 1976 con l’omonimo album “Rockets” (che contiene uno dei brani più conosciuti
del gruppo, “Future woman”) al quale fece seguito nel 1978 “On the road again” (la title-track è
una bellissima cover del brano dei Canned Heat) e, un anno più tardi, “Plasteroid”. Da quest’ultimo
album venne estratto il singolo “Electric delight” grazia al quale il gruppo si impose
definitivamente nel nostro paese.

Nel maggio del 1980 i Rockets pubblicarono l’album “Galaxy” che riscosse un’enorme successo
commerciale (disco di platino) mentre il singolo “Galactica” divenne il vero e proprio tormentone
dell’estate 1980, ben più di “Electric delight” nell’anno precedente.
La tournée di “Galaxy” fu un trionfo: dalle discoteche e dai palasport del passato, i Rockets
passarono a conquistare gli stadi della penisola fino a raggiungere il culmine il 12 luglio del 1980
quando il gruppo si esibì allo stadio Meazza di Milano in occasione della kermesse “Discostadio”
condotta da Milly Carlucci, Roberto Benigni e Vittorio Salvetti.
Ma i Rockets erano solo scena o dietro di essa c’era anche talento?

Al di là delle tante etichette (space rock, electro pop eccetera), il loro genere musicale è sempre
stato il rock. Si ascoltino certi contenuti del primo album (“Fils du ciel”, “Ballade sur mars”,
“Apesanteur”), si approfondisca con “On the road again” (“Astrolights” e “Venus rapsody”, puro
progressive), si prosegua con “Plasteroid” (“If you drive”, “Cosmic feeling”) ma, soprattutto, si
ascolti l’album “Live” pubblicato nel febbraio del 1980 solamente in Italia per capire appieno le
capacità tecniche e compositive dei cinque “alieni” francesi.
Dopo il trionfo di “Galaxy” i Rockets si trovano di fronte ad un bivio: cercare di replicare la formula
vincente appena sperimentata o provare a cambiare. Il rischio di fare una brutta copia dell’album
precedente era altissimo così, pur mantenendo un trait d’union con il passato, compongono e
incidono nove brani nuovi e li presentano alla CGD, la loro casa discografica che, clamorosamente,
li respinge giudicandoli come eccessivamente innovativi.
Il produttore Claude Lemoine, visti anche i tempi strettissimi, decide di avvalersi della
collaborazione di Jean Pierre Massiera e di altri musicisti: tale collaborazione porterà alla luce,
nell’ottobre del 1981, il nuovo album “P Greco 3,14”.

Questo lavoro comprende otto brani dei quali solamente due composti dai Rockets – “Hypnotic
reality” e “King of the universe” – che rientrano tra quelli precedentemente proposti ma respinti
dalla CGD.
La risposta del pubblico è piuttosto tiepida. I fan più affezionati si accorgono immediatamente che
“P Greco 3,14” è troppo distante dal sound tradizionale e, nel contempo, è anche poco innovativo.
A ciò si aggiunge anche il cambiamento del look: i Rockets non sono più cinque alieni ma
divengono medici, cow boys: in una parola, si umanizzano.
Successivamente emergerà che il gruppo si rifiutò di suonare i brani dell’album (alla cui
registrazione parteciparono il bassista Rosaire Riccobono, il chitarrista Bernard Torelli e il
tastierista Guy Battarel) e che gli stessi brani sono, in larga parte, il risultato di autocitazioni da

precedenti lavori di Jean Pierre Massiera quando non – addirittura – evidentissimi plagi (si
confronti, a puro titolo di esempio “Radiate” con “Bad news” di Moon Martin).
Nel 1982 i Rockets tornano al look futurista del passato e pubblicano “Atomic”, l’ultimo album
della classica formazione a cinque (Christian Le Bartz, “Little” Gearad L’Her, Alain Maratrat, Fabrice
Quagliotti, Alain Groetzinger).
Si tratta di un lavoro oggettivamente molto bello in cui spiccano, oltre alla title-track e al primo
singolo “Radio station”, due piccole perle come “Some other place, some other time” e “The
martian way” tuttavia anche “Atomic” venderà pochissimo, forse anche a causa dell’onda lunga
del flop del precedente “P Greco 3,14”.

La storia successiva dei Rockets, contrassegnata da continui cambi di formazione e di genere
musicale, sarà di marginale importanza ma la band è in ogni caso tenuta in vita dal tastierista
“storico” Fabrice Quagliotti il quale, circa quindici anni fa, acquistò i master dei brani respinti dalla
CGD e mai pubblicati.
Oggi – dopo un sapiente lavoro di “ripulitura” di quella tracce – finalmente abbiamo la possibilità
di ascoltare quello che, nelle intenzioni del gruppo, sarebbe stato l’album successivo a “Galaxy”: lo
scorso primo ottobre è stato infatti pubblicato “Alienation” (che i fans hanno sempre chiamato il
“ghost album”) in tre formati (vinile nero, CD e vinile blu) andati esauriti in pochissimi giorni.
Non poteva essere altrimenti giacché, per gli oramai cinquantenni da sempre appassionati del
gruppo, “Alienation” è un sussulto, una botta di vita, una ventata di gioventù: è la restituzione di
un sogno rubato, l’espiazione di un peccato, una catarsi attesa da mezza vita.

L’album si apre con una vecchia conoscenza, quella NON-STOP eseguita dal vivo nel corso del tour
di “P Greco 3,14”, la cui versione in studio è semplicemente straordinaria. Gli effetti voce utilizzati
da Gerad L’Her (comprese le voci doppiate) sembrano gli stessi di “Galactica”. Il riff di chitarra è
tanto semplice quanto accattivante, il jingle di Fabrice Quagliotti altrettanto semplice ma
efficacissimo, il basso molto lineare e, così come la batteria, contribuisce a dare al brano un sound
che fa molto rock anni ’70. C’è una lunga parte strumentale che attraversa cantati e ritornelli,
priva di assoli, che sembra eccessivamente dilatata. Una piccola variazione (sull’esempio di
“Galactica”, il passaggio “message to you from the robotic race…”) avrebbe potuto consegnare il
brano alla storia proprio come “Electric Delight” o la stessa “Galactica”. Di fronte a “Non-stop” la
sensazione che quarant’anni fa sia stato commesso un delitto è evidentissima: questo è uno dei
brani di “Alienation” che non poteva assolutamente essere abortito.
SKY INVADERS è poco indicata a chi, dei Rockets, ama soprattutto l’anima rock: quella drum
machine (ma è, in realtà una drum machine?) che apre il brano e lo accompagna per tutta la sua
durata è estremamente fastidiosa e ricorda molto (troppo) le “marcette” dei videogames
dell’epoca. Ricorda molto gli statunitensi Devo. Del resto i cinque silver (soprattutto Le Bartz e
Groetzinger) avevano ripetutamente citato questo gruppo tra le loro principali influenze del
periodo.

VENUS QUEEN è un’altra traccia del delitto. Il brano è molto orecchiabile, ti si stampa
immediatamente nel cervello senza venirti a noia dopo ripetuti ascolti: all’epoca avrebbe
funzionato alla grande. Collocato (per gioco e a puro titolo di esempio) in “Galaxy” avrebbe avuto
lo stesso gradimento di brani come “Synthetic man” o “In the black hole”, comprimari di altissimo
livello rispetto a capolavori come “One more mission” e “In the galaxy”. Dopo i primi due cantati e
ritornelli c’è un piccolo capolavoro tastieristico di Fabrice Quagliotti che ricorda molto da vicino
Mark Kelly dei Marillion e che lascia il passo ad un finale molto intenso dal punto di vista ritmico in
cui il Groetzinger si avvicina ad una sorta di “Blast beat” (una delle tecniche del metal) con tempi
metronomici molto sostenuti.

ELECTROMENTAL non sembra proprio un brano composto quarant’anni fa per quanto è moderno:
è l’ennesima dimostrazione di come i Rockets furono sempre, incredibilmente più avanti di molti

anni rispetto agli altri. A metà del brano c’è un giochino affascinante che ricorda molto da vicino
quello contenuto nella versione live di “Strange kind of woman” dei Deep Purple: quella che
sembra essere una chitarra molto distorta (ma che in realtà è una tastiera) lancia un motivo che la
stessa tastiera riprende e richiama, in uno stile molto in voga negli anni settanta ma che,
naturalmente, nei Rockets si avviluppa in un sound estremamente sintetico e zeppo di effettistica.
Bellissimo il talk-box di Alain Maratrat nella sezione successiva.

Per TALK ABOUT le considerazioni sono simili a quelle di VENUS QUEEN: il brano funziona eccome!
Nella sua linea abbastanza semplice ti cattura e non ti lascia più. “All right little person” sarebbe
potuto diventare un tormentone in quegli anni.

SKARED è un colpo al cuore, il classico brano che non ti aspetti. La voce è di un certo Johnny X di
cui sappiamo solo che all’epoca, a Londra, era piuttosto famoso. Qualcuno sostiene che si tratti
addirittura di Mick Jones (ex Clash e Big audio Dynamite). “Skared” è un pezzo punk al cento per
cento che va apprezzato anzitutto per la scelta coraggiosissima di contaminarsi con qualcosa che
era agli antipodi rispetto al loro stile. Ottima come sempre la sintonia tra il Alain Groetzinger e
“Little” Gerad L’Her che si avventurano su sentieri impervi e inesplorati mentre Alain Maratrat
sfodera una prestazione stratosferica, come se non avesse suonato altro che punk in vita sua. Il
vocoder incredibilmente si incastona alla perfezione (altra intuizione geniale!) in un tessuto
teoricamente del tutto avulso. Che dire del nostro Johnny X? Che la canta perfettamente come
nessun altro potrebbe cantarla. Occorre chiedersi il perché di questa scelta da parte dei Rockets
ma qui entriamo in un campo minato, fatto solo di congetture.

Proviamo a ragionare: le fortune
del gruppo in quegli anni le abbiamo fatte principalmente noi italiani: sono andati bene in qualche
altro paese europeo (oggi in Russia li adorano) ma in Francia non sono mai stati presi in
considerazione (emblematiche le dichiarazioni al telegiornale, davanti a milioni di spettatori, del
presidente dell’omologa francese della SIAE Pierre Delanoe che li definì, più o meno, come
l’antitesi della musica). In Inghilterra praticamente non hanno mai messo piede. Chissà, forse
“Skared” li avrebbe potuti aiutare ad aprirsi un varco nell’isola proprio attraverso il contributo di
Johnny X il quale avrebbe potuto rappresentare un buon viatico per una band che ha sempre
sofferto moltissimo con la lingua inglese, nonostante la discreta pronuncia di L’Her.

Il vertice dell’album è senza ombra di dubbio rappresentato da CHILDREN OF TIME. E’ questo il
vero heinous crime, il delitto più efferato compiuto dai discografici della CGD nel lontano 1981.
Signori, questa è una delle più belle canzoni composte dai Rockets in tutta la loro carriera, la “In
the galaxy” di “Alienation”. Se la prima risente di nettissime influenze floydiane, questa è
genesisiana (o, meglio, collinsiana) per antonomasia. Si apre con la stessa drum machine di “In the
air tonight” di Phil Collins (anch’essa pubblicata nel 1981) ed è un crescendo maestoso (“Spread
your wings…”) che scende nel finale (“Once I was blind now I see…”) per spegnersi nella drum
machine iniziale. Le tastiere di Fabrice Quagliotti sono evocative come non mai, la chitarra di Alain
Maratrat in taluni passaggi sembra piangere o gridare, il basso di L’Her si erge a trama melodica
nel ritornello disegnando suggestioni oniriche che fanno accapponare la pelle. La sua voce è
meravigliosa: suadente in alcuni tratti, solenne in altri, dolcissima in altri ancora come in
quell’inusuale falsetto mai ascoltato precedentemente.

“Alienation” chiude con una medley, COLLAGE, che raccoglie i momenti strumentali migliori
dell’album e che rappresenta, ad un tempo, una sorta di addio e la precisa volontà di suggellare
per sempre il delitto commesso dalla CGD nel 1981.

 

A cura di Alessandro Savi

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