REQUIEM FOR A DREAM - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
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REQUIEM FOR A DREAM

Titolo OriginaleRequiem for a Dream
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2000
Durata102'
Sceneggiatura
Trattodal romanzo di Hubert Selby Jr.
Scenografia

TRAMA

Sara, una vedova sola e dedita al consumo di droghe, spinge anche il figlio sulla strada della tossicodipendenza. I due, cercando di dimenticare la triste realtà in cui vivono, vengono lentamente trascinati in una spirale di angoscia e degradazione.

RECENSIONI

Nel 1978, quando uscì il libro di Hubert Selby Jr., il requiem era per il Sogno americano, il mito della realizzazione di sé scarnificato sino a mostrare la sua realtà ipocrita e tossica. Nel 2000, quando Darren Aronofsky porta il romanzo sullo schermo per la sua seconda regia, quella che inscena è una messa da requiem per il cinema: un tratto comune a parecchi titoli usciti sul fatidico limine tra secondo e terzo millennio, tra il 1999 e il 2000, pervasi in modo più o meno cosciente di una vena mortifera da "mille e non più mille", un'attesa crepuscolare del millennium bug che era sì destinato ai sistemi informatici, ma che in senso più ampio pareva in grado di diffondersi su tutti gli schermi, di portare la Fine. Cinema terminale, funebre, avvitato intorno alla morte e all'autodistruzione, e stilisticamente sottoposto a convulsioni come di corpo agonizzante: split screen, time lapse, montaggio sincopato, fisheye, inquadrature deformate, sghembe, con percezione del tempo e dello spazio alterata... Qualsiasi mezzo impiegato da Aronofsky, col fido Matthew Libatique, metteva in scena, più che la discesa negli inferi della tossicodipendenza, una sorta di implosione del linguaggio cinema, impazzito come maionese, pronto a a schiantarsi contro il nuovo millennio. Autoflagellandosi con mezzi visivi che, rivisti oggi, ne fanno un oggetto curiosamente datato, davvero figlio di un'altra epoca.
Come anticipato, d'altronde, quello del "cinema terminale" è un sentimento comune ad altri film di una soglia cronologica da cui sono passati ormai vent'anni, e che col film di Aronofsky rimano in molteplici modi; ne citeremo solo due, ovvero Magnolia, uscito nel 1999, e The Million Dollar Hotel, del 2000, dunque coevo al Requiem. Tre film strutturati su crescendo di disperazioni e alienazioni, tre film corali che presentano cataloghi di umanità avariata, tre film lanciati verso il baratro e verso un'apocalisse grottesca: le autodistruzioni psicofisiche dei personaggi di Aronofsky, la pioggia di rane di Paul Thomas Anderson, il salto verso il vuoto che suggella il film di Wim Wenders sono tutti finali di sadico fatalismo, narrati come eventi inevitabili.

Che in tutti questi film la televisione abbia un ruolo fondamentale, ossessivo e ineludibile, e che due su tre di essi si svolgano a Los Angeles, sono sovrabbondanti indizi di come si stia parlando della morte della Fabbrica dei sogni; Requiem for a Dream, invece, si ambienta a New York (città natale di Aronofksy), ma la presenza del piccolo schermo resta elemento cruciale e velenoso. È infatti lo schermo televisivo a innescare la spirale autodistruttiva di Sara Godlfarb (Ellen Burstyn, magnifica icona di un'altra epoca, il cui primo ruolo importante fu L'ultimo spettacolo: non a caso, un altro film che sulla fine del cinema imbastiva un racconto generazionale), tramite il martellante insinuarsi di uno show televisivo che per la vedova diventa ossessione, l'ultimo spettacolo possibile da consumare e di cui ambire a diventare protagonista, proprio come il quiz show intorno a cui si incastrano le vite dei personaggi di Magnolia (Aronofsky e Anderson, pressoché coetanei, appartengono a una generazione cresciuta con il piccolo schermo e con l'home video, ed entrambi incentrano la propria opera seconda su un medium con la cui pervasività si trovano a fare i conti da adulti). L'ossessione di entrare nel piccolo schermo è, d'altronde, anch'essa figlia di quel preciso momento storico: al 1999 risale la prima edizione del reality Grande fratello (nato in Olanda e arrivato in mezzo mondo nella successiva stagione televisiva), che faceva delle Sara Godlfarb di ogni nazione le vere protagoniste dello show. Forse è questo uno degli elementi, insieme al succitato fast cutting e alle deformazioni dell'inquadratura, che rende Requiem for a Dream più datato, nonostante la giovane età: l'idea dello spettatore che diventa parte integrante del piccolo schermo, l'ossessione del protagonismo, la mancanza di empatia provocata da tutto ciò, sono elementi quotidiani divenuti, da quell'ormai lontano 2000, talmente radicati e quasi scontati nella nostra società, da permeare di ingenuità la visione del trentenne Aronofsky, ignaro di come i social network avrebbero trasformato quel requiem in un lontano ricordo.

Per il regista newyorkese, però, la questione non era solo mettere in scena la dipendenza - in tutte le sue accezioni più o meno socialmente accettabili, dall'eroina alle pillole per dimagrire - ma, come sempre e da sempre nel suo cinema, anche raccontare il rapporto tragico ed epico tra l'uomo e la natura, tra l'individuo e il ciclo vitale. Una narrazione che in madre! ha raggiunto il suo apice e la sua metafora più smaccata, ma che permea la sua intera filmografia (e si riverbera sulle sue scelte da produttore, come la sua serie tv documentaria One Strange Rock: Pianeta Terra, che riversa fuori dalla fiction l’interesse per il funzionamento del nostro ecosistema) e che in Requiem for a Dream si presenta in primis con la scansione in stagioni (mutuata dal romanzo di Selby Jr.) che presenta un ciclo naturale inceppato, monco. Estate, autunno, inverno; non c'è primavera, non c'è rinascita, i personaggi non raggiungono mai la chiusura del proprio cerchio, sono impossibilitati a comprendere e fare propri i ritmi del mondo che li contiene, e così spinti all'autodistruzione. Come il protagonista di Pi greco - Il teorema del delirio, come Noah alle prese con la furia veterotestamentaria, come l'eroe di The Fountain in disperata ricerca di un modo per disinnescare le leggi della natura, anche i protagonisti di Requiem for a Dream aspirano, fallendo, alla salvezza che porterebbe una rigenerazione. Senza sapere, madre! ce l'ha insegnato, che una volta rigenerati il loop ricomincerebbe esattamente da capo: e allora quella primavera negata, vent’anni fa, risulta assai più ottimista della visione dell’Aronofsky odierno, ormai conscio che la tragedia (umana, cinematografica) non è la Fine, ma la coazione a ripetere.