Romanello il forlivese
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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Romanello il forlivese

Il campione romagnolo, una carriera da “individualista di squadra” per difendere l’onore degli italiani

Nel corso dell’ultimo fine settimana si sono mossi forlivesi a migliaia per la riapertura della Rocca di Ravaldino. Ci vorrà tempo per passare dall’emozione al quotidiano, per constatare se la riscoperta di un luogo cruciale per la storia locale accompagnerà a una fiera riscoperta dell’identità e della storia di Forlì. Intanto si può dare la polvere a un nome che meriterebbe più lustro:
“Vien Romanello che parea un leone (…). Lotta per lotta, e ogni Francese cade” scriveva il sedicente illetterato Giuseppe Moroni detto il Niccheri nelle sue “ottave improvvisate” su “La disfida di Barletta”. Nella storia, da queste parti i francesi non sono mai piaciuti. E Romanello da Forlì rappresenta una sorta di conferma con una cospicua dose di originalità: pur essendo stato un professionista delle armi, la vicenda che gli ha dato più fama è però un’azione di squadra dove seppe collaborare con altri valorosi colleghi per dare una lezione alle sbruffonerie dei francesi. La disfida fu uno scontro cavalleresco per risolvere una questione d'onore: un soldato francese aveva definito “codardi” gli italiani ma altre gocce stavano facendo traboccare il vaso. Il 13 febbraio 1503, a Barletta, tredici cavalieri italiani guidati da Ettore Fieramosca sfidarono tredici cavalieri francesi. Il confronto, una vera e propria battaglia campale, finì con la vittoria degli italiani: tra questi c’era appunto Romanello da Forlì. 

Scriveva Renato Zanelli nel 1933: “Sebbene sulla provenienza dei personaggi che parteciparono alla disfida si può molto sofisticare e la lezione dei loro nomi sia quasi incerta, l’unico su cui non sussista contraddizione nelle varie fonti è proprio il nostro Romanello da Forlì” il quale, pertanto, “simboleggia la dignità nazionale vendicatrice dell’oltraggio straniero”.  
Il romagnolo, però, rimane un personaggio sfuggente e misterioso pur essendo stato campione italiano prima dell’Italia. Già il nome in sé rappresenta un enigma: secondo gli studi di Pietro Gasparino, tale Martino Schiacca, nobiluomo figlio di Giuliano, fu soprannominato “Romanello” perché romagnolo. Tale identità sarebbe svelata da un atto notarile datato 28 agosto 1499. Secondo altri storici, però, si chiamava Sebastiano (per alcuni Bartolomeo) dei Romanelli, casata il cui ramo forlivese si estinse nel 1591 con Antonio Maria, minore conventuale. Più certa è la sua città d’origine: Forlì, appunto. Forse aristocratico, oppure appartenente a una famiglia agiata di commercianti, doveva essere benestante, altrimenti non avrebbe avuto il corredo da cavaliere che vantava. Era nato, forse (questa storia è piena di forse) nel 1465. Nel marzo del 1487 il suo nome spicca in cedole di pagamento per il servizio reso come uomo d’arme a Matera. Nello stesso anno, documenti attestano la sua presenza in Abruzzo, a Pescocostanzo, agli ordini di Giordano Orsini, Mario Orsini ed Astorre Baglioni. Un cronista detto Notar Giacomo, riportò che il forlivese, armato di corazza, guanto, spada e pugnale, si distinse in duello mortale con un catalano: “per lo castigliano fo data una imbroccata al Romanello appresso la bocca, et per lo Romanello foro date doy ferite al castigliano” e quest’ultimo “morse”, cioè morì. Si scriverà poi: “Inter italos Romanellus censebatur et spectatae strenuitatis emicabat”, recensione che potrebbe essere liberamente tradotta in: “Tra gli italiani era annoverato Romanello e spiccava per il vigore dimostrato” e che lo portò a diventare istruttore d’armi. 

Iniziato al mestiere di soldato dal padre dell’amico Bartolomeo Fanfulla da Lodi, seguì le sue milizie nel mezzogiorno d’Italia. Nel 1498 è menzionato quale capitano di ventura a Napoli e qui progredì la sua carriera. Fu quindi a Roma, mentre nel gennaio del 1503 faceva parte della compagnia di Andrea Colonna, duca di Termoli e alle dipendenze del comandante del contingente italiano al servizio della Spagna, Prospero Colonna. Giunse a Barletta, e il 13 febbraio 1503 fu coinvolto nella “disfida”.
Qui, come aggiunse Giorgio Viviano Marchesi “ipse etiam potuit Italae militiae dignitatem a Gallorum contemptu vindicare”, cioè “seppe anche rivendicare la dignità delle milizie italiane dal disprezzo dei francesi”.  E in tal contesto: “Romanello fremea: Romagna intera / Gli arse nel petto quando lui le sorti / chiamar tra primi valorosi e forti / de l'alma schiera” come verseggiò l’Asioli. 

A seguito, infatti, delle parole denigratorie che Charles de la Motte aveva pronunciato contro il valore italiano, tredici cavalieri dello Stivale si fronteggiarono a tredici francesi nella piana tra Corato e Andria. La “squadra” compatriota era composta da Ettore Fieramosca, Ludovico Abenevole, Mariano Anignente, Guglielmo Albamonte, Giovanni Brancaleone, Giovanni Capoccio, Marco Corollario, Bartolomeo Fanfulla, Ettore Giovenale, Miale da Troia, Pietro Riccio, Romanello da Forlì e Francesco Salamone. Vinsero i “padroni di casa”, i transalpini furono imprigionati: seguì un concerto di trombe al termine del quale il forlivese fu armato cavaliere da Ferdinando di Cordova. La vittoria della disfida di Barletta gli diede grande ricchezza: ottenne in premio, infatti, il castello laziale di Zacati. Stancatosi di agi e mollezze, riprese ben presto la vita avventurosa da capitano di ventura: dopo aver venduto tutti i possedimenti fu al servizio di Ristagno Cantelmi, conte di Popoli in Abruzzo, dal 1506 al 1509. Successivamente tornò nella compagnia del duca di Termoli dove ritrovò l’amico Sebastiano Fanfulla. Con l’avanzare degli anni, il forlivese dovette imbattersi in problemi economici: sono giunte fino al nostro tempo, infatti, tracce di documenti che attestano di suoi debiti non pagati, soprattutto per l’acquisto di cavalli. Prese parte alla battaglia di Ravenna nell’aprile del 1512 contro i francesi ma il capitano di ventura, non più in età per combattere con vigore, fu fatto prigioniero dagli avversari. Si hanno notizie di una sua presenza a Milano (nel 1523) e poi ad Asti. Dal 1524 la storia di Romanello sembra essere “a bivi”. Per alcuni morì il 24 febbraio 1525, nella battaglia di Pavia (ancora contro i francesi) proprio quella in cui si distinse un altro capitano di ventura forlivese: Cesare Hercolani. Secondo altri, invece, dopo aver combattuto la battaglia di Pavia, giunto ad ormai sessant’anni, preferì ritirarsi a vita privata nella sua Forlì. Nonostante le lacune, lo storico Nunzio Federigo Faraglia scrisse: “Romanello da Forlì è uno dei cavalieri della disfida del quale trovo maggior numero di documenti”. 

“Il suo scudo – aggiunse Timoleone Zampa - è di vermiglio con palo e fascia d'argento”. Palo e fascia fanno croce: e la croce bianca su campo rosso coincide con la “croce di San Giovanni”, cara ai ghibellini e segnacolo dei forlivesi. A Barletta, dove ogni anno si rivive la disfida, al cavaliere Romanello è associato tuttora uno scudo con una croce latina argentea su campo vermiglio. Lo stesso “uovo crociato” che ora è stretto fra uno degli artigli dell’aquila nera dello stemma forlivese. Questa è una delle rarissime tracce che nella sua città è rimasta di questo cavaliere. Nel 1903, nel quarto centenario della disfida, a Barletta fu invitato l’allora sindaco di Forlì Giuseppe Bellini e sul campanile di San Mercuriale venne issata una campana chiamata “Romanella”. Nel 1884, inoltre, era stato fondato un sodalizio chiamato “Romanello da Forlì” con lo scopo di avviare alla ginnastica i giovani sportivi: una decina d’anni dopo sarebbe diventata la società nota come “Forti e Liberi”. Già nel 1899, sempre a a Forlì era presente (ov’è tuttora) una strada chiamata “via Romanello” tra viale Salinatore e piazza Dante. Esisteva anche una “piazza Romanello” che oggi è dedicata ai “Gialli del Calvario”. Insomma, Forlì dovrebbe ricordare questo eroe del gioco di squadra in tempi di individualismi mercenari, magari con un verso tratto dal melodramma sulla disfida composto da Lickl nel turbolento 1848: “Deh sorrida a quest’itala prole / anche un raggio del prisco valor!”. 


 

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