Nella storia del cinema italiano, Il conformista (Bernardo Bertolucci, 1970) occupa una posizione particolare.
Anzitutto, per un dato puramente figurativo. Con il suo impasto di neoespressionismo barocco, surrealismo metafisico e luminismo pittorico, il film di Bertolucci non è solo un prodotto di «avanguardismo industriale»1 ma ha anche avuto un’influenza non trascurabile sull’estetica iperrealista del cinema americano degli anni Settanta e Ottanta, come dimostrano, per via diretta o indiretta, le testimonianze di autori quali Paul Schrader, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Michael Mann2. Non a caso, due delle maestranze del film, il direttore della fotografia Vittorio Storaro e lo scenografo Ferdinando Scarfiotti, avrebbero poi partecipato attivamente ad alcuni capitoli fondamentali della Hollywood di là da venire3.


Alcuni riferimenti pittorici: Il foyer della danza al teatro dell’Opéra di Edgar Degas (1872) e Decalcomania (1866) di René Magritte.

In secondo luogo, perché Il conformista si pone nel solco di quelle opere che hanno cercato di rielaborare a posteriori il trauma epocale del Ventennio. Un filone sorprendentemente esiguo nella storia del nostro cinema, più spesso ripiegato sulla sicurezza museale della rievocazione e solo di rado suffragato da un serio tentativo di ripensamento critico (con titoli benemeriti che vanno da Il delitto Matteotti [Florestano Vancini, 1973] a Vincere [Marco Bellocchio, 2009])4.

Evidenti i rimandi al razionalismo e all’arte del periodo fascista, tra cui compaiono anche le canzonette del popolare compositore Cesare Bixio.

Come sarà poi costante del cinema di Bertolucci5, la riflessione sulla Storia non può prescindere da un aggancio espressivo, che qui non è dato solo dai richiami all’arte del periodo, dal futurismo (Giacomo Balla) al razionalismo (Adalberto Libera) fino al decadentismo (Gabriele D’Annunzio), ma anche e soprattutto dai riferimenti diretti al cinema. Così, ecco campeggiare nella primissima immagine l’insegna al neon di La vita è nostra [La vie est à nous, Jean Renoir, Jacques Becker, Henri Cartier-Bresson, Jean-Paul Le Chanois, Maurice Lime, Pierre Unik, André Zwoboda, 1936], per giunta in una scena che omaggia (con una variazione cromatica dal verde al rosso) un celebre momento de La donna che visse due volte [Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958]. O comparire un ritratto fotografico di Laurel & Hardy fuori dal night parigino La cravate noire. Senza contare i rimandi ironici a uno dei «padri putativi» del regista, Jean-Luc Godard6: se la frase «Ora il tempo della riflessione è finito, comincia quello dell’azione» inverte uno degli epigrammi di Le petit soldat [id., 1963], indirizzo e numero di telefono nella finzione attribuiti al professor Quadri (Enzo Tarascio) sono in realtà quelli della residenza del regista di Fino all’ultimo respiro [À bout de souffle, 1960].

L’inquadratura iniziale con omaggio a La vita è nostra, utile anche per indicare le coordinate temporali (1936).

Il conformista/La donna che visse due volte.

ll font art déco dei titoli di testa.

Con una forzatura, si potrebbe dire che ha una valenza strettamente cinematografica persino la metafora della caverna platonica utilizzata dall’esule Quadri per illustrare al protagonista Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant) la natura illusoria che avvolgeva le «nebbie dell’emozione»7 di quello che lo storico Christopher Duggan ha definito «il popolo del Duce»:

Quadri: I prigionieri incatenati di Platone […] Che cosa vedono?
[…]
Marcello.: Vedono solo le ombre che il fuoco proietta sul fondo della caverna che è davanti a loro.
Quadri: Ombre, i riflessi delle cose, come accade a voialtri oggi in Italia.

Dunque, il cinema come referente primario, chiave d’interpretazione, diaframma necessario tra la realtà e la sua rappresentazione. Da qui, la scelta di Bertolucci di rileggere l’omonimo romanzo di Alberto Moravia (1951) e, di conseguenza, il periodo più buio del Novecento italiano attraverso la chiave del genere. Più nello specifico e come già nel precedente Strategia del ragno (uscito nello stesso anno del Conformista), affidandosi a una lettura personalissima del noir, non a caso luogo privilegiato dal cinema per raccontare le ombre reali e metaforiche, interiori e collettive.

Luci e tagli espressionisti, tipicamente noir.

Passiamo brevemente in rassegna il soggetto del film:

1936. Professore di filosofia trentaquattrenne, Marcello Clerici sta per sposarsi con la giovane e lasciva Giulia (Stefania Sandrelli). Poco prima di partire in viaggio di nozze per Parigi, viene incaricato dall’OVRA di stanare e uccidere il suo ex professore universitario Luca Quadri, che guida un gruppo di militanti antifascisti rifugiatisi in Francia. La vita di Marcello è irrimediabilmente segnata da un episodio occorsogli all’età di tredici anni, quando uccise lo chaffeur Lino (Pierre Clémenti), che aveva cercato di sedurlo. Giunto a Parigi, seguito a distanza dall’agente Manganiello (Gastone Moschin)8, Marcello riesce a riallacciare i rapporti con Quadri, ma finisce per innamorarsi della moglie di quest’ultimo, l’ambigua e fascinosa Anna (Dominique Sanda), la quale però è a sua volta attratta da Giulia. Il giorno previsto per l’attentato, gli uomini di Manganiello sono costretti a uccidere sia il professore che Anna, che aveva deciso all’ultimo momento di seguire il marito per una vacanza sui Pirenei.
25 luglio 1943, Roma. La sera in cui il Duce viene esautorato e deposto, Marcello scende in strada per incontrare l’amico Italo (José Quaglio) e «assistere alla caduta di una dittatura». Mentre la folla distrugge una statua in bronzo di Mussolini, Marcello rivede inaspettatamente Lino…

 


Il noir, dunque. Di fatto, l’elemento che separa significativamente il film dal romanzo è la scelta di scompaginare la cronologia, spezzando il tempo della narrazione e creando tre dimensioni temporali distinte: il racconto comincia infatti poco prima dell’attentato a Quadri, innestando di qui un lungo flashback che descrive gli eventi di poco precedenti e al cui interno si colloca un ulteriore flashback incentrato sull’episodio infantile di pederastia. Un espediente che guarda certamente alla grande letteratura d’inizio Novecento di James Joyce, Virginia Woolf e, soprattutto, Marcel Proust (a cui già Moravia alludeva esplicitamente a partire dal nome del protagonista), ma, soprattutto, che ricalca uno stilema tipicamente noir. In Bertolucci, infatti, il rapporto con la Storia non può prescindere da quello con il Tempo. Se in Strategia del ragno questo matrimonio impuro si concretizzava – come ha brillantemente sintetizzato Nicolò Vigna su queste pagine9 – nelle figure della circolarità e della ripetizione, qui si aggiunge un’ulteriore dimensione: quella di un tempo assoluto che vive separatamente agli eventi.

Una delle forme circolari de Il conformista.

Questo tempo assoluto rappresenta in certa misura lo scacco della Storia, il suo continuo ripetersi. Non a caso Bertolucci stesso ha affermato: «Quando ho girato Il conformista in realtà non pensavo agli anni Trenta ma all’Italia che avevo intorno, quella del 1969-70, con il terrorismo e la strategia della tensione»10. Inoltre, se il romanzo di Moravia approdava teleologicamente a una conclusione perentoria e ingenuamente moralistica (Marcello, Giulia e la figlioletta rimanevano vittime di un raid aereo durante la fuga da Roma a Tagliacozzo), «il film si conclude [invece] con un primo piano di Marcello che osserva il giovane corpo nudo [di un ragazzo sedotto dal redivivo Lino] confrontandosi, come in uno specchio, con la sua omosessualità repressa»11, re-innestando così la scena primaria, il trauma originario del protagonista, in un eterno ritorno che è ripetizione ossessiva del Male della Storia.

I due incontri con Lino.

Una dimensione, questa, che non pertiene strettamente, come detto, alla narrazione (tanto che Brunetta ha giustamente definito Il conformista un film «metastorico»12), quanto al piano della figurazione. In altre parole, del cinema. Per rappresentarla, Bertolucci altro non può se non dare autonomia alla macchina da presa, che in certi momenti si distacca dall’azione e dai personaggi seguendo un percorso proprio, planando in dolly dal cielo o invadendo letteralmente lo spazio. Si veda la scena, ormai celebre, in cui una folata di vento solleva un mulinello di foglie nel giardino della residenza della mamma (Milly) di Marcello: un momento improvviso, in cui il fogliame autunnale si muove in perfetta armonia con la m.d.p., come se fosse quest’ultima, in verità, a voler far sentire la propria presenza.

Ma oltre alla decostruzione temporale, a imparentare il film all’universo del noir è anche la sua dimensione strettamente psicoanalitica (Bertolucci stesso aveva da poco iniziato il suo percorso di analisi freudiana) che rilegge il «realismo critico» moraviano alla luce di una temporalità astratta, onirica, iperreale. Certo, come già accennato tutto il film ruota attorno al tema elementare del tentativo di esorcizzare un trauma primario, che ha segnato indelebilmente la vita del protagonista e ha generato una identificazione intrapsichica tra lui e il suo aggressore, di cui ha contemporaneamente ereditato e represso due caratteristiche fondamentali: l’omosessualità e l’aggressività istintuale. In Bertolucci come in Moravia, Marcello è un personaggio in cui non convivono «né dannazione né grazia, alla ricerca, com’è, del quid medium che chiama “normalità”»13. Figlio di una borghesia decadente, ha aderito convintamente al fascismo perché v’intravvede «il mito collettivo cui immolare, nel miraggio dell’ordine, il proprio disordine, quel che lo fa diverso dagli altri; in nome del fascismo, uccide, nell’illusione di riscattare un delitto precedente con un’azione delittuosa ma per così dire legalizzata»14. Ma la gaiezza febbrile, il vuoto guscio di mondanità e la coscienza mercenaria nascoste dietro l’aspirazione alla normalità del «conformista» Marcello si rivelano un castello di carte, una sdrucciolevole terra di mezzo tra gli implacabili rivolgimenti della Storia e la natura beffarda e prorompente delle pulsioni e del destino. Troppo tardi, dopo la morte di Quadri e dell’amata Anna (che nel romanzo si chiama Lina, come a testimoniare ulteriormente il suo carattere eminentemente simbolico di tentatrice, come appunto lo fu prima di lei l’autista Lino), Marcello si accorge della vacuità della propria ambizione e del proprio desiderio di ordine. Così, infatti, scrive Moravia:

Quest’errore era nato da un istinto potente; disgraziatamente la normalità in cui quest’istinto si era imbattuto, non era che una forma vuota dentro la quale tutto era anormale e gratuito. Al primo urto, questa forma era andata in pezzi; e quell’istinto così giustificato e così umano aveva fatto di lui un carnefice della vittima che era stato.15

Tralasciato da un’ellissi in Moravia, l’omicidio del professor Quadri si carica invece di latenze shakespeariane (Giulio Cesare) in Bertolucci.

Senza contare che sono molte altre le turbe psichiche che agitano la mente di Marcello: basti citare l’ovvio complesso edipico (vede la madre seminuda e congiura con Manganiello per sbarazzarsi del suo amante); il confronto tra un padre biologico (interpretato da Giuseppe Addobbati) fascista, pazzo e rinchiuso in un ambiente in cui dominano i toni del bianco e un padre spirituale (Quadri) anti-fascista (ma egualmente indolente, rappresentante – tipicamente moraviano – di una borghesia che ha comunque preferito la fuga all’azione diretta), razionale e immerso in uno spazio in cui prevalgono l’oscurità e il nero; l’ossessione per una figura femminile (la triplice incarnazione di Dominique Sanda) che è di volta in volta dominante (Anna), dominata (l’amante del ministro) e «angelica peccatrice» da redimere (la prostituta incontrata a Ventimiglia). 

Il primo incontro tra Marcello e la madre.

Il padre biologico e il padre spirituale.

Le tre incarnazioni del «femminino» interpretate da Dominique Sanda.

Ma questo spettro tipologico non è interessante di per sé, giacché altrimenti offrirebbe solo l’occasione per la banale messinscena di un caso psicotico da manuale. Piuttosto, è da inquadrare in un contesto più ampio, come tentativo di rileggere e reinterpretare il dolore muto della Storia. Così, se (genialmente) in Strategia del ragno il fascismo diventava perno inestirpabile ed ereditario della coscienza dell‘homo italicus e nel successivo Novecento (1976), in maniera più spettacolare ma forse meno persuasiva, sarà il risultato di una dialettica inconciliabile tra due istanze sociali sovradetermiante, qui invece emerge come vera e propria malattia, in parte atavica (una chiave mitologica che Giuseppe Genna ha scelto per raccontare le origini del totalitarismo nel suo romanzo Hitler [2008]) e in parte dovuta a un’incapacità di distinguere tra il progresso morale e il benessere individuale (come farà Bellocchio nel sopraccitato Vincere). Non è un caso che, rispetto al testo di partenza, Bertolucci s’inventi il personaggio di Italo, amico intimo di Marcello e fervente fascista affetto guardacaso… da cecità.

Ed è soprattutto grazie a questa continua tensione tra le possibilità sovrareali dell’immagine, i silenzi straziati del singolo e le angosce mortifere della Storia che Il conformista si guadagna, come detto in esergo, un posto unico nella nostra cinematografia. Un’opera dall’identità ibrida (film «storico intimista») come il suo protagonista e che, proprio per questa sua natura (e in questo pienamente settantesco e «americano»), è riuscito a raccontare l’incontro tra forze psicologiche e sollecitazioni culturali come pochi altri nella nostra cinematografia.

NOTE

1. Nel suo Castoro, Francesco Casetti insiste sul carattere di novità che Il conformista (prodotto anche con capitali della Paramount) costituisce nella filmografia del regista, dopo i primi film semi-indipendente, a partire dall’esordio post-pasoliniano de La commare secca (1962). Ai tempi non mancarono le critiche dell’intellighenzia, che accusarono Bertolucci di aver rinunciato alla propria indipendenza per approdare al circuito del mercato. Lo stesso regista nel 1971 girerà, quasi a mo’ di risarcimento, il documentario La salute è malata, realizzato con i modi del cinema militante di presa diretta, ma tornerà subito dopo a opere di più ampio respiro produttivo già con Ultimo tango a Parigi (1972).

2. Ad esempio, Schrader ha ammesso candidamente l’influenza avuta da Il conformista per elaborare il look sexual chic di American Gigolo [id., 1980]; l’influenza di Bertolucci e Scarfiotti è stata riconosciuta da Michael Mann per la serie Miami Vice [id., creata da Anthony Yerkovich, 1984-89], da lui prodotto, e per il noir Manhunter – Frammenti di un omicidio [Manhunter, Michael Mann, 1986]; Francis Ford Coppola citerà esplicitamente la famosa immagine del vortice di foglie in una scena de Il padrino – parte II [The Godfather – Part II, 1974].

Riferimenti si possono trovare in:G.A. Nazzaro, Action!. Forme di un transgenere cinematografico, Le Mani, Recco-Genova, 2000R. Venturelli, Cinema noir americano 1960-2020. Pulp, crime, neo-noir, Einaudi, Torino, 2020

3. Basti citare per Storaro Apocalypse Now [id., Francis Ford Coppola, 1979] e per Scarfiotti Scarface [id., Brian De Palma, 1983].

4. Doveroso però ricordare che un film come Amarcord (Federico Fellini, 1973) o l’episodio del teatro della Barafonda di Roma (Federico Fellini, 1972), pur assestandosi su un’ideale rievocazione, tra il bozzetto «marcaureliano» e la cristallizzazione nostalgica, riescono a restituire straordinariamente il sentimento del Tempo e della Storia. D’altro canto, anche in letteratura, passata la stagione neorealista, sono pochi i tentativi di compiuta riflessione sul senso profondo del periodo fascista. Tra le eccezioni notevoli, ovviamente, lo straordinario affresco de La storia (1974) di Elsa Morante (ai tempi scioccamente vituperato per certe concessioni squisitamente nazionalpopolari e un presunto appiattimento stilistico rispetto agli illustri precedenti della scrittrice). In tempi più recenti, bisogna segnalare almeno Canale Mussolini (2010) e Canale Mussolini. Parte seconda (2015) del recentemente scomparso Antonio Pennacchi e la tetralogia che Antonio Scurati ha dedicato alla figura del Duce, di cui fino a oggi sono usciti M. Il figlio del secolo (2019) e M. L’uomo della provvidenza (2020).

5. Basti pensare, su tutti, ai numerosi rimandi che Novecento (1976) tesse nei confronti della pittura italiana dell’Ottocento, dai macchiaioli al celebre Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo su cui si apre il film.

6. Si vedano i numerosi omaggi tributati da Bertolucci a Godard nel suo secondo film, Partner. (1968).

7. Espressione che si ritrova in C. Duggan, Il popolo del Duce. Storia emotiva dell’Italia fascista, Laterza, Bari, 2013.

8. La scelta del nome è evidentemente ironica. Nel romanzo, il personaggio si chiama Orlando.

9. N. Vigna, Strategia del ragno, in Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 22 giugno 2018: https://specchioscuro.it/strategia-del-ragno/   

10. in S. Socci, Bernardo Bertolucci, Il Castoro, Milano, 2008

La stagione del terrorismo e degli anni di Piombo sarà raccontata dal regista in un capolavoro come La tragedia di un uomo ridicolo (1981).

11. Ibidem.

12. G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da La dolce vita a Centochiodi, Laterza, Bari, 2007

13. G. Pampaloni, introduzione a A. Moravia, Il conformista, Mondadori, Milano, 1973

14. M. Morandini, cit. in. F. Casetti, Bernardo Bertolucci, Il Castoro, Milano, 1975

15. A. Moravia, Il conformista, Mondadori, Milano, 1973