Così gli Usa hanno scaricato Bibi - La Stampa

Editoriali

In un video “rubato” mentre parlava con una famiglia di un insediamento, nel lontano 2001 Benjamin Netanyahu spiegava come fosse facile “manipolare” gli Stati Uniti. La Seconda Intifada infuriava, con decine di israeliani uccisi dai kamikaze palestinesi, persino nel cuore di Gerusalemme. Ma la principale preoccupazione del futuro primo ministro erano gli accordi di Oslo, portati su un binario morto dal governo di Ariel Sharon. Le pressioni di Washington, 23 anni fa come adesso, erano molto forti.

Bisognava riaprire le trattative e ripartire verso la soluzione “due popoli, due Stati”. Ma Netanyahu era fiducioso che, se fosse tornato a guidare il Paese, non si sarebbe andati «in quella direzione». E questo perché «l’America è qualcosa che si può indirizzare facilmente, e io so come fare». Per esempio, argomentava, «gli accordi ci permettono di mantenere zone militari, ma queste zone militari non sono ben definite: ecco, potrei trasformare l’intera valle del Giordano in una zona militare, e bloccare questa folle corsa all’indietro verso i confini del 1967».

Nella lunghissima carriera di primo ministro, il più longevo nella storia di Israele, “King Bibi” può rivendicare di esserci riuscito. La nascita di uno Stato palestinese è un miraggio all’orizzonte, sempre più sfuocato. La Terza Intifada è arrivata, ma non nella forma che si temeva. Peggio: il più sanguinoso attacco sul territorio israeliano, seguito dalla più distruttiva campagna militare. Certo, quando nel 2001 Netanyahu spiegava i suoi piani, alla Casa Bianca si era appena insediato George W. Bush, l’11 settembre era da venire, così come la demolizione di Siria, Iraq, Libia. Oggi nello studio ovale siede Joe Biden, un sincero amico dello Stato ebraico. Ha raccontato più volte che l’incontro politico che più l’ha segnato è stato quello con Golda Meir. Eppure, Netanyahu fatica a “indirizzarlo”. Distruggere gli accordi di Oslo è stato come bruciarsi le navi alle proprie spalle. Si può andare solo avanti. Il traguardo finale non è chiaro, lo stesso Netanyahu non lo ha mai esposto in modo esplicito. Lo fanno i ministri alla sua destra. Annettersi di fatto tutti i territori, cacciare gran parte dei loro abitanti, espandere senza fine gli insediamenti.

Israele può farlo, ha la forza di farlo. Ma non senza il consenso degli Stati Uniti. E il mondo di oggi non è quello del 2001. Lo Stato ebraico resta l’alleato indispensabile dell’America in Medio Oriente. Il contesto è molto più difficile. L’Occidente non si scontra più con un asse del male fatto di piccoli Stati canaglia. Si scontra con una triade formata dalla nuova superpotenza Cina, la Russia riarmata da Vladimir Putin, l’Iran che ha creato una rete di milizie nella regione in grado di tenere in scacco, per esempio, la flotta euro-statunitense nel Mar Rosso. E questo spiega perché dopo sette mesi Hamas riesce ancora a resistere. L’ascesa del Global South ha creato una deterrenza alla rovescia. La denuncia del Sudafrica alla Corte di giustizia dell’Aja è stata seguita dalla mossa dell’organismo gemello, la Corte penale internazionale. Quella che ha emesso un mandato di cattura per Putin. E che ora vuole replicare con Netanyahu. Una dozzina di parlamentari americani hanno scritto al procuratore capo, il britannico Karim Khan. E lo ha minacciato di sanzioni: «Se tu tocchi Israele, noi toccheremo te». È possibile che alla fine Khan ceda. Ma in ogni caso siamo a questo. Netanyahu ha bisogno di un salvacondotto per non ritrovarsi nello stesso girone di un Saddam Hussein, o un Bashar al-Assad, o lo stesso Putin. Ha bruciato le sue navi come Cortés, ma invece di un nuovo mondo da conquistare si trova di fronte un mondo nuovo che non riesce più a controllare.

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