“Storia della bambina perduta” di Elena Ferrante: il desiderio di narrare oltre la dicotomia autore/lettore – Diacritica

“Storia della bambina perduta” di Elena Ferrante: il desiderio di narrare oltre la dicotomia autore/lettore

Author di Isabella Pinto

Obiettivo di questo saggio è mostrare come Ferrante decostruisca la tradizionale opposizione tra autore e lettore, dove le due antinomiche entità interagiscono secondo un preciso «patto narrativo»[1], e al contempo ricostruisca, o tenti di ricostruire, un diverso rapporto tra autore e lettore[2]. Questo tipo di sperimentazione narrativa corre attraverso l’intera serie di L’amica geniale, condensandosi esplicitamente nella seconda parte del quarto e ultimo libro della tetralogia, Storia della bambina perduta.

Parimenti agli altri incipit, il primo capitolo della seconda parte del libro in questione, ovvero Vecchiaia. Storia del cattivo sangue, funge da nuovo prologo: viene raccontato un evento a cui la narratrice non è capace di attribuire senso e che ruota attorno alla scrittura del suo ultimo libro, Un’amicizia. La narrazione del processo di scrittura viene anticipata dal racconto delle motivazioni che spingono Elena Greco a lasciare Napoli[3], esempio lampante dell’illusione generata dalle ideologie legate al progresso illimitato[4]. Un altro evento che ci porta vicino alla scrittura di Un’amicizia è la partenza della figlia Imma che, come le due sorelle maggiori, lascia la casa materna per studiare all’estero. Queste separazioni segnano la fine di una fase importante della vita della narratrice, portando Elena a farne un bilancio negativo, scandito secondo la pubblicazione e il successo dei propri libri[5]. A giudicare dagli introiti dei libri pubblicati, lettori e lettrici sono migrati verso nuovi lidi e, al pari delle figlie, abbandonano l’autrice. Attanagliata dalla noia, di tanto in tanto Elena torna a Napoli per brevi soggiorni in cui alle volte incontra Lila, ma più spesso rimane sola finché, nel 2006:

Chiusa in un vecchio albergo di corso Vittorio Emanuele per colpa di una pioggia che non smetteva mai, scrissi per ingannare il tempo, in pochi giorni, un racconto di non più di ottanta pagine ambientato al rione e che raccontava di Tina. Lo scrissi velocemente per non darmi il tempo di inventare. Ne vennero fuori pagine secche, diritte. La storia si impennava fantasiosamente solo nel finale. Pubblicai il racconto nell’autunno del 2007 col titolo Un’amicizia. Il libro fu accolto con grande favore, si vende ancora oggi molto bene, le insegnanti lo consigliano alle alunne come lettura per l’estate. Ma io lo detesto[6].

Un’amicizia, possiamo dire provvisoriamente, è contemporaneamente la Storia della bambina perduta e la reificazione del fatto che Elena ha deliberatamente infranto il patto stipulato con Lila[7], strategia narrativa che sia istituisce un continuum tra finzione e realtà sia acuisce la dimensione autoriflessiva latente del romanzo che, con Santovetti, consideriamo una vera e propria mise-en-abîme[8]. Grazie a questo meccanismo narrativo, la narratrice sostiene l’impossibilità di raccontare il dolore di Lila, generato dall’improvviso sparire della figlia[9]. Tuttavia, cosa si accinge a raccontare la narratrice se non il dolore di Lila? Che tipo di patto stipula con la lettrice, disattendendo immediatamente quanto da lei stessa sostenuto?

Il desiderio di narrare in Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino

Per indagare a fondo la strategia poetica e politica di Ferrante compariamo i passaggi meta-discorsivi del testo in questione con la strategia della messa in scena del lettore di Italo Calvino, per come appare in Se la notte d’inverno un viaggiatore (riscrittura postmoderna del racconto L’avventura di un viaggiatore[10] contenuta nella raccolta Gli amori difficili[11]). Attraverso la rilettura femminista della divisione sessuale dei personaggi proposta da Teresa de Lauretis, vediamo come vengano assegnati i ruoli di Autore e Lettore alle figure maschili, mentre alle figure femminili quelli di Lettrice (Ludmilla) e quello di una non definibilità rispetto ai criteri tradizionali della partizione del fatto letterario (Lotaria). Tale divisione serve a Calvino per mettere in scena sia la lettura che la scrittura in quanto funzione del desiderio[12], una distribuzione che tuttavia cela il posizionamento maschile del funzionamento dell’atto sessuale rispetto a ciò che l’autore intende neutralmente e universalmente come «funzione del desiderio»:

L’inseguimento del finale del libro corrisponde all’inseguimento dell’oggetto d’amore irraggiungibile, la chiusura narrativa è ostacolata dall’écriture, dalla dispersione del significato, dalla scrittura come différance; e il piacere del testo è infiltrato o intercalato con la jouissarue del testo. Più semplicemente, come suggerito una volta dal critico americano Robert Scholes, l’archetipo di questa finzione è l’atto sessuale maschile[13].

Se seguiamo l’analisi di de Lauretis attorno alla figura di Lotaria, colei che non desidera soltanto leggere, come Ludmilla, ma che pretende anche di fare critica letteraria e addirittura di scrivere, vediamo ulteriormente confermato il fatto che la dinamica del desiderio maschile corre in parallelo con il desiderio di scrivere. Calvino, infatti, raffigura Lotaria come parte delle Amazzoni:

Tra gli scaffali è apparsa una ragazza dal collo lungo e dal viso da uccello, lo sguardo fermo e occhialuto, la grande ala dei capelli ricciuti, vestita d’una larga blusa e stretti pantaloni. […] Dietro a Lotaria premono gli avamposti d’una falange di giovinette dagli occhi limpidi e tranquilli, occhi un po’ allarmanti forse perché troppo limpidi e tranquilli[14].

Un passaggio da cui si deduce, con de Lauretis, una forte critica verso il tipo di femminilità rappresentata da Lotaria, mascolina e femminista, espressa dall’ironia della voce narrante con quel «troppo limpidi e tranquilli», che in termini lacaniani denota la donna in quanto castratrice simbolica[15] e che da Cesare Pavese in poi diventerà altresì caratteristica della letteratura italiana contemporanea[16]. Inoltre, de Lauretis giunge a mostrare come la figura di Ludmilla, che rappresenta la Lettrice Donna interessata solo al piacere della lettura, serva all’autore per confermare la bontà dei confini che separano Autore e Lettore:

Ludmilla – il personaggio più originale del libro, secondo diversi critici di sesso maschile – oltre a non essere interessata agli autori in carne e ossa (ciò che ama è la funzione-autore), rifiuta positivamente di avere qualcosa a che fare con la scrittura. Non andrà nemmeno all’ufficio della casa editrice per non oltrepassare il confine tra chi fa i libri e chi li legge. Vuole rimanere una lettrice, “per principio”. Quindi non prende parte alle attività critiche o intellettuali della sorella e non le interessa il romanzo “femminista” discusso nel seminario delle donne[17].

Grazie a Mara Mauri Jacobsen vediamo inoltre come, tanto per Calvino quanto per Jacques Lacan, l’attività della scrittura e il rapporto sessuale abbiano alcuni parallelismi che riportano alla dinamica del desiderio come mancanza:

Nella prima parte di Se una notte e soprattutto nel capitolo settimo, Calvino stabilisce un parallelo tra lettura e rapporto sessuale su cui molti hanno commentato. […] Non c’è dubbio che qui Calvino sia sulla stessa posizione di Lacan il quale afferma: “Non c’è rapporto sessuale perché il godimento dell’Altro preso come corpo è sempre inadeguato – perverso da un lato, in quanto l’Altro si riduce all’oggetto “a” – e dall’altro, dirò folle, enigmatico” […]; ma Lacan (e così Calvino) non si ferma qui: “Non è forse dallo scontro con questa impasse, con questa impossibilità da cui si definisce un reale, che è messo alla prova l’amore? Del partner, l’amore può realizzare solo ciò che ho chiamato con una sorta di poesia, per farmi intendere, il coraggio, nei confronti di questo destino fatale”[18].

Da questa angolazione la scrittura è attività maschile per eccellenza, espressione dell’ordine simbolico patriarcale, dove il linguaggio, la circolazione dei significati e la stessa significazione sono soggetti al Nome del Padre, rimandando alla struttura della castrazione simbolica in cui il fallo è il significante del desiderio[19]. In questo quadro vediamo confermato come il desiderio che sottende la scrittura e la lettura messo in scena da Calvino sia il desiderio in quanto assenza:

Questo nucleo di silenzio al fondo alla comunicazione umana è un’area di passività, un residuo non disponibile di negatività che, per Calvino, è l’essenza della relazione sessuale. Il desiderio è fondato sull’assenza, nella tensione verso piuttosto che nel raggiungimento dell’oggetto d’amore, nei ritardi, negli spostamenti, nei differimenti[20].

Date queste premesse, perché Calvino dedica spazio alle figure femminili e in particolare alla figura di Lotaria? L’allegoria mascolina di Lotaria viene letta da de Lauretis come possibile apertura di Calvino verso una bisessualità simbolica, in cui la donna non è semplicemente l’Altro per eccellenza, ma il differente, l’eterogeneo, il non comparabile, l’elemento che concede un’ambiguità di lettura. De Lauretis approfondisce allora tale ipotesi leggendo la figura di Lotaria in modo «aberrante»[21]:

Si è tentati di leggere Lotaria come il vero scrittore/lettore postmoderno. Il rappresentante di un postmodernismo di resistenza che riesce a sfuggire non solo alla cattura della narrativa (scompare dal testo dopo la scena del sesso) ma anche – e in modo maggiormente importante – alla prigionia nel letto coniugale. Per leggere Lotaria, tuttavia, si dovrebbe – precisamente – ‘riscriverla’, che in un certo senso è ciò che ho fatto, con autentico gesto postmoderno[22].

Il gesto della riscrittura di un personaggio come strumento di lettura postmoderno porta de Lauretis a interrogarsi nuovamente su tale temperie, attraverso lo studio di Craig Owens[23]. In tal modo De Lauretis mostra come artiste quali Mary Kelly, Laurie Anderson, Martha Rosler, Barbara Kruger siano implicate in un doppio processo, da un lato quello della «decostruzione della femminilità», ovvero la decostruzione dell’immagine della Donna proveniente dalla cultura patriarcale, dall’altro quello di investigazione delle rappresentazioni della Donna e del «cosa la rappresentazione fa [produce] nelle donne». Di contro, la produzione artistica ufficiale (quella maschile) non è impegnata in questioni legate al genere, che invece emergono dalle voci delle nazioni del Terzo mondo, della «rivolta della natura» e del movimento femminista. La produzione ufficiale dell’epoca postmoderna sembra più «impegnata in un atto collettivo di disconoscimento», sia che simuli la maestria artistica sia che ne contempli la perdita in seno all’artista. Anche il libro di Calvino, secondo de Lauretis, si inserisce in questo clima, mettendo in scena un massiccio dispiegamento di segni, in cui alla finzione viene aggiunta un certo tipo di «retorica sulla finzione stessa». L’esplosione segnica dell’arte postmoderna maschile è quindi la rappresentazione di una tensione verso l’assenza o la mancanza che produce, paradossalmente, un di più di presenza maschile[24]. L’analisi di Jacobsen ci permette altresì di vedere come il “lavoro della scrittura” di Calvino sia inteso come «Labour of love» da de Lauretis:

In Se una notte si stabilisce il rapporto tra la vicenda dei protagonisti e l’incontro autore-lettore. Non è un caso che il rapporto sessuale non coincida con il finale del libro (è infatti a metà del testo), ma stabilisca invece il parallelo tra due ricerche che continuano: per la Lettrice quella del “partner fantasmatico”, dell’“apocrifo visitatore dei suoi sogni” […]; per lo “scrittore” quella della sua “vocazione”[25].

Dunque, anche il rapporto tra Autore e Lettore è connotato, attraverso il genere, come qualcosa di oppositivo, due termini separati da un confine invalicabile. Tuttavia, per de Lauretis il parallelismo tra il «lavoro della scrittura» e il «lavoro dell’amore» evocato da Calvino mostra il motivo per cui, in quanto donne, continuiamo a essere attratte da questo dispiegamento dei segni sulla pagina, anche se Calvino non concede un eguale accesso alla scrittura per Uomini e Donne. Di conseguenza, de Lauretis si domanda: perché nella scrittura di Calvino si rende necessario questo rapporto con il femminile? Perché Calvino propone una lettrice femminile ri-contenuta all’interno della struttura del libro come un semplice personaggio nella finzione di un uomo, ridotto a un ritratto, un’immagine, una figura dell’immaginario maschile? Secondo de Lauretis perché

[…] la donna è ancora il terreno della rappresentazione, anche in tempi postmoderni. Paradossalmente, per tutti gli sforzi spesi per ricontattare le donne reali nel sociale, sia per mezzo economico o ideologico, per minacce o per seduzione, è la Donna assente, quella perseguita nei sogni e trovata solo nella memoria o nella finzione, che serve come garanzia di mascolinità, ancoraggio dell’identità maschile e sostegno della creatività e dell’autorappresentazione dell’uomo. Proprio come lo era per Flaubert, Madame Bovary c’est lui[26].

Nell’opera di Calvino c’è dunque spazio per il polo del femminile ma solo in quanto assenza reale, che funziona per riconfermare la centralità del soggetto scrivente maschile. Quest’ultimo, esplicitamente messo in crisi dall’emersione di voci altre, instaura con loro relazioni di normalizzazione, tramite il ri-contenimento all’interno della struttura simbolica patriarcale, la quale, contemporaneamente, viene così aggiornata. Nello studio condotto da Annelise Maugue, la filosofa rileva che i periodi storici in cui emerge il femminismo vengono rappresentati dalla cultura patriarcale come momenti di crisi di identità degli uomini, i quali tendono a reagire con paura e violenza all’emancipazione delle donne. Gli uomini, per supplire forse all’avversione, forse all’incapacità di occuparsi della loro identità, metaforizzano la propria crisi trasferendo i discorsi sul femminile con l’intenzione di decostruirlo[27]. In questo senso quindi sosteniamo che la figura della donna che vediamo in Calvino è quella dell’immagine che l’autore maschio ha di lei nel momento in cui ella rivendica il diritto e il piacere di ricoprire diverse posizioni, non solo quella della Lettrice (assegnatale dalla tradizione patriarcale). Questo, secondo de Lauretis, fa riemergere il Calvino moderno dal palinsesto del postmoderno, ossia come riscrittura delle sue opere moderniste in cui, se l’avventura amorosa era «un movimento interiore, uno stato mentale, un percorso verso il silenzio», nella riscrittura postmoderna emerge una doppia necessità: da una parte, l’esigenza storica di confrontarsi con il femminismo (e con la propria [in]consapevole aderenza al sistema patriarcale); dall’altra, la volontà di rimettere le donne al proprio posto, il che dimostra che «il discorso degli altri» è una sfida che può ancora mettere seriamente a repentaglio lo status quo[28].

Tuttavia, come aggiunge Olivia Santovetti sulla scorta di de Lauretis, se da un lato lo stereotipo di genere autore-maschio/lettrice-femmina è riprodotto dal narratore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, dall’altro è «innegabile che in questo testo la digressività, che è carica di un valore positivo, sia associata alla femminilità. Per la lettrice l’espressione del desiderio è tutt’uno con il desiderio di una narrazione non lineare»[29]. Quindi, secondo Santovetti, nonostante la dicotomia oppositiva tra scrittura e lettura, c’è un guadagno rispetto alla posizione di lettrice, esemplificata dalla messa in scena di desiderio di una narrazione non-lineare che non rispecchia il modo tradizionalmente patriarcale di raccontare tanto le storie quanto e soprattutto la Storia, espresso similmente dai personaggi di Lotaria e di Lila.

Infine, secondo Jacobsen[30], rispetto al finale di Se una notte d’inverno un viaggiatore (costituito dal racconto Quale storia ci attende laggiù?), non solo, come sostiene Cesare Segre[31], l’autore si riferisce ai problemi della finzione letteraria e della nominazione, ma anche al rapporto tra il mondo e il nulla: «Intorno il vuoto è sempre più vuoto […]. Siamo noi i soli superstiti? Con terrore crescente comincio a rendermi conto della verità: il mondo che io credevo cancellato da una decisione della mia mente che potevo revocare in qualsiasi momento, era finito davvero»[32].

Questa modalità di percezione è tale per cui il narratore calviniano «raccontandosi e riraccontandosi […] finisce per riscrivere sempre la stessa storia. Le “tracce” sono seminate ovunque per il lettore: un nome ripetuto da una storia all’altra, lo stesso vocabolario, la stessa situazione»[33].

Quello messo in scena da Calvino è quindi un narratore che, nonostante l’apparente molteplicità dell’esistente o al contrario il suo totale annichilimento, riporta la narrazione sempre e comunque su sé stesso.

Desiderio non-edipico e narrazione: il non senso come motore della narrazione e non come telos

La tesi che sto tentando di dimostrare fa tesoro di questo orizzonte circa il rapporto tra narratore, autore e desiderio per oltrepassarlo. Come? A mio avviso, Ferrante riesce a proporre un’alternativa a tale relazionalità poiché la sua scrittura sottintende una differente dinamica del desiderio. Proprio perché, come hanno mostrato de Lauretis e Santovetti, il polo del femminile (simbolico) è quello che non si riconosce negli andamenti del desiderio (sessuale) maschile, così come connotato dal côté psicanalitico lacaniano (mancanza e negatività), la relazione tra le figure femminili, notoriamente ambigue, eterogenee, ambivalenti, non definite, è il terreno su cui si può operare questo tipo di sperimentazione desiderante. Tale sperimentazione in Ferrante non è fine a sé stessa, essendo alla ricerca di una rilevanza politica, elemento che desumiamo dal fatto che l’autrice adotta una chiara voce femminile tendendo non alla riaffermazione del soggetto Uomo (e alle sue dicotomie), ma alla creazione di un diverso tipo di soggettività (che avrà quindi anche un diverso legame sia con la scrittura che con il desiderio).

In questo senso mi riferisco a quella linea che, da Spinoza a Braidotti, passando per Deleuze, parla del desiderio come forza produttiva vitalistica propria della materia[34]. Intendere il desiderio come impulso produttivo non edipico permette l’autopoiesi della soggettività, intesa come multipla al suo interno e, al contempo, immanentemente relazionale. Parlo di autopoiesi rifacendomi, in prima istanza, alla schematizzazione proposta da Eleonora de Conciliis[35]. Grazie alla filosofa, vediamo come siano apparsi storicamente in Occidente due idealtipi di emergenza del sé: l’«autopoiesi del sé» e l’«ermeneutica del soggetto». Nonostante esse siano oggi due modalità profondamente complicate, de Conciliis, sulla scorta dell’approccio genealogico di Nietzsche e Foucault[36], le separa per renderle visibili e coglierne le differenze. L’autopoiesi compare durante la civiltà greca classica ed è un primo dispositivo da cui emerge il soggetto:

Qui, dove non vi è un solo Essere trascendente (poiché il divino coincide con la pluralità delle forze della physis e con il logos), il soggetto si costruisce in relazione ad altri, con cui si misura nell’esperienza della guerra (polemos) o nel medio del logos. Si tratta di una creazione orizzontale oltre che razionale, di un soggetto radicalmente socializzato ed estroflesso, ma anche e per ciò stesso sovrano, padrone di sé stesso: per la prima volta l’uso non rituale del linguaggio, insieme alla pratica relazionale di veridizione che i greci chiamavano parresía, permette ai soggetti di costruirsi l’uno a confronto con l’altro, di lavorare su di sé e auto-prodursi come centri di forze. Questa “rivalità degli uomini liberi” (Deleuze), che Foucault ha analizzato nei suoi ultimi corsi al Collège de France, non presuppone alcuna eguaglianza (un mito elaborato successivamente dalla filosofia politica moderna), ma per l’appunto il libero gioco di forze diseguali, che agiscono nello spazio politico dell’immanenza, e obbediscono alle regole della città aristo-democratica – la politeia aristotelica, che funziona come dispositivo[37].

Inoltre l’autopoiesi, a differenza dell’ermeneutica del soggetto, permette all’essere umano di sporgersi sull’insensato della vita:

L’autopoiesi greca rappresenta una volontà di potenza non ingenuamente superomistica (in fondo il superuomo è un fanciullesco mito nietzschiano), ma adulta e concretamente puntuale, perché in grado di sopportare la vertigine del vuoto: il soggetto si realizza come puntazione di forza che elabora linguisticamente un senso, a partire dalla tragica insensatezza dell’esistenza. […] A differenza dell’ermeneutica del sé, costruzione verticale e metafisica del soggetto come inferiore a un Creatore infinitamente superiore[38].

Che vuol dire, allora, il rapporto tra autopoiesi e non senso?

In questa ottica, l’autopoiesi greca non rappresenta un’alternativa, un modello, ma piuttosto la possibilità originaria della filosofia come forma diversa di creatività: come capacità “soggettiva” di creare senso a partire dal non senso. Senza con ciò mitizzarlo più di quanto non abbia già fatto il pensiero politico umanistico (da Hegel a Arendt), potremmo dire che il logos parresiastico costituisce la prima forma di ragione creativa o creazione di soggetti che non siano “oggetti”, ovvero la prima deleuziana fabbrica di concetti come forma di produzione che non implica contemplazione, ma soltanto (ironica) riflessione. In tale chiave anti-umanistica, l’autopoiesi greca lascia intravedere un’emergenza diversa del sé, rispetto a ciò che Foucault chiamava “ermeneutica del sé” o “ermeneutica del soggetto”[39].

Sporgersi sul non senso della vita è ciò con cui si chiude Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma anche ciò che muove tutte le narrazioni di Ferrante, da L’amore molesto all’ultimo romanzo della tetralogia. La differenza tra le due teorie narrative sta nel fatto che, se per Calvino il non sapere è un punto di arrivo, il telos, contrariamente per Ferrante il non sapere è ciò che costituisce il punto di partenza di ogni storia, similmente a quanto sostengono Deleuze e Guattari: si parte da un «non so positivo e creatore, condizione della creazione stessa, il quale consiste nel determinare per mezzo di ciò che non si sa»[40].

Elena Greco, così come Elena Ferrante, è la narratrice degli eventi che ella stessa non comprende e di cui, tuttavia, in quanto narratrice, tenacemente racconta. Tale non senso è amplificato dal fatto che tutte le narratrici di Ferrante sono narratrici inaffidabili, per cui vi è sempre una negazione iniziale, ovvero una dichiarazione di incapacità di raccontare – ad esempio, il dolore di Lila provocato dalla scomparsa della figlia Tina – che, però, è al tempo stesso una negazione creativa. Rimanendo sullo stesso esempio, nonostante Elena racconti ciò che accade a Lila e ai personaggi implicati in questo evento, il dolore di Lila rimane un elemento di cui il lettore non saprà mai il o un significato fattuale. Piuttosto a Ferrante interessa, a mio avviso, raccontare il processo di trasformazione del sé indotto da una tale deviazione della trama.

Scrittura e desiderio non-edipico, Virginia Woolf e Vita-Sackville West

È dal punto di vista della trasformazione, della metamorfosi dei personaggi, che analizzo la parte finale della tetralogia, quindi in quanto compresenza di una molteplicità che non può essere ridotta ad unità dalla voce narrante. Riprendendo il filo della narrazione, vediamo come Elena scriva pensando alla smarginatura dell’amica, e in tal modo racconti l’effetto che la potenza di Lila ha su di lei:

Al solito mi bastava una mezza frase di Lila e il mio cervello ne riconosceva l’aura, si attivava, liberava intelligenza. Ormai lo sapevo che riuscivo a far bene soprattutto quando lei, anche solo con poche parole sconnesse, garantiva alla parte più insicura di me che ero nel giusto. Trovai una sistemazione compatta ed elegante al suo brontolio digressivo. Scrissi della mia anca, di mia madre. Adesso che avevo intorno a me sempre più consenso, ammettevo senza disagio che parlare con lei mi suscitava idee, mi spingeva a stabilire nessi tra cose distanti. In quegli anni di vicinato, io al piano di sopra, lei a quello di sotto, era successo spesso. Bastava una spinta lieve e la testa che pareva vuota si scopriva piena e vivacissima. Le attribuivo una sorta di vista lunga, gliel’avrei attribuita per tutta la vita, e non ci trovavo niente di male. Mi dicevo che essere adulte era questo, riconoscere che avevo bisogno delle sue spinte. Se quell’accensione che lei m’induceva una volta la nascondevo anche a me stessa, ora ne andavo fiera, ne avevo persino scritto da qualche parte. Io ero io e proprio per questo motivo potevo farle spazio in me e darle una forma resistente. Lei invece non voleva essere lei, quindi non sapeva fare lo stesso. La tragedia di Tina, il fisico debilitato, il cervello allo sbando certamente concorrevano alle sue crisi. Ma il malessere che chiamava smarginatura aveva quella ragione di fondo[41].

Ci è utile leggere questo passaggio attraverso il modo in cui, a partire da Deleuze, viene sviluppato un concetto di desiderio non edipico, i cui corollari sono immaginazione, memoria, piacere in quanto elementi che permettono i processi di divenire delle soggettività[42]. Tali processi sono movimenti di trasformazione radicale della soggettività e, per renderli più comprensibili, Braidotti li mostra attraverso l’analisi del carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West[43] (con cui la Woolf ebbe un’intensa relazione e che le ispirò la scrittura di Orlando[44]): sono tali per cui notiamo forti risonanze con la coppia Elena-Lila. Infatti, al pari di Vita Sackville-West, Lila funziona come «una forza vitale di proporzioni mitiche»[45] attorno a cui «si produce un’accelerazione della vita, indotta dalla rapidità del desiderio, ma anche dalla più sopportabile leggerezza del divenire»[46]. In questo contesto il desiderio non edipico è quella forza che produce un’accelerazione delle intensità vitali e, non casualmente, Elena ha un’epifania subito dopo l’ultimo incontro/scontro con Lila, durante il quale quest’ultima l’accusava di essere la causa della scomparsa della figlia Tina:

Fu in quel momento che schizzò su all’improvviso, come un galleggiante non più compresso sotto la superficie dell’acqua, la certezza che Lila, scrivendo di Napoli avrebbe scritto di Tina, e il testo – proprio perché nutrito dello sforzo di dire un dolore indicibile – si sarebbe rivelato fuori dal comune. Quella certezza prese piede con forza e non si affievolì mai[47].

Questo passaggio mostra come l’oggetto del desiderio venga prodotto dall’immaginazione di Elena; Lila è espressione del suo desiderio intrecciato alle storie in cui è immersa. Ci sembrano, allora, pertinenti le parole che Braidotti usa per descrivere il rapporto narrativo tra Virginia e Vita, sottolineando «la natura a-personale del desiderio che è in gioco, che non coincide affatto con le biografie individuali delle protagoniste. Al contrario le reinventa davvero, dal momento che le due riscrivono l’una la vita dell’altra, producendo forti ingerenze reciproche»[48]. Un desiderio che, in L’amica geniale, si assesta nella fantasia ordinatrice di Elena, a cui cioè la narratrice dà forma proprio perché il «[…] desiderio è un meccanismo no-profit e il suo contributo a una produzione piena di significato è semplicemente la forma che prende per esprimersi: il desiderio è sempre desiderio di esprimersi e di fare in modo che le cose accadano»[49].

Così, in Ferrante:

la certezza prese la forma di un augurio, di una speranza. Mi sarebbe piaciuto che Lila un giorno mi telefonasse per dirmi: ho un dattiloscritto, uno scartafaccio, uno zibaldone, insomma un testo mio che mi piacerebbe tu leggessi e che mi aiutassi a sistemare. L’avrei letto subito. Ci avrei messo le mani per dargli una forma accettabile, probabilmente di passaggio in passaggio avrei finito per riscriverlo. Lila, malgrado la sua vivacità intellettuale, la memoria straordinaria, le letture che doveva aver fatto per tutta la vita a volte parlandomene, più spesso nascondendomele, aveva una formazione di base assolutamente insufficiente e nessuna competenza di narratrice. Temevo che sarebbe stato un disordinato accumulo di cose buone mal formulate, di cose splendide collocate al posto sbagliato. […] Fantasticavo sulla collana dentro cui avrei inserito quel testo fantasma, su ciò che avrei fatto per dargli la massima visibilità e cavarne lustro anch’io[50].

Elena è spinta a telefonare spesso a Lila dal desiderio di leggere e sistemare gli scritti immaginari dell’amica, altresì cercando di capire se quest’ultima stia realmente scrivendo qualcosa: «Lei matematicamente rispondeva: quale passione, quali appunti, sono una vecchia pazza come Melina, te la ricordi Melina, chissà se è ancora viva. Allora lasciavo cadere la questione, passavamo ad altro»[51].

Tuttavia, durante le telefonate è Lila che tiene il filo della narrazione, racconta delle persone e del rione, e quando Elena accenna esplicitamente alla scrittura Lila rimane enigmatica:

“Rino dice fesserie. Vado su Internet. Mi informo sulle novità dell’elettronica. Questo faccio, quando sto al computer. Non scrivo”. “Sicuro?”. “Certo. Rispondo mai alle tue mail?”. “No, e mi fai arrabbiare: io ti scrivo sempre e tu niente”. “Vedi? Non scrivo niente a nessuno, nemmeno a te”. “Va bene. Ma nel caso tu scrivessi qualcosa, me lo faresti leggere, me lo faresti pubblicare?”. “La scrittrice sei tu”. “Non mi hai risposto”. “Ti ho risposto, ma tu fai finta di non capire. Per scrivere bisogna desiderare che qualcosa ti sopravviva. Io invece non ho nemmeno la voglia di vivere, non ce l’ho mai avuta forte come ce l’hai tu. Se potessi cancellarmi adesso, proprio mentre ci parliamo, sarei più che contenta. Figuriamoci se mi metto a scrivere”[52].

Quello che passa tra Elena e Lila è uno spazio intensificato e accelerato del divenire, che in Elena produce il desiderio di scrittura e in Lila l’idea di cancellarsi:

Quell’idea di cancellarsi l’aveva espressa spesso, ma a partire dalla fine degli anni Novanta – soprattutto dal 2000 in poi – diventò una sorta di ritornello sfottente. Era una metafora, naturalmente. Le piaceva, vi aveva fatto ricorso nelle circostanze più diverse, e non mi venne mai in mente, nei tanti anni della nostra amicizia – nemmeno nei momenti più terribili seguiti alla scomparsa di Tina –, che pensasse al suicidio. Cancellarsi era una sorta di progetto estetico. Non se ne può più, diceva, l’elettronica sembra così pulita e invece sporca, sporca moltissimo, e ti obbliga a lasciare te stessa dappertutto come se ti cacassi e ti pisciassi addosso di continuo: io invece di me non voglio lasciare niente, il tasto che preferisco è quello che serve a cancellare. Quella smania in alcuni periodi era stata più vera, in altri meno[53].

Vediamo qui un ribaltamento rispetto alla coppia Vita-Virginia. A differenza del suicidio di Woolf, la scrittrice, sarà Lila a cancellarsi, la “non scrittrice”, colei che viene tramutata in figura estetica da Elena: «La cancellazione di sé, operata da Virginia, è determinante per l’intero processo: essere capaci di reggere, provocare, registrare e restituire la via che è in Vita, amplificata all’ennesima potenza. Tale è il compito della potenza e tale è la geniale peculiarità della scrittura di Virginia Woolf»[54]. Una cancellazione che in Ferrante è anche un modo, a mio avviso, per criticare all’interno della narrazione finzionale il sistema della notorietà legato al nome proprio dell’autore:

Mi ricordo una tirata perfida che muoveva dalla mia notorietà. Eh, disse una volta, quante storie per un nome: famoso o no, è solo un nastrino intorno a un sacchetto riempito a vanvera con sangue, carne, parole, merda e pensierini. Mi prese in giro a lungo su quel punto: sciolgo il nastro – Elena Greco – e il sacchetto resta lì, funziona lo stesso, a casaccio naturalmente, senza meriti né demeriti, finché non si rompe. Nei giorni suoi più cupi diceva con una risata aspra: voglio snodarmi il nome, sfilarmelo, buttarlo via, scordarmene[55].

Elena non si rassegna, e il fantasma della creatività di Lila torna, con forza, a tormentarla:

Ma in altre occasioni era più rilassata. Succedeva – mettiamo – che la chiamassi sperando di convincerla a parlarmi del suo testo e, sebbene lei ne negasse con forza l’esistenza seguitando a schermirsi, la sentivo come se la mia telefonata l’avesse sorpresa nel pieno di un momento creativo. Una sera la trovai felicemente stordita. Fece i suoi soliti discorsi di annichilimento d’ogni gerarchia – tante storie sulla grandezza di questo e di quell’altro, ma che merito c’è a essere nati con certe qualità, è come ammirare il panierino della tombola quando lo scrolli ed escono i numeri buoni –, ma si espresse con fantasia e insieme con precisione, percepii il piacere di inventare immagini. Ah come sapeva usare le parole, quando voleva. Sembrava custodire un suo senso segreto che toglieva senso a tutto. Fu questo forse che cominciò a intristirmi[56].

La sensazione di malessere generata dal confronto con l’immagine di Lila che Elena stessa si è costruita viene acuita dalla solitudine della condizione di madre di figlie ormai adulte che vivono negli Stati Uniti (elemento che permette a Ferrante di accennare velocemente anche agli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York[57]) e che non riconoscono il suo valore:

Attribuiscono il loro benessere e i loro successi al padre. Ma io – io che non avevo privilegi – sono il fondamento dei loro privilegi. Mentre ragionavo così, qualcosa mi sconfortò. Accadde probabilmente quando le tre ragazze portarono festosamente i loro uomini davanti allo scaffale dove c’erano i miei libri. Probabilmente nessuna di loro ne aveva mai letto uno, di certo non glielo avevo mai visto fare e comunque non me ne avevano mai parlato. Adesso però ne sfogliavano qualcuno, ne leggevano perfino qualche frase ad alta voce. Quei libri nascevano dal clima in cui ero vissuta, da ciò che mi aveva suggestionata, dalle idee che mi avevano influenzata. Avevo seguito passo passo il mio tempo, inventando storie, riflettendo. Avevo indicato mali, li avevo messi in scena. Avevo prefigurato non so quante volte mutamenti salvifici che però non erano mai arrivati. Avevo usato la lingua di tutti i giorni per indicare cose di tutti i giorni. Avevo calcato su certi temi: il lavoro, i conflitti di classe, il femminismo, gli emarginati. Ora ascoltavo frasi mie scelte a caso e le sentivo imbarazzanti. Elsa – Dede era più rispettosa, Imma più cauta – leggeva con piglio ironico dal mio primo romanzo, leggeva dal racconto sull’invenzione delle donne da parte dei maschi, leggeva da libri pluripremiati. La sua voce metteva abilmente in rilievo difetti, eccessi, toni troppo esclamativi, la vecchiaia di ideologie che avevo sostenuto come indiscutibili verità. Soprattutto si soffermava divertita sul lessico, ripeteva due o tre volte parole che da tempo erano passate di moda e suonavano insensate[58].

Riconfermando la crisi della pratica dell’affidamento[59], Elena percepisce il differenziale relazionale che passa nel piano di immanenza condiviso tra lei e le figlie rispetto a quello che condivide con Lila:

A cosa stavo assistendo? A uno sfottò affettuoso come se ne facevano a Napoli – il tono sicuramente mia figlia l’aveva appreso lì – che però, di rigo in rigo, stava diventando la dimostrazione dello scarso valore di tutti quei volumi allineati insieme alle loro traduzioni? […] Ma da allora qualcosa mi cambiò dentro. Di tanto in tanto prendevo uno dei miei volumi, leggevo qualche pagina, ne avvertivo la fragilità. Le mie incertezze di sempre si potenziarono. Dubitai sempre più della qualità delle mie opere. Invece il testo ipotetico di Lila, in parallelo, assunse un valore imprevisto. Se prima ci avevo pensato come a una materia grezza su cui avrei potuto lavorare insieme a lei, cavandone un buon libro per la mia casa editrice, ora si mutò in un’opera compiuta e quindi in una possibile pietra di paragone[60].

Il fantasma dell’opera di Lila produce così in Elena la necessità di tornare alla Fata blu e di riconfermare, con esso, l’evidenza della disparità che la differenziava dall’amica fin dall’infanzia:

[…] se presto o tardi dai suoi file verrà fuori un racconto di gran lunga migliore dei miei? Se io davvero non ho mai scritto un romanzo memorabile e lei, lei invece, lo sta scrivendo e riscrivendo da anni? Se il genio che Lila aveva espresso da bambina con la Fata blu, turbando la maestra Oliviero, adesso, in vecchiaia, sta manifestando tutta la sua potenza? In quel caso il suo libro sarebbe diventato – anche solo per me – la prova del mio fallimento e leggendolo avrei capito come avrei dovuto scrivere ma non ero stata capace. A quel punto la cocciuta autodisciplina, gli studi faticosissimi, ogni pagina o riga che avevo pubblicato con successo si sarebbero dissolti come quando per mare la tempesta in arrivo urta contro il filo viola dell’orizzonte e copre ogni cosa. La mia immagine di scrittrice venuta da un luogo degradato ma approdata a un esito diffusamente stimato avrebbe svelato la propria inconsistenza. Si sarebbe attenuata la soddisfazione per le mie figlie ben riuscite, per la notorietà, persino per il mio ultimo amante, un professore del Politecnico, otto anni meno di me, un figlio, due volte divorziato, che vedevo una volta a settimana nella sua casa in collina. L’intera mia vita si sarebbe ridotta soltanto a una battaglia meschina per cambiare classe sociale[61].

Nella parte finale del romanzo Ferrante svela la natura mediocre di Elena Greco, ma al contempo l’autrice racconta i suoi tentativi di trasformare le passioni negative nell’affermazione di passioni positive. In questo modo mette in movimento le teorie di Braidotti[62], facendo emergere un andirivieni tra i diversi stadi. In questi ultimi passaggi della narrazione viene raccontato l’ipotetico spiazzamento di sé che un testo scritto da Lila produrrebbe nella narratrice, per cui Elena passa dallo sperare che Lila abbia scritto qualcosa al temere che l’amica abbia scritto qualcosa[63]. Il passaggio dallo sperare al temere mette in scena il pericolo a cui è esposta l’identità di scrittrice di Elena, che si è nutrita della vita dell’amica, della loro dimensione transindividuale[64], vergandola con il proprio nome.

L’amore tra Elena e Lila: desiderio, conflitto, scrittura

Nella mutevolezza dell’immagine di Lila per come appare agli occhi di Elena c’è un’ulteriore chiave di lettura dell’intero romanzo, ovvero l’esplicitazione del desiderio di narrare di Elena è espressione dell’amore (affermativo e tremendo ad un tempo) che prova per Lila: «L’avevo sempre sopravvalutata, da lei non sarebbe venuto niente di memorabile, cosa che mi rasserenava e intanto sinceramente mi dispiaceva. Io amavo Lila. Volevo che lei durasse. Ma volevo essere io a farla durare. Credevo che fosse il mio compito. Ero convinta che lei stessa, da ragazzina, me lo avesse assegnato»[65].

L’amore che prova Elena verso Lila costituisce un percorso di scrittura che porta Elena (Greco o Ferrante?) a scrivere il racconto Un’amicizia, mostrando la creatività e insieme la distruttività del proprio desiderio, ovvero la sua profonda ambivalenza:

Certo sapevo bene che stavo violando un patto non scritto tra me e Lila, sapevo anche che non l’avrebbe sopportato. Ma credevo che se il risultato fosse stato buono, alla fine mi avrebbe detto: ti sono grata, erano cose che non avevo il coraggio di dire nemmeno a me stessa e tu le hai dette a mio nome. C’è questa presunzione, in chi si sente destinato alle arti e soprattutto alla letteratura: si lavora come se si fosse ricevuta un’investitura, ma in effetti nessuno ci ha mai investiti di alcunché, abbiamo dato noi stessi a noi stessi l’autorizzazione a essere autori e tuttavia ci rammarichiamo se gli altri dicono: questa cosetta che hai fatto non m’interessa, anzi mi dà noia, chi ti ha dato il diritto. Io scrissi in pochi giorni una storia che per anni, auspicando e temendo che la stesse scrivendo Lila, avevo finito per immaginare in ogni dettaglio. Lo feci perché tutto ciò che veniva da lei, o che io le attribuivo, mi sembrava, fin da bambine, più significativo, più promettente di ciò che veniva da me[66].

Se, con Braidotti, vediamo da un lato «il legame, l’affinità, il vincolo della potentia e il riconoscimento reciproco di essere molteplicità complesse»[67], dall’altro la soggettività è anche alle prese con una grande produzione di passioni negative, che solo talvolta possono essere trasformate in passioni gioiose, trasformandosi attraverso un qualche gesto etico.

La pubblicazione del libro concede a Elena una nuova ondata di successo, ma segna anche, inaspettatamente per la narratrice, la fine dell’amicizia con Lila. Una fine attuata né con una morte né con un ripiegamento della narratrice su sé stessa. Qui Ferrante, in modo sì geniale, mette in scena superbamente il conflitto che sostiene la relazione e il desiderio tra Elena e Lila, un conflitto che non può giungere a una sintesi poiché è un conflitto tra due narratrici, ovvero tra due modi antitetici ma complementari (e dunque paradossali) di raccontare la realtà:

Di fatto non so che cosa l’abbia offesa, se un dettaglio, se l’intera storia. Un’amicizia aveva di buono, secondo me, che era lineare. Raccontava in sintesi, con tutti i travestimenti del caso, le nostre due vite, dalla perdita delle bambole alla perdita di Tina. In cosa avevo sbagliato? Ho pensato a lungo che se la fosse presa perché nella parte finale, anche se ricorrendo più che in altri punti della storia alla fantasia, raccontavo ciò che di fatto era accaduto nella realtà: Lila aveva valorizzato Imma agli occhi di Nino e nel farlo si era distratta, perdendo di conseguenza Tina. Ma evidentemente ciò che nella finzione del racconto serve in tutta innocenza ad arrivare al cuore dei lettori, diventa un’infamia per chi avverte l’eco dei fatti che ha realmente vissuto. Insomma ho creduto per parecchio tempo che ciò che aveva assicurato il successo del libro fosse anche ciò che aveva fatto più male a Lila[68].

Sul piano teorico, così facendo, Ferrante concettualizza la posizione di chi legge superando il binarismo di genere lettore/lettrice di calviniana memoria e provocando un cortocircuito tra realtà e finzione poiché è Elena, una voce chiaramente femminile ma di cui non abbiamo riscontro fattuale, ad occupare tanto la posizione di lettrice quanto quella di narratrice (segnalando altresì il vuoto produttivo – il gesto della sottrazione come cancellazione – ricoperto dalla figura di Lila, accettata da Elena solo come ipotetica lettrice):

In seguito però ho cambiato opinione. Mi sono convinta che la ragione del suo ritrarsi fosse altrove, nel mio modo di raccontare l’episodio delle bambole. Avevo esagerato ad arte il momento in cui erano sparite nel buio dello scantinato, avevo potenziato il trauma della perdita, e per ottenere effetti commoventi avevo usato il fatto che una delle bambole e la bambina scomparsa portavano lo stesso nome. Il tutto aveva indotto programmaticamente i lettori a connettere la perdita infantile delle figlie finte alla perdita adulta della figlia vera. Lila doveva aver trovato cinico, disonesto, che fossi ricorsa a un momento importante della nostra infanzia, alla sua bambina, al suo dolore, per compiacere il mio pubblico. Ma sto mettendo insieme solo ipotesi, avrei bisogno di confrontarmi con lei, ascoltare le sue rimostranze, spiegarmi. A tratti mi sento in colpa e la capisco. A tratti la detesto per questa sua scelta di tagliarmi via da sé così nettamente proprio adesso, in vecchiaia, quando avremmo bisogno di vicinanza e di solidarietà. Ha fatto sempre così: quando non mi piego, ecco che mi esclude, ecco che mi punisce, ecco che mi guasta il piacere stesso di aver scritto un buon libro. Sono esasperata. Anche questo suo mettere in scena la propria cancellazione, oltre che preoccuparmi m’indispettisce. Forse la piccola Tina non c’entra, forse non c’entra nemmeno il suo fantasma, che continua a ossessionarla sia nella forma della bambina di quasi quattro anni, la più resistente, sia nella forma labile della donna che oggi, come Imma, avrebbe trent’anni. C’entriamo sempre e soltanto noi due: lei che vuole che io dia ciò che la sua natura e le circostanze le hanno impedito di dare, io che non riesco a dare ciò che lei pretende; lei che si arrabbia per la mia insufficienza e per ripicca vuole ridurmi a niente come ha fatto con sé stessa, io che ho scritto mesi e mesi e mesi per darle una forma che non si smargini, e batterla, e calmarla, e così a mia volta calmarmi[69].

Se dunque la Lila descritta da Elena non può essere la persona reale (sempre intesa nella finzione letteraria), cos’è allora la Lila attorno a cui ruotano i quattro romanzi? A mio avviso, è l’espressione del desiderio di Elena raccontato, ad un tempo, come memoria, come immaginazione e come piacere. Un desiderio che produce non un’immagine mancante ma un’immagine del proprio desiderio, intimamente intessuto nella relazionalità (simbolica e materiale) con Lila, all’interno di un piano di immanenza molteplice e mutevole. In questo senso leggiamo le figure di Elena e Lila come una differenziazione interna della materia, personagge[70] che rendono perverse le immagini della donna e delle donne provenienti dalla cultura patriarcale, e che qui problematizzano la dinamica desiderante autore-lettore proposta da Calvino.

Il continuum realfinzione: un inedito patto narrativo

È nell’Epilogo. Restituzione che vediamo portato a compimento un nuovo patto narrativo, che risuona con il postumano critico e di cui l’autopoiesi costituisce una metodologia di formazione di sé a metà tra finzione e realtà, dando al processo della scrittura un inedito valore.

Non riesco a crederci io stessa. Ho finito questo racconto che mi pareva non dovesse finire mai. L’ho finito e l’ho pazientemente riletto non tanto per curare un po’ la qualità della scrittura, quanto per verificare se anche solo in qualche rigo sia possibile rintracciare la prova che Lila è entrata nel mio testo e ha deciso di contribuire a scriverlo. Ma ho dovuto prendere atto che tutte queste pagine sono solo mie. Ciò che Lila ha spesso minacciato di fare – entrarmi nel computer – non l’ha fatto, forse non era nemmeno capace di farlo, è stata a lungo una mia fantasia di anziana signora a digiuno di reti, cavi, connessioni, spiritelli elettronici. Lila non è in queste parole. C’è solo ciò che io sono stata capace di fissare. A meno che, a forza di immaginarmi cosa avrebbe scritto e come, io non sia più in grado di distinguere il mio e il suo[71].

È utile quindi leggere lo smarginarsi dei confini che separano Elena e Lila all’interno del paradigma dell’ecologia della differenziazione, grazie al quale Parisi rende operativo il monismo vitalista spinoziano-guattariniano[72] per risignificare il binomio natura-cultura come continuum[73], di cui il processo della smarginatura è una possibile figurazione. In questo quadro, Elena, la scrittrice, e Lila, la “non scrittrice”, mettono in scena la soggettività in quanto processo di autopoiesi e autocreazione del sé «che include complesse e continue negoziazioni con la norma e i valori dominanti e dunque molteplici forme di responsabilità»[74] e, come nella coppia Virginia-Vita, la questione della potenza del desiderio diventa una questione di sostenibilità:

La questione della sostenibilità riguarda quanto di tutto ciò [i divenire di Vita e i suoi] Virginia riuscisse o non riuscisse a reggere, ma una domanda di questo tipo non può mai trovare una risposta nell’isolamento. Sono proprio queste le cose che contraddistinguono il luogo dell’incontro. “Essere troppo”, e qui il problema dei limiti diventa fondamentale sia nel piacere sia nel dolore. Imparare a dosarla e stabilirne i tempi è l’alchimia di una relazione riuscita che prevede cioè, per i soggetti coinvolti, reciproco appagamento ma anche un esito felice delle rispettive esistenze e progetti di vita[75].

Inoltre, Il fatto che Elena e Lila si incontrino all’interno della categoria della stessa identità sessuale conduce chi legge a guardare al di là degli aspetti deludenti dell’identità che si presume dovessero condividere. Elena e Lila propongono un modello etico di «relazione di disparità» (estendibile a ogni genere sessuale) dove il gioco della similitudine/differenza non è modellato dalla dialettica tra mascolinità e femminilità. Piuttosto la relazione, che vive necessariamente di similitudini e differenze, è uno spazio del divenire, produttivo di nuovi significati e definizioni:

Non è l’essenzialismo dell’identità sessuale ma lo spazio molecolare di micro-singolarità sostenute collettivamente. […] la scomparsa dei confini certi tra il sé e l’altro – nell’incontro d’amore, nell’intensa amicizia, nell’esperienza spirituale come in più comuni connessioni interpersonali – è il presupposto necessario all’allargamento del proprio campo di percezione e di capacità di esperire[76].

E infatti Elena si domanda il senso della scrittura intorno alla figura di Lila, mettendo in scena anche l’interruzione o l’esaurimento di una relazione come momento affermativo:

A che sono servite dunque tutte queste pagine. Puntavo ad afferrarla, a riaverla accanto a me, e morirò senza sapere se ci sono riuscita. A volte mi chiedo dove s’è dissolta. In fondo al mare. Dentro un crepaccio o in un cunicolo sotterraneo di cui lei sola conosce l’esistenza. In una vecchia vasca da bagno colma di un acido potente. Dentro un fosso carbonario d’altri tempi, di quelli a cui dedicava tante parole. Nella cripta di una chiesetta abbandonata di montagna. In una delle tante dimensioni che noi non conosciamo ancora ma Lila sì, e ora se ne sta là insieme alla figlia. Tornerà? Torneranno insieme, Lila vecchia, Tina donna matura? Questa mattina, seduta sul balconcino che affaccia sul Po, sto aspettando[77].

La promessa di attesa infinita che Elena rivolge all’amica ci porta alla fine della narrazione, che si ricongiunge, sempre con sguardo retrospettivo, all’ultimo inspiegabile evento, quello accaduto in un eterno ieri.

Ieri, rientrando, ho trovato sopra la mia cassetta della posta un pacchetto mal confezionato con carta di giornale. L’ho preso perplessa. Niente testimoniava che era stato lasciato per me e non per qualche altro inquilino. Non c’era un biglietto d’accompagnamento e nemmeno il mio cognome segnato a penna da qualche parte. Ho aperto con cautela un lato del cartoccio ed è bastato. Tina e Nu sono schizzate fuori dalla memoria prima ancora che le liberassi del tutto dalla carta di giornale[78].

L’autopoiesi macchinica di Guattari, per come ripresa dalle filosofe cyberfemministe[79], torna nella particolare veste assegnata da Ferrante alla figura della bambola, sviluppando l’immaginario proposto in La spiaggia di notte[80]:

Ho riconosciuto subito le bambole che una dietro l’altra, quasi sei decenni prima, erano state gettate – la mia da Lila, quella di Lila da me – in uno scantinato del rione. Erano proprio le bambole che non avevamo mai ritrovato, sebbene fossimo scese sotto terra a cercarle. Erano quelle che Lila mi aveva spinto ad andare a riprendere fino a casa di don Achille, orco e ladro, e don Achille aveva sostenuto di non averle mai prese, e forse si era immaginato che a rubarcele fosse stato suo figlio Alfonso, e perciò ci aveva risarcito con del denaro perché ce ne comprassimo altre. Però noi con quei soldi non avevamo comprato bambole – come avremmo potuto sostituire Tina e Nu? – ma Piccole donne, il romanzo che aveva indotto Lila a scrivere La fata blu e me a diventare ciò che ero oggi, l’autrice di molti libri e soprattutto di un racconto di notevole successo che si intitolava Un’amicizia[81].

Riferendoci all’orizzonte cyberfemminista rivisitato da Ferrante, vediamo come le bambole siano al contempo l’altro tecnologico e la presenza di Lila nella vita di Elena, che produce una rivisitazione del «paradosso di Ulisse»[82] tale per cui l’apparizione di Lila attraverso le bambole è la restituzione dell’identità multistratificata che emerge dalla storia di vita di Elena, reificata attraverso la scrittura di Elena Ferrante (personaggio anch’esso finzionale):

sono scoppiata a piangere. Ecco cosa aveva fatto: mi aveva ingannata, mi aveva trascinata dove voleva lei, fin dall’inizio della nostra amicizia. Per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza. O forse no. Forse quelle due bambole che avevano attraversato oltre mezzo secolo ed erano venute fino a Torino, significavano solo che lei stava bene e mi voleva bene, che aveva rotto gli argini e finalmente intendeva girare il mondo ormai non meno piccolo del suo, vivendo in vecchiaia, secondo una nuova verità, la vita che in gioventù le avevano vietato e si era vietata[83].

Le bambole sono la chiave di lettura della scrittura retrospettiva di Ferrante, per cui il passato non è tanto l’atto del testimoniare quanto la capacità di accettare il non senso di eventi e relazioni, riportandoci a quel «valore dell’opacità»[84] quale una delle verità ultime restituite da questa lunga epopea:

Sono salita in ascensore, mi sono chiusa nel mio appartamento. Ho esaminato le due bambole con cura, ne ho sentito l’odore di muffa, le ho disposte contro i dorsi dei miei libri. Nel constatare che erano povere e brutte mi sono sentita confusa. A differenza che nei racconti, la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità. Ho pensato: ora che Lila si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi a non vederla più[85].

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  1. P. Lejeune, Il patto autobiografico [1975], Bologna, il Mulino, 1986; U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979; Id., Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994; H. Grosser, Narrativa, Milano, Principato, 1985; G. Rosa, Il patto narrativo, Milano, Il Saggiatore, 2008.
  2. Assumiamo provvisoriamente i suddetti termini al maschile per vedere se e come Ferrante sviluppi anche la questione di genere ad essi connessa. Se sulla scrittura di donna e il ruolo di autrice in Ferrante si è detto ampiamente fin qui, è tuttavia da rilevare il posizionamento assunto da parte della critica femminista italiana nello sviluppo degli studi attorno alla figura della “lettrice” a cui la rivista «Leggendaria» ha dedicato un intero numero nel 2011, dal titolo Lettrici e Personagge. Si veda almeno AA.VV., «Leggendaria», n. 90, 2011; B. Sarasini, R. Mazzanti, S. Neonato, L’invenzione delle personagge, Roma, Iacobelli, 2016.
  3. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, Roma, Edizioni e/o, 2014, p. 317.
  4. Ivi, p. 319.
  5. Ivi, pp. 319-20.
  6. Ivi, p. 321.
  7. Ibidem.
  8. O. Santovetti, Lettura, scrittura e autoriflessione nel ciclo de L’amica geniale di Elena Ferrante, in «Allegoria», n. 73, 2016, pp. 179-92, cit. a p. 188.
  9. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., pp. 321-22.
  10. Questa tesi si deve a T. de Lauretis, Technologies of Gender. Essays on Theory, Film and Fiction, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1987, p. 71.
  11. I. Calvino, Gli amori difficili, Torino, Einaudi, 1970.
  12. T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., p. 76.
  13. «The pursuit of the book’s ending corresponds to the pursuit of the unattainable love object, narrative closure is impeded by écriture, the dispersal of meaning, writing as différance; and the pleasure of the text is infiltrated or intercut with the jouissarue of the text. More simply put, as the American critic Robert Scholes once suggested, the archetype of this fiction is the male sexual act». (Ibidem: traduzione nostra).
  14. I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore [1979], Milano, Oscar Mondadori, 2016, p. 71.
  15. T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., p. 76.
  16. «Clearly, Lotaria and her comrades are the Amazons, a recurrent figure in Calvino’s fiction. But here, to the threat the narrator reads in their eyes (Why are they too limpid? Too serene for what?), another feature is added: a hard, ironic voice. This is a feature that in Italian literature since Pavese (who obsessively attributed it to his harsh, cold, domineering female characters) has come to denote symbolic castration». ‘Chiaramente, Lotaria e le sue compagne, le Amazzoni, sono figure ricorrenti nella finzione di Calvino. Ma qui, alla minaccia che il narratore legge nei loro occhi (perché sono troppo limpidi? Troppo sereno per cosa?), si aggiunge un’altra caratteristica: una voce dura, ironica del narratore. Questa è una caratteristica che perdura nella letteratura italiana da quando Pavese (che l’ha ossessivamente attribuita ai suoi personaggi femminili: severi, freddi e prepotenti) è arrivato a denotare la castrazione simbolica’ (ibidem: traduzione nostra). Sulla misoginia in C. Pavese si veda anche S. Ieva, Le donne di Pavese in Pavese, in «Italies. Revue d’études italiennes», n. 3, 1999, pp. 149-63.
  17. «Ludmilla – the book’s most original character, according to several male reviewers – is that, besides not being interested in authors of flesh and blood (what she loves is the Author-function, as you recall), she positively refuses to have anything to do with writing. She won’t even go to the publishing company’s office in order not to cross the boundary between those who make books and those who read them. She wants to remain a reader, “on principle”. Thus, she takes no part in her sister’s critical or intellectual activities and does not like the “feminist” novel discussed in the women’s seminar». (T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., pp. 79-80 ; traduzione nostra).
  18. M. M. Jacobsen, La “formazione” della contingenza: Se una notte d’inverno e il “racconto” lacaniano sull’amore, in «Quaderni d’italianistica», Vol. 13, n. 2, 1992, pp. 217-30, cit. a p. 225.
  19. T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., p. 80.
  20. «This core of silence at the bottom of human communication is an area of passivity, a non disposable residue of negativity that, for Calvino, is the essence of the sexual relationship. Desire is founded in absence, in the tension-toward rather than the attainment of the object of love, in the delays, the displacements, the deferrals» (ivi, p. 71: traduzione nostra).
  21. Ivi, p. 80.
  22. «One is tempted to read Lotaria as the true postmodern writer/reader. The representative of a postmodemism of resistance who successfully escapes not only capture by the narrative (she vanishes from the text after the sex scene) but also – and more important – captivity in the conjugal bed. To read Lotaria so, however. one would have-precisely-to “rewrite” her, which in a sense is what I’ve done, with a bona fide postmodern gesture» (ivi, pp. 80-81; traduzione nostra).
  23. C. Owens, The Discourse of Others: Feminists and Postmodernism, in H. FORSTER (eds.), The Anti-Aesthetic. Essays on Postmodern Culture, Port Townsend-Washington, Bay Press, 1983, pp. 57-82.
  24. T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., p. 81.
  25. M. M. Jacobsen, La “formazione” della contingenza: Se una notte d’inverno e il “racconto” lacaniano sull’amore, op. cit., p. 225.
  26. «I suggest, Woman is still the ground of representation, even in postmodern times. Paradoxically, for all the efforts spent to re-contain real women in the social, whether by economic or ideological means, by threats or by seduction, it is the absent Woman, the one pursued in dreams and found only in memory or in fiction, that serves as the guarantee of masculinity, anchoring male identity and supporting man’s creativity and self-representation. Just as it was with Flaubert, Madame Bovary c’est lui» (T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., p. 82; traduzione nostra).
  27. A. Maugue, L’identité masculine en crise en tournant de siècle, Paris, Rivages, 1987.
  28. T. de Lauretis, Technologies of Gender, op. cit., p. 82.
  29. «Undeniable that in this text digressivity, which is charged with a positive value, is associated with the female. The expression of desire for female reader is at one with a desire for a nonlinear narration» (O. Santovetti, Digression: A Narrative Strategy in the Italian Novel, Bern, Peter Lang Publishing, 2007, p. 28; traduzione nostra).
  30. M. M. Jacobsen, La “formazione” della contingenza: Se una notte d’inverno e il “racconto” lacaniano sull’amore, op. cit., p. 218.
  31. C. Segre, Se una notte d’inverno uno scrittore sognasse un aleph di dieci colori, in «Strumenti critici», 2-3, 1979, pp. 177-215, cit. a p. 207.
  32. I. Calvino, Se una note d’inverno un viaggiatore, op. cit., p. 249.
  33. M. M. Jacobsen, La “formazione” della contingenza: Se una notte d’inverno e il “racconto” lacaniano sull’amore, op. cit., p. 220.
  34. L. Pisano, Oltre la nostalgia. Per un’etica postumana affermativa. Intervista a Rosi Braidotti, in «Lo Sguardo – rivista di filosofia», n. 15, 2014 (II), pp. 41-53; R. Braidotti, Vitalismo – Materia – Affermazione (2014), in «La Deleuziana. Rivista online di filosofia», n. 2, 2015, pp. 15-34.
  35. E. de Conciliis, La creazione del soggetto ai tempi della crisi, in «La Deleuziana – Rivista online di filosofia», n. 0, 2014, pp. 103-28.
  36. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.
  37. E. de Conciliis, La creazione del soggetto ai tempi della crisi, op. cit., p. 104.
  38. Ivi, pp. 104-105.
  39. Ivi, p. 105.
  40. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 1991, p. 124.
  41. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., pp. 352-53.
  42. R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade [2006], Roma, Luca Sossella Editore, 2008, p. 217.
  43. V. Woolf, V. Sackville-West, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e di desiderio, Roma, Donzelli, 2019.
  44. V. Woolf, Orlando (1928), Milano, Feltrinelli, 2017.
  45. R. Braidotti, Trasposizioni, op. cit., p. 219.
  46. Ibidem.
  47. Ivi, p. 430.
  48. R. Braidotti, Trasposizioni, op. cit., p. 222.
  49. Ivi, p. 220.
  50. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., pp. 430-31.
  51. Ivi, p. 431.
  52. Ivi, pp. 432-33.
  53. Ivi, p. 433.
  54. R. Braidotti, Trasposizioni, op. cit., p. 227.
  55. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 433.
  56. Ivi, pp. 433-34.
  57. Ivi, p. 435.
  58. Ivi, p. 436.
  59. I. Pinto, La narrazione come relazione in La figlia oscura e La spiaggia di notte di Elena Ferrante: dalla crisi della “pratica dell’affidamento” all’affermazione delle “pratiche di affinità postumane”, articolo in corso di pubblicazione per «DWF».
  60. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., pp. 436-37.
  61. Ivi, p. 437.
  62. R. Braidotti, Trasposizioni, op. cit., p. 227.
  63. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 438.
  64. E. Balibar, Dall’individualità alla transindividualità [1997], in Id., Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli, 2002, pp. 103-47; M. Gatens, G. Lloyd, Collective Imaginings: Spinoza, Past and Present, London and New York, Routledge, 1999.
  65. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 441.
  66. Ivi, pp. 441-42.
  67. R. Braidotti, Trasposizioni, op. cit., p. 222.
  68. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 443.
  69. Ivi, pp. 443-44.
  70. B. Sarasini, R. Mazzanti, S. Neonato, L’invenzione delle personagge, op. cit.
  71. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 447.
  72. Cfr. L. Parisi, Abstract Sex. Philosophy, Bio-Technology, and the Mutation of Desire, London, Continuum Press, 2004.
  73. R. Braidotti, Il postumano: la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte [2013], Roma, Derive Approdi, 2014, p. 168.
  74. Ivi, p. 43.
  75. R. Braidotti, Trasposizioni, op. cit., p. 223.
  76. Ivi, p. 225.
  77. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., pp. 449-50.
  78. Ivi, pp. 450-51.
  79. Cfr. D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo [1985], Milano, Feltrinelli, 1995; Ead., Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, London, Free Association, 1991; Ead., “Ecce Homo, Ain’t (Ar’n’t) I a Woman, and Inappropriate/d Others: The Human in a Post-Humanist Landscape”, in J. Butler, J. Scott (eds.), Feminists Theorize the Political, New York, Routledge, 1992, pp. 86-100.
  80. I. Pinto, La narrazione come relazione in La figlia oscura e La spiaggia di notte di Elena Ferrante, cit.
  81. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., pp. 450-51.
  82. Cfr. A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997.
  83. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 451.
  84. Cfr. É. Glissant, Poetica della relazione [1990], Macerata, Quodlibet, 2007.
  85. E. Ferrante, Storia della bambina perduta, op. cit., p. 451.

(fasc. 27, 25 giugno 2019)


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