Donati, Piccarda in "Enciclopedia Dantesca" - Treccani - Treccani

Donati, Piccarda

Enciclopedia Dantesca (1970)

Donati, Piccarda

Mario Fubini

Figlia di Simone Donati, sorella di Corso e di Forese. Suora nel convento francescano di Monticelli presso Firenze, fu per volere del fratello Corso rapita dal chiostro - forse nel 1285 o nel 1288 (Ezio Levi) -, e data in moglie a Rossellino della Tosa suo compagno di Parte. Morì non sappiamo quanto tempo dopo il ratto, ma il verso di D. Iddio si sa qual poi mia vita fusi (Pd III 108) lascia intendere un periodo indeterminato.

Ciò è in contrasto con la leggenda secondo la quale ella avrebbe chiesto a Dio che quel matrimonio forzato non avesse compimento e la preghiera sarebbe stata esaudita per un'improvvisa infermità, che in qualche versione più tarda (del Cinquecento) è descritta come un'orribile lebbra. Ma la leggenda, già accolta dall'Ottimo (" E dicesi che la detta infermità e morte corporale la concedette Colui, ch'è datore di tutte le grazie, in ciò esaudendo i suoi devoti preghi "), e da Pietro (" Tamen fertur quod mortua est virgo et intacta a dicto eius viro, superveniente sibi febre in nuptiali die "), mentre vuol essere in un certo senso un omaggio alla gentile creatura dantesca (e diventa poi un tema di agiografia francescana), ne altera, come già vide il Todeschini, il carattere, e contrasta anzi con quel che di P. e del difetto della sua volontà si dice in Pd IV 73-87; per superare questa contradizione il Serravalle sottilizzando affermò che se P. ottenne di restar fedele al voto di verginità venne meno a quelli di povertà e di obbedienza non tornando come avrebbe dovuto al convento. Osserva il Tommaseo, a proposito sempre del verso Iddio si sa qual poi mia vita fusi, che D. " né afferma né nega la quasi miracolosa malattia che tolse P. alle forzate nozze " (e di quella malattia propone egli una sua diagnosi); certo è invece che il fatto a cui i commentatori accennano, e tanto più i particolari che si andarono aggiungendo (come quelli narrati da Rodolfo da Tossignano e da Matteo d'Ognissanti) sono estranei all'immaginazione dantesca e bene farebbero i critici a lasciarli da parte nei commenti come troppo difformi dallo spirito dell'episodio. Forse anche il nome di suor Costanza, che P. avrebbe assunto, ove non sia confermato da altre sicure testimonianze, si può supporre suggerito al pari di quella leggenda, esemplata su altre consimili della letteratura ascetica, in margine ai versi di D., al quale soltanto sembra essersi ispirato, riecheggiandone qualche accento, in una terzina dei Trionfi il Petrarca: " Alfin vidi una che si chiuse e strinse / sovra Arno per servarsi, e non le valse, / che forza altrui il suo bel penser vinse " (Tr. Pudicitiae 160-162).

Non una santa o una martire, P. nella poesia dantesca, bensì " fragile creatura di bontà e di sventura " (Croce), che D. aveva intraveduto nella giovinezza e che gli si ripresentava con altri ricordi di quella età. Già ne aveva chiesto notizia all'amico Forese: Ma dimmi, se tu sai, dov'è Piccarda, e Forese gli aveva risposto con parole semplici: La mia sorella, che tra bella e buona / non so qual fosse più, e insieme solenni, come chi dalla terra guarda a creatura beata: trïunfa lieta / ne l'alto Olimpo già di sua corona (Pg XXIV 10-15); e in questi brevi cenni è più che l'annuncio il preludio dell'episodio paradisiaco: l'apparizione di P. nel cielo della Luna tra gli altri spiriti che non han condotto a compimento i loro voti, figure " quasi disegnate a lievi contorni nel chiarore dell'aria luminosa " (Tommaseo), le parole di lei al poeta sul proprio essere, sulla condizione sua e dei suoi compagni che del tutto li appaga, sull'essenza della beatitudine e infine l'accenno a quello che è stato il suo più grande affetto (il chiostro), e alla tragica remota vicenda terrena, non diversa da quella di un'anima tanto più alta per dignità e per meriti che è accanto a lei, l'imperatrice Costanza, sino al suo dileguarsi intonando la più semplice delle preghiere: Ave Maria. (Non ha fondamento la congettura di G. Federzoni sul mutamento nel giudizio di D. su P., così altamente celebrata da Forese e relegata poi nel cerchio più tardo: P. è di fatto, come sapremo, nell'Empireo, e naturali gli accenti di alta ammirazione sulle labbra del fratello ancora espiante sul monte del Purgatorio).

D. stesso sembra aver voluto non che preparare nel Purgatorio l'episodio del Paradiso, accennare discretamente ai legami fra l'uno e l'altro con un richiamo di rime e di parole: Ma dimmi se ti sai dov'è Piccarda, Ma riconoscerai ch'i' son Piccarda (e si noti il nome proprio in rima); trïunfa lieta / ne l'alto Olimpo; da indi mi rispuose tanto lieta; e con un parallelismo non casuale di situazioni, notato dal Capetti e dal Donadoni - né occorre con la somiglianza rilevare il contrasto fra l'una e l'altra -, per cui, come già Forese, P. per prima riconosce D., e questi come non aveva riconosciuto l'amico a cagione delle fattezze sfigurate dalla pena, non ravvisa dapprima la sorella di lui celestialmente trasmutata, ma non sì da impedirgli di ritrovare dopo le parole di lei nell'evanescente figura lunare i lineamenti di un giorno (Ne' mirabili aspetti / vostri risplende non so che divino / che vi trasmuta da' primi concetti), nella bellezza di oggi la bellezza di un tempo: non mi ti celerà l'esser più bella.

Diremo dunque P. " una delle figure che appartengono alla famiglia del Purgatorio " (Croce) e sentiremo nell'episodio tutto un'atmosfera e una tonalità della seconda cantica? Troppo parziale e limitata sarebbe questa interpretazione, poiché P. ci rinvia sì a certe scene del Purgatorio e al di là di esse alle memorie della giovinezza del poeta (" Or la scena di Piccarda ha in quella poesia dei ricordi, in quel non so che melanconico intimo affettuoso che il vivo comunica alle figure degli amici scomparsi e da lui evocati... l'origine artistica " (Capetti); ma essa è pure il primo degli spiriti che a D. si presenta sulla soglia del Paradiso, anzi colei che gli svela l'essenza stessa della beatitudine. Perché il centro e il significato dell'episodio tutto, l'acme teologica a un punto e poetica è nella sua seconda risposta a D., che le aveva chiesto se lei e gli altri spiriti ‛ relegati ' nel cielo della Luna desiderassero più alto loco per più vedere e più amare Iddio (questa e non altra dev'essere l'interpretazione del v. 66; cfr. Pd XXVIII 109-111; del tutto da respingere l'interpretazione ancora accolta dallo Scartazzini: " Vedere altre e in maggior numero anime di beati "!), P. non soltanto si dice paga con gli altri della propria sorte, ma di qui con un discorso che non rifiuta termini scolastici e pur sottintende un intimo ardore, che si fa palese nell'altissima chiusa, E 'n la sua volontade è nostra pace (v. 85), viene a rivelare quel che per lei e per tutti i beati è il Paradiso, il gioioso abbandonarsi alla volontà divina.

Quella fragile creatura è parsa a D. poter rivelare come nessun'altra il segreto del Paradiso per la stessa sua debolezza di suora che non aveva potuto condurre a termine i propri voti, per il suo abbandono fiducioso in Dio, per l'accettazione della sorte che le è stata data in terra e in cielo. Chi altri avrebbe potuto dire per primo e con quel suo accento che la beatitudine (non già la " condizione " della beatitudine, come scrive il Capetti), bensì la sua essenza consiste nel volere quello che Dio vuole, nell'unanime consentire alla volontà divina? Non converrà perciò isolare nel canto quel che vi è di umano e di terreno da quel che vi è di paradisiaco o di teologico (bene il Cosmo avverte come la spiegazione teologica si fonde nel racconto e come " Piccarda riesca con la rappresentazione della vita celeste e con il particolare accento del discorso a caratterizzare sé stessa "), né si deve, come troppe volte si è fatto in passato, romanticamente vagheggiare il personaggio o il dramma di P., o in senso opposto ritenere col Vossler che essenziale nel canto sia la concezione teologica e tutto il resto con le sue note umane sia soltanto una sorta di frangia. Qui come altrove nell'Oltretomba dantesco la creatura umana ha realizzato la pienezza del suo essere: la dolcezza di quella sommissione, forse indovinata dal poeta nella cara sorella del suo Forese, ha trovato la sua compiuta esplicazione ed esaltazione.

Né in altro luogo essa poteva comparire se non qui, in un mondo che è cielo e pur serba ancora alcunché delle parvenze terrene, in questo episodio in cui struttura e poesia, se vogliamo accogliere la dicotomia crociana, come forse poche altre volte coincidono e si risolvono l'una nell'altra (cfr. la voce Croce, Benedetto e le letture di A. Chiari e M. Marti); né altrimenti (su questo punto giustamente insiste il Leone De Castris) poteva disvelarsi a D. il Paradiso nel suo primo apparire che in questa forma, in questa luce, con queste anime, anzi con un'anima di persona familiare in un episodio paradisiaco che pur assorbe in sé trasfigurandoli accenti del Purgatorio. Quale smarrimento sarebbe stato il suo ove si fosse trovato sin dall'inizio di fronte a qualche eccelsa figura di beato, avvolta e chiusa in un nembo di luce, priva di un carattere fortemente individuato, come sono in genere i personaggi del Paradiso, altrimenti e diversamente poetici.

Non così P.: se pur delicatamente profilata essa ha in ogni suo atto, in ogni suo accento, nell'ambiente che essa evoca ed entro cui è chiusa una sua personalità: la ritroviamo nel desiderio che rivela di parlare con D. che ha conosciuto e da cui vuol essere riconosciuta, nella semplicità della sua storia che tutta sarebbe conchiusa nel verso semplicissimo (I' fui nel mondo vergine sorella), nel " linguaggio claustrale " che le è proprio (Gmelin) e che già il Daniello ravvisava nell'esordio della sua prima risposta: La nostra carità non serra porte / a giusta voglia, se non come quella / che vuol simile a sé tutta sua corte (" Parole proprie moniali perciocché così usano di parlare le suore monache osservanti "), nel poetico rilievo di ogni parola che accenni al chiostro (Croce), alla dolce chiostra, all'abito in cui si era chiusa, all'ombra de le sacre bende, al vel del cor; nella sua umiltà per cui inferiore sempre si sente alla santa dalla vita perfetta, come non poté essere la sua, a quell'anima stessa accanto a lei che ebbe la sua medesima sorte in terra e in cielo e pur risplende, com'essa dice, di tutto il lume della spera nostra, la gran Costanza, di cui esalta come non aveva fatto per sé medesima, l'intima fedeltà al voto, nonostante la violenza subita (Ma poi che pur al mondo fu rivolta / contra suo grado e contra buona usanza, / non fu dal vel del cor già mai disciolta) e per cui rievoca in due versi - e sono le ultime sue parole prima della preghiera - la potenza e la fine della casa di Svevia, così grande e drammatica storia, tanto lontana dal suo chiostro e dal suo cielo.

Ma, come si è detto, questi accenti di un linguaggio di religiosa si fan più intensi e potenti nel discorso centrale e, prima ancora che nel discorso, nella letizia in cui si rivela l'anima paradisiaca (parea [vale a dire " si mostrava ", e non già " sembrava "!] arder d'amor nel primo foco, ossia dell'amore di Dio; né più si ripeta l'interpretazione " sembrava arder nel fuoco di un primo amore "); e poi nell'insistente ritorno su poche parole tematiche, secondo ben noti moduli retorici, che di tanto trascendono la retorica per essere espressione di un'anima come inebriata della sua verità: volontà, volerne, voler, divina voglia, una fansi nostre voglie stesse, 'n suo voler ne 'nvoglia, come noi sem di soglia in soglia / per questo regno, a tutto il regno piace / com'a lo re, sino a che dal serrato e pur fervido sillogismo e da quel contrappunto intorno a poche voci si stacca come un canto la chiusa (e la voglia e il voler diventano volontade), un periodo a sé stante che si distende nell'immagine grandiosa del mare: E 'n la sua volontade è nostra pace: / ell'è quel mare al qual tutto si move / ciò ch'ella crïa e che natura face. E l'immagine ci rinvia non casualmente a Pd I 113: ma là era la contemplazione dell'ordine dell'universo, qui è il canto di un'anima che si sente partecipe di quell'ordine, di quel moto, di quella volontà, ormai una cosa sola con la volontà di Dio.

E il dramma terreno di Piccarda? Volutamente D. ne ha toccato soltanto verso la chiusa, e prima ancora premettendo come ampio preambolo la propria domanda e nella risposta della beata l'esaltazione della santa fondatrice del suo ordine. Non dunque più che una terzina, un accenno che non poteva essere evitato ma che pur non turba la serenità paradisiaca: Uomini poi, a mal più ch'a bene usi (del tutto inopportuno il ravvisare qui un'allusione al soprannome dei Donati, " Malefami "), un giudizio preciso insieme e sfumato così diverso da giudizi di altre anime che D. fa interpreti delle sue riprovazioni e delle sue condanne; Iddio si sa qual poi mia vita fusi, e anche su questo verso non si dovrà fantasticare, come troppo si è fatto, con commenti che rendono romanticamente e crudamente esplicito (come la pagina del Cosmo) non soltanto quel che è e dovrebbe essere sottinteso, ma quel che è ormai come svanito, dileguato dall'animo di Piccarda. " Iddio si sa: la vita sua ", commenta il Del Lungo, " vuole rimanga un segreto fra lei e Dio "; ma forse il verso dice qualcosa di più, è ancora una volta un segno del suo totale abbandono a Dio, che tutto sa, anche quella sua vita di cui non diremo che essa rifugga dal ricordare, perché non è più per lei se non un'ombra lontana. Meglio di altri il Sapegno commenta: " Dio solo, nel suo segreto, è testimonio di quel dolore, che, chiuso nel segreto di una coscienza, è rimasto ignoto agli uomini. Del resto il dolore, il rimpianto, l'onta stessa del torto subito, si collocano ormai per Piccarda in uno spazio infinitamente remoto: chi parla è uno spirito che ha trovato la sua pace nella volontà divina, ha toccato il porto ove si placa ogni tumulto di mondana tempesta ".

Così anche questi discreti accenni si collocano nell'atmosfera del canto (" canto d'argenteo nitore ", Tommaseo), un'ombra della terra lontana nel chiarore del cielo e di quelle anime, a cui bene si convengono al principio e nella fine immagini di acque e si fan sentire rinnovati e potenziati accenti stilnovistici. Ma il canto si chiude come si apre, nota il Capetti, con Beatrice: e la presenza di Beatrice, quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto (v. 1), ma quella folgorò nel mïo sguardo (v. 128), la dolce guida, / che, sorridendo, ardea ne li occhi santi (v. 23-24), viene per contrasto a compiere la figura di Piccarda.

A Beatrice sarà commessa nel canto seguente la risoluzione di problemi teologici e morali che scaturiscono da questo canto, la collocazione delle anime nei cieli, la distinzione fra volontà assoluta e volontà relativa, e quindi il giudizio sulla virtù imperfetta delle anime del cielo lunare. Non per mero artificio non era stato svelato a D. che quelle anime non già sono nella Luna, bensì nella Luna a lui appaiono: una spiegazione avrebbe dissolto l'incanto di quell'apparizione, né essa si conveniva a P. che soltanto poteva discorrere di quella che è insieme dottrina e sua intima esperienza, l'essenza della beatitudine. Col discorso di Beatrice, se per un verso il poeta viene a porre le fondamenta della costruzione del suo Paradiso con la contrapposizione del Paradiso delle sfere all'Empireo, egli pur torna ancora a P., alle anime pure e deboli, vittime della prepotenza altrui e della propria debolezza. D., che tanto pregiava la forza del volere, poteva comprendere anche queste anime, la cui volontà era stata impari di fronte al mondo, intenderne con simpatia la sofferenza, ma doveva pure in un'ulteriore meditazione segnare i limiti di quella virtù. La distinzione tra volontà assoluta e volontà relativa può sembrare una sottigliezza e la poesia venir meno in un discorso scolastico: in realtà nella spiegazione dottrinale, che ha le sue basi nella cultura ma anche nell'animo di D., si afferma la poesia, una poesia diversa da quella del canto III ma pur sempre poesia, l'esaltazione dell'interezza del volere, il giudizio reciso e inflessibile sulla debolezza umana: Se vïolenza è quando quel che pate / nïente conferisce a quel che sforza, / non fuor quest'alme per essa scusate: / ché volontà, se non vuol, non s'ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vïolenza il torza. / Per che, s'ella si piega assai o poco, / segue la forza; e così queste fero / possendo rifuggir nel santo loco. / Se fosse stato lor volere intero... / ma così salda voglia è troppo rada (IV 73-87). Con questa riaffermazione del proprio ideale etico il poeta viene a dare della sua soave creatura un giudizio che suona insieme comprensione e distacco.

Bibl. - G. Todeschini, Scritti su D., I, Vicenza 1872, 337 ss.; C. Casari, Piccarda, in " Giorn. d. " VII (1899) 243 ss.; N.M. Fruscella, Piccarda Donati, in " Propugnatore " IX (1876) 105-127; V. Capetti, Il c. III del Paradiso, Firenze 1903; E. Donadoni, Le tre donne della C. (Francesca, Pia, Piccarda), in Scritti e discorsi letterari, Firenze 1921, 214 ss.; B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 136-137; A. Tomaselli, Il c. di Piccarda Donati, in " Rivista d'Italia " 15 marzo 1921; E. Levi, Piccarda e Gentucca, Bologna 1921; G. Morici, Il c. III del Paradiso, Firenze 1922; K. Vossler, La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata (19252), trad. ital. di S. Jacini e L. Vincenti, Il II, Bari 1927, 217-219; M. Porena, Paradiso III, in La mia lectura Dantis, Napoli 1932, 319-340; G. Federzoni, Piccarda Donati, in Studi e diporti danteschi, Bologna 1935, 352-365; A. Sacchetto, Il canto di Piccarda, Padova 1936; U. Cosmo, L'ultima ascesa. Introd. alla lettura del Paradiso (1936), Firenze 1965, cap. IV; A. Chiari, Il canto di Piccarda e il preludio del Paradiso dantesco, in " Aevum " XIV (1940) 362 ss. (rist. in Il preludio del Paradiso dantesco, Como 1944; e in Nove canti danteschi, Varese 1966); M. Marti, Paradiso III, in Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli 1961, 80-91; A. Leone De Castris, Il c. III del Paradiso, in Lect. Scaligera III 67-88; P. Baldelli, Piccarda, in Dizion. delle Opere e dei Personaggi, VIII 669.

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