“Nessuno vuole l’amore”. Vita (e scritti) di Vivienne, la moglie di Eliot - Pangea
06 Gennaio 2024

“Nessuno vuole l’amore”. Vita (e scritti) di Vivienne, la moglie di Eliot

La vita spericolata di Vivienne – “sul filo del rasoio”, dicevano gli amici: sarebbe meglio dire, al rogo dei pettegolezzi – si percepisce dalla chiromanzia del patronimico. Vivienne Haigh, nata nel 1888, in Lancashire, figlia d’artista – Charles Haigh, membro della Royal Academy of Arts, di cui si ricordano i quadri preziosi, dal laccato talento, fuori tempo – aggiunse il secondo cognome, Wood, per vezzo. Vivienne Haigh-Wood, tra l’altro, preferiva farsi chiamare “Vivien”, a tratti “Viv” – l’esplosione dell’ego, pareva l’eterna bimba della gioia, si alternava a rabbiose depressioni. I suoi, in fondo, erano degli arricchiti: vivevano ad Hampstead grazie alle rendite ricavate da alcuni appartamenti a Dublino, eredità dei nonni. Dell’educazione di Vivienne poco si sa: conosceva i rudimenti della pittura, suonava il piano, era ballerina per gioco. Tubercolotica, spesso malaticcia, con l’ossessione per la pulizia, aveva la pelle diafana, era qualcosa a metà tra la fata e la meretrice, tra la donna angelica e quella che razzola, mendicante, nel fango. Di tutto era sprovvista, di tutti aveva bisogno.

Thomas Eliot e Virginia Woolf; di lato, Vivienne

Forse è questo – Aldous Huxley fu più brutale: “è frugale e volgare; ed è bello che non faccia nulla per velare la sua volgarità” – ad aver attratto Thomas S. Eliot verso Vivienne. Il ragazzo – sessualmente impacciato, sensuale per eccesso di timidezza; lo dicono “pari a un principe americano, con la voce profonda e spezzata” – aveva conosciuto “Viv” a Londra, nel marzo del 1915, a una festa. Aveva lasciato Harvard l’anno prima, con una borsa di studio a Oxford. Si annoiava. Non voleva tornare negli Usa. Proveniva da una famiglia statunitense d’alto lignaggio – il nonno, per dire, aveva fondato la Washington University a St. Louis – dalla cui cappa voleva staccarsi. Pare che Ezra Pound – che si era sposato l’anno prima, con Dorothy Shakespear – gli abbia suggerito di accasarsi subito, per poter continuare la propria vita da studente bohémien in Inghilterra. Tre mesi dopo aver conosciuto Vivienne, il 26 giugno del 1915, senza far sapere nulla ai genitori, la sposa.

Da qui comincia la sfilza delle maldicenze. Il misogino Eliot, l’asessuato Eliot, il glaciale magnate della lirica inglese con la moglie matta… Nelle rare fotografie, Vivienne veste abiti eccessivi, spesso bianchi, ha lo sguardo smaliziato, smagliante. Si sentiva a disagio tra gli altolocati amici di Eliot, fu devota alla sua poesia. È nota la graffiante osservazione di Virginia Woolf, datata 8 novembre 1930:

“Oh – Vivienne! Non esiste tortura simile da quando la vita ha avuto inizio! Portarsela in spalla mentre morde, si dimena, delira, graffia, incipriata demente eppure sana fino all’insania… Ciò che Tom ha appeso al collo è un canestro di furetti”.

Vivienne ha il primo crollo nervoso nel dicembre del 1915; coincide, grosso modo, con la sua prima relazione extraconiugale. Fu Bertrand Russell, il filosofo, rampollo di una delle più potenti famiglie britanniche, a predare Vivienne. Lui aveva da poco pubblicato l’ultimo volume dei Principia Mathematica; la relazione – con il consenso di Tom – durò fino al 1918. Per un po’, Vivienne ebbe alle sue caviglie due futuri Nobel per la letteratura. Russell non fu l’unico amante di Vivienne; Eliot acconsentiva. Nonostante rimpiangesse l’antica amata, Emily Hale, il poeta aveva bisogno della contraddittoria energia di “Viv”, in cui rivedeva, al contempo, la Sibilla e la menade. Anche “Viv” aveva bisogno di Eliot: negli anni del loro difficile – e a tratti delirante – sodalizio, il poeta realizza le opere più grandi.

Fiumane di saggi e di studi biografici hanno tentato di sondare l’influenza che Vivienne avrebbe avuto nella realizzazione della Waste Land; passando al setaccio l’ambiguo legame sessuale tra i coniugi. In questa storia, il talento della fantomatica Vivienne, sgraziato ma eclatante, è passato sotto silenzio. Invece, esiste un dato inconfutabile. Vivienne è assidua collaboratrice del “Criterion”, la rivista che Eliot fonda e dirige dall’ottobre del 1922. La presenza di “Viv” è moltiplicata, sbrindellata in una serie di pseudonimi: F.M., Fanny Marlow, Feiron Morris, Felise Morrison, Irene Fassett… di cui è ormai certa l’identità (Jim McCue, sulla “Review of English Studies”, Vol. 68, No. 283, February 2017, mette luce su Vivien Eliot in the Words of TSE, riferendo tutti gli articoli usciti sotto la celata dello pseudonimo). Ancora una volta, la figura della ragazza tra i veli, il nome spezzato e segreto, che non porta frutto, la percezione di essere sempre fuori luogo, nella rara legione dei disadatti.   

Come collaboratrice del “Criterion”, pur sotto falso nome, Vivienne fa di tutto: scrive recensioni, reportage di viaggio, racconti, rade poesie d’intonazione ‘modernista’. Per ciascuno pseudonimo tenta di attrezzare uno stile. La presenza di Vivienne sulla rivista diretta dal marito s’inaugura nel febbraio e nell’aprile del 1924 con una rubrica, Letters of the Moment, in cui la fatidica F.M. scrive, con voluttà narrativa, di Bernard Shaw e di Paul Morand, di Proust e di Strawinski. In quegli anni, Vivienne firma con costanza, pur con nomi fasulli: recensisce i libri di David Garnett e di John Middleton Murry; firma – come I. P. Fassett – uno scritto su Passaggio in India di Forster; nel gennaio del 1925, come Feiron Morris, scrive di Mr. Bennett and Mrs. Brown di Virginia Woolf.

L’apice narrativo, per così dire, di Vivienne sboccia nel numero di aprile del 1925. Come Feiron Morris firma uno sketch, Night Club – in parte riprodotto in calce all’articolo – di sottile erotismo. Nella Sibilla che prende in giro il suo ricco ammiratore in un locale da ballo, che vuole ballare ed essere amata senza credere nell’amore, con occhi di “innocenza primordiale”, è trasfigurato l’incontro tra “Viv” e “Tom”. In Sibilla coincide la ferina femmina e il puro-folle, il codice della vita istintuale, la ricerca del Graal.

Firmandosi “F.M.”, invece, Vivienne scrive una poesia, Necesse est perstare?, interessante più che altro perché descrive un contesto di disastro coniugale nell’Eden di incontri altolocati (appare Elizabeth Asquith, divenuta principessa Bibesco, intima amica di Proust). Nello stesso numero, firmavano Richard Aldington, Conrad Aiken e Benedetto Croce.

Al proliferare dei nomi, spesso faceva seguito l’effrazione del viso. Vivienne pareva avere diverse facce: a volte sembrava una guerriera, altre una ragazza, seguace di Alice e di Peter Pan; a volte, nelle fotografie, il suo viso è cancellato, è un buco, uno sparo.

Vivienne in casa Eliot, nel 1922

Di lì a poco, Vivienne scompare dal “Criterion”. Il marito, nel frattempo, nel 1927, aveva giurato fedeltà alla Chiesa d’Inghilterra. La moglie si rifiutò di seguirlo in quella china; i due finirono per separarsi. Le crisi isteriche di Vivienne, incapace di sopportare la separazione, si moltiplicano: in molti consigliarono a “Tom”, ormai con la stola da cardinale delle lettere, di terminare il rapporto con la moglie. Nel 1933, dagli Stati Uniti, dove è invitato per un ciclo di conferenze ad Harvard, fa preparare dal suo avvocato l’atto di separazione dalla moglie.

Il 18 novembre del 1935 i due ebbero l’ultimo incontro. Eliot era invitato alla “Sunday Times Book Fair”. Lei gli si fece incontro: la descrivono come una “figura piccola, inasprita dal dolore, la protagonista di un dramma”. Portava in braccio il suo cane, Polly. “Gli ho rivolto una tale espressione di gioia. Gli ho detto, ‘Oh, Tom’. Lui mi ha afferrato la mano, ‘come stai?’, ha detto, a voce alta. Poi andò sul palco dove tenne una conferenza straordinariamente colta”. Dopo la conferenza, “Viv” lo raggiunge, “Gli ho sussurrato: tornerai da me?”. Lui taglia corto, “Non posso parlarti, ora”, e va. Nel luglio del 1938 Vivienne viene fermata per strada, alle cinque di mattina, dalla polizia di Marylebone. Blatera, ha visioni. Il fratello di Vivienne, Maurice, forse con il consenso di Eliot – franto dal senso di colpa dirà, “non ricordo…” –, fa ricoverare Vivienne nella clinica psichiatrica di Northumberland House. Letteralmente fuori dal mondo, Vivienne vive tumulata nell’insania per nove anni. Eliot non andrà mai a farle visita. Il 22 gennaio del 1947 Vivienne muore: dicono per un attacco di cuore, pare per overdose di farmaci. Dieci anni dopo, Eliot sposa Esmé Valerie Fletcher, a Kensington: lei è più giovane di lui di quasi quarant’anni.

Il funerale di Vivienne è descritto con dovizia di particolari da Carole Seymour-Jones in Painted Shadow: The Life of Vivienne Eliot (2001):

“Cadeva la neve mentre Eliot, Maurice e i Faber si recavano al funerale. Vivienne fu sepolta al Pinner Cemetery di Londra, la tomba presso quella della madre – avrebbe preferito essere tumulata a Eastbourne, però, accanto al padre. La lapide era stata ordinata da Maurice: ‘All’amorevole memoria di Vivienne Haigh Eliot, morta il 29 gennaio del 1947’. Lo scalpellino aveva sbagliato la data. Nessuno si prese la briga di correggere l’errore”.

Una vita costellata da nomi sballati, da identità oblique, culmina nella data sbilenca. Tra il 22 e il 29 gennaio, in quel buio, forse, tra morte e non-morte, Vivienne ha vissuto nella luce – risarcita, amata.

*In copertina: Vivienne con il cane, Polly, nel 1930

***

I testi sono tratti da: “The Criterion”, Vol. III, n. XI, April 1925

Necesse est perstare?

Raffiche di neve in cielo
cielo inglese, freddo e blu:
terminò il pranzo
la gente disse che doveva andare
e che ogni cosa ha la sua fine (per un attimo, almeno)
                             l’eterno Aldous Huxley
Elizabeth Bibesco – Clive Bell –
                   incessante clamore di parole futili.

Ti guardavo mentre stiravi
                   le braccia sopra la testa
la stanchezza ti trasfigura
in una vecchia scimmia.

Ti ho fissato e hai risposto al mio sguardo.
Avrei voluto parlarti
                 e non l’ho fatto. Desideravo
avvicinarmi e stare alla finestra al tuo fianco
                    a guardare i freddi raggi del sole
           che fuggono e dirti:
è necessario –
è davvero necessario –
dimmi, è davvero necessario affrontare tutto questo?

F.M.

**

Night Club

“Amore”, disse Sibilla al night club, “non so di cosa blateri. Ad ogni modo, sono certa di no”. Parlava con voce compassata, indifferente, appoggiò i gomiti sul tavolo, il mento tra le mani. Si guardò intorno. “Ma guarda…”, cominciò a dire, agitato, il compagno. Giovane volto imperlato di sudore. Sibilla se ne accorse, voltandosi.

“Amore”, disse, “una cosa del genere non esiste, che io sappia. Sei vecchio. Nessuno vuole l’amore – gettò una briciola dal tavolo – “nessuno lo capisce, del resto. Non preoccuparti dell’amore, mio cretinetti, altrimenti presto ti troverai sul lastrico o imbrigliato dal dolore o qualsiasi cosa che non so se ti piacerebbe…”.

“Ma…”

“Onestamente, credimi, nessuno vuole il tuo amore. Non interessa neanche a me. Probabilmente vogliono i tuoi soldi, il tuo cervello – non so quanto tu ne abbia – ma amore… va all’inferno. ‘Non posso amave Weennifred…’”, disse, imitando una tedesca che conosceva, non pozzo amavlo

Si voltò leggermente, fissando in pieno viso il suo ammiratore, con quegli occhi chiari, grigi, che trasudavano un’espressione di innocenza così primordiale che nessuno in quella stanza afosa e affollata avrebbe mai sperato di scorgere almeno una volta nella vita. La sua cinica naturalezza, le parole petulanti combinate con quello sguardo di arcana purezza lo finirono; la sua agonia raggiunse l’apice.

“Guarda qui, Sibilla”, disse, “ad ascoltarti non so cosa potrebbero pensare gli altri. Non pretendo di capirti, Dio lo sa…” “E non mi importa che tu lo faccia”, rispose Sibilla. “Non mi importa. Chi vuole essere capito? Di certo, non io. Odio la gente che fa di tutto per essere capita. Mi annoia fino alle lacrime essere capita. Non c’è nulla da capire, per quel che ne so – piuttosto, non possiamo ballare?”. “Mio Dio, certo, andiamo a ballare”.

Presero la via della pista, cominciarono a ballare. “La sai che balli meglio di chiunque altra in questa stanza infernale, danzi nella gloria, piccola creatura straordinaria…” “Balla e non parlare. Immagino tu sappia che quando si balla non si parla. Che orribile cosa parlare mentre si balla. Per l’amor di Dio, non dire più una parola altrimenti ti ammazzo”.

Feiron Morris

Gruppo MAGOG