L’imperatore. Vita di Carlo V, di Geoffrey Parker - Treccani - Treccani

Alla morte dell’imperatore Augusto, divi filius e patrono di una Roma che, secondo una celebre formula riportata da Svetonio, egli avrebbe trovato di mattoni e lasciato di marmo, i contemporanei tentavano, come potevano, di tracciare un bilancio della vita di un uomo a tutti gli effetti eccezionale. I più, scrive non senza sarcasmo lo storico Tacito, notavano le coincidenze più assurde e si abbandonavano a speculazioni ridicole in merito all’ascendenza divina del defunto, che le straordinarie gesta che egli aveva compiuto, e provveduto a pubblicizzare adeguatamente, sembravano testimoniare fuor di ogni dubbio. Qualcun altro, i pochi che si ricordavano che faccia avesse il mondo prima dell’avvento del princeps, notavano altri aspetti dell’uomo e del politico, e giungevano a conclusioni assai meno lusinghiere.

Un simile quadro contraddittorio si presenta agli occhi di chiunque decida, oggi, di interessarsi alla figura di Carlo V, non diversamente da Augusto (un modello al duca di Lussemburgo indubbiamente noto) «un uomo straordinario che fece cose straordinarie», erede di un impero sul quale, secondo un’altra celeberrima formula, non tramontava mai il Sole e che per un cinquantennio contribuì a determinare i destini dell’Europa e di quello che, per lo meno nella coscienza degli europei medesimi, non senza ritardo rispetto ad altri contesti, per esempio l’Impero ottomano, stava sempre più diventando un mondo senza frontiere, interconnesso come forse mai lo era stato e progressivamente sempre più difficile tanto da comprendere quanto, soprattutto, da governare.

Nel corso della sua vita l’imperatore – come dal momento della sua, salatissima, elezione al trono nel 1519 (la quale venne massicciamente finanziata con il saccheggio dell’oro e dell’argento aztechi: Hernán Cortés salpava alla volta dello Yucatán proprio negli stessi mesi in cui il giovane contendente al soglio imperiale otteneva uno spropositato finanziamento da parte dei banchieri Fugger) venne chiamato, pars pro toto, da ammiratori e nemici, dei quali non fu mai a corto – firmò oltre centomila documenti in svariate lingue, visitò, benché solo in Europa, un migliaio di località – in qualche caso ripetutamente –, presiedette ad alcuni degli eventi decisivi del XVI secolo (come la dieta di Worms), accumulò debiti per somme tali da costringere il figlio Filippo II, appena succedutogli, a dichiarare bancarotta e morì in uno sperduto convento spagnolo di malaria, morbo che aveva contratto per via della riserva di pesca che aveva ordinato di costruire in uno dei luoghi più favorevoli alla diffusione dell’anofele di tutto il circondario pochi anni dopo un’abdicazione che sconvolse l’intera Europa.

Nel suo recentissimo, prodigiosamente erudito e narrativamente appassionante L’imperatore. Vita di Carlo V, il celebrato storico americano Geoffrey Parker, già autore di una monografia su Filippo II e tra i più autorevoli esperti del periodo, accompagna il lettore in un affascinante viaggio attraverso il mondo nel quale il futuro re di Spagna, imperatore dei Romani, erede di Montezuma (e molto altro) visse, restituendo un quadro vivido quant’altri mai di un cinquantennio di importanza capitale al fine di comprendere, non da ultimo, molti degli sviluppi che hanno plasmato il contesto geopolitico nel quale ancora oggi ci troviamo immersi. La biografia di Parker fa scaltrito uso di una massa intimidatoria di documenti (dai rescritti degli ambasciatori veneziani ad una falange con buona probabilità di augusta ascendenza, che testimonierebbe al di là di ogni dubbio sia la morte per malaria quanto il livello di prostrazione al quale la gotta, tanto lamentata da Carlo e i cui effetti vennero diligentemente annotati da chiunque gli bazzicava intorno, fu in grado di condurlo) nel tentativo, come l’autore stesso spiega nella prefazione (p. xi), di illuminare tre aspetti chiave.

1. In virtù di quali ragioni Carlo prese le decisioni cruciali che contribuirono a creare, conservare ed espandere il primo e più duraturo degli imperi transatlantici.

2. Se i fallimenti – numerosi in modo preoccupante e spesso gravissimi, che contribuirono in più di una circostanza a mettere a repentaglio tutto ciò che il sovrano aveva fino a quel momento conseguito – delle politiche dell’imperatore furono il frutto di debolezze strutturali o di mancanze dell’uomo. Avrebbe potuto un individuo più accorto o talentuoso fare meglio, oppure le circostanze «oggettive», come si diceva un tempo, posero in essere un’entità politica troppo vasta per essere efficacemente preservata ed impossibile da difendere (non da ultimo in virtù dello stuolo di nemici che l’accumulo di potere, senza precedenti in Occidente per lo meno dai tempi proprio di Augusto, nelle mani di Carlo contribuì a coalizzare contro di lui)? Detto in altri termini: struttura o personalità? È una questione, come si vede, che ossessiona i biografi sin dai tempi di Svetonio.

3. Come ci si doveva sentire ad essere Carlo V? Rifacendosi a Plutarco, Parker nota che a volte bastano una singola espressione o uno sguardo a dare un’idea più precisa del soggetto di una biografia (dell’essere umano in questione, al di là del suo ruolo sociale, ammesso e non concesso che una tale distinzione si possa difendere a cuor leggero) di quanto siano in grado grandi trionfi, militari o di altro tipo. Su quest’ultimo fronte, L’imperatore si dimostra non solo un modello di ricerca storiografica, ma anche una miniera inesauribile di aneddoti tanto succulenti quanto rivelatori non solo dell’uomo Carlo V, il che, per altro, basterebbe e avanzerebbe, ma del paesaggio sociopolitico nel quale egli si mosse e con il quale si trovò a dover fare i conti, delle aspettative che i contemporanei nutrivano nei suoi confronti (e di quelle che egli stesso maturò, in parte per educazione, in parte sull’onda degli eventi) e dei mutamenti, talvolta epocali, che il contesto nel quale egli visse e agì causarono tanto sull’individuo quanto sui quadri mentali dell’ambiente nel quale ebbe a giostrare (talvolta letteralmente): e il cerchio ricomincia, né appare conclusosi oggigiorno.

Apprendiamo così che Carlo V sapeva essere un mentitore seriale (per fini di puro pragmatismo politico, certo, Il principe venne pubblicato nel 1532, ma questa strategia si rivelò a più riprese controproducente fino a sfiorare la catastrofe), un figlio ingrato e con una sinistra inclinazione a saccheggiare le risorse della madre – reclusa, fisicamente, in una gabbia dorata e, mentalmente, in un mondo di finzioni da far impallidire la più grottesca contemporaneità – per finanziare la politica matrimoniale, spesso e volentieri incestuosa, della casata, un padre che definire oppressivo sarebbe un complimento e un marito di un’insensibilità senza pari, con buona pace di numerose lettere alla moglie dalle quali traspare un affetto che risulta difficile non percepire come sincero.

Nel 1562, un osservatore apparentemente ben informato sostenne di aver visto l’anima di Carlo prendere la via del paradiso. Cosa di lui sia avvenuto tra il 1558 e quella notte (o dopo) non è noto. Per chi abbia voglia di sapere qualcosa in merito agli antefatti di questa ascensione, l’ultimo atto straordinario di un uomo straordinario, il volume di Parker offre un buon punto di partenza.

Geoffrey Parker, L’imperatore. Vita di Carlo V, Milano, Hoepli, 2021, pp. 768

Immagine: Tiziano Vecellio, Ritratto di Carlo V. Crediti: Titian [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

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