Monolith - Kansas - recensione

La fiera sagoma di un capo pellerossa, agghindato con le insegne del potere e coperto di pelliccia d'animale, si staglia accanto ad uno squadrato monolite, all'apparenza un totem ma che in realtà, osservando poi il retro copertina, si scopre essere uno dei fatiscenti pilastri che reggono le superstiti vestigia di un antico svincolo autostradale, sito scelto da quell'uomo e dalla sua tribù per piantarvi i loro teepee... Questa simbolica rivincita dell'Indiano d'America, sopravvivente in un apocalittico futuro ai suoi conquistatori e massacratori, è l'emozionante grafica di benvenuto all'album del 1979 del glorioso gruppo di Topeka, Kansas.

Se gli Zeppelin (o i Purple, o chi volete voi) hanno sdoganato l'hard rock, se i Black Sabbath (oppure altri) hanno coniato il metal, se i King Crimson (magari i Moody Blues) hanno generato il progressive, c'è qui da affermare che allora i Kansas (insieme ai Rush, volendo) hanno gettato cospicui semi per il progressive metal. Perché sono stati i primi ad abbinare al tipico gusto progressivo per le suites, i cambi di tempo, le pomposità varie, il parallelo gusto metallaro per i chitarroni costantemente rumorosi e i cantati a squarciagola.

Chi non ama affatto questa formazione, la considera derivativa: ha (quasi) ragione, avendo essa fatte proprie le intuizioni di Genesis, Yes, Gentle Giant e compagnia ma avendoci aggiunto anche del suo, appesantendo e drammatizzando quanto più possibile il tutto; a rischio talvolta di scadere quasi nel cattivo gusto, ma talaltra firmando ottime pagine di pomposo, esagerato, lussureggiante rock americano.

Sono tre le risorse primarie usate per raggiungere il peculiare suono Kansas e scrivere la propria pagina nella storia del rock: innanzitutto la voce stentorea e carica di pathos del tastierista Steve Walsh; poi il costante ricamo del violino elettrificato, uno strumento con intrinseche caratteristiche drammatiche e decadenti, affidato al capellone Robby Steinhardt; infine il lavoro delle due chitarre, fra le quali assai brillante quella del capogruppo Kerry Livgren, platinato (allora... oggi è un distinto e spelacchiato panzone) compositore, arrangiatore e tastierista aggiunto, un gran musicista capace di un suo personale timbro chitarristico, molto compresso e rotondo, un vero schiocco di frusta.

Per una ragione a me non plausibile questo disco risulta raramente fra i primi menzionati a proposito dei Kansas. Sono invece personalmente legatissimo ad alcuni suoi episodi, in special modo l'opener "On The Other Side" cantata alla grande da Walsh dopo che Livgren ha smanettato altrettanto alla grande con la solista, in un intro da urlo. Nell'intermezzo strumentale il gruppo va in obbligato su un tempo di 13/8, alla maniera 'Dream Theater' (beninteso, all'epoca del disco i newyorkesi erano in età scolare e magari intenti a comprare i dischi dei Kansas!), per poi ritornare alla bella melodia vocale, sorretta dall'arpeggio della dodici corde elettrica, e concludere col ritorno del chitarrone di Livgren per l'outro.

Altra mia favorita è la traccia conclusiva "Reasons To Be", la ballata folk vista dalla prospettiva Kansas, cioè semiacustica sì, ma con enfasi e toni il più possibile accesi. Nel mezzo, altre sei abbondanti composizioni fra le quali è facile distinguere fra quelle dovute essenzialmente alla penna di Livgren, più lineari, geniali ed orecchiabili, ovvero a quella di Walsh con risultati più arzigogolati e mutevoli, talvolta farraginosi talaltra sorprendenti.

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