Un museo a cielo aperto per salvare la memoria della Pro Vercelli - La Stampa

«Se l’avessero in Inghilterra, una storia come questa, ci farebbero un museo. Anzi, lo avrebbero fatto da anni». Chissà quante volte abbiamo sentito queste parole, riferite al nostro passato che non sappiamo valorizzare. La storia è quella del calcio dei pionieri di inizio Novecento, le casacche sono bianche, il colore elegante, inconfondibile della Pro Vercelli: sette scudetti tra il 1908 e il 1922, una quantità di primati e di luoghi comuni (la frase «Il calcio non è un gioco da signorine», la coniò uno dei campioni di quella squadra, Guido Ara), un serbatoio di racconti ma anche di immagini sbiadite. Se non sono foto, se non sono partite avventurose diventate materia di libri (uno su tutti «Il grande album della Pro Vercelli», bibbia per gli appassionati del luogo e non solo), allora il rischio dell’oblio è molto, molto alto.

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I trofei all’asta

Perché in questa città di 46 mila abitanti equidistante tra Torino e Milano, dove più di un secolo fa inventarono i fondamentali del calcio all’italiana - lo ricorda anche Gianni Brera nella sua Storia critica del calcio italiano - non c’è nulla che racconti quella storia. Quegli episodi. Quegli eroi dello sport. I luoghi che rimangono intatti, come pietre, e potrebbero narrare la favola, la leggenda dei primi giocatori che facevano tremare Juve e Milan, sono muti. Parlano storici come Alex Tacchini, uno degli autori de Il grande album oltre che animatore di mille iniziative, come la Hall of fame, ma serve anche dell’altro. Sì, «se l’avessero in Inghilterra ci farebbero un museo». Quello c’era, fino a una quindicina di anni fa, ma lo hanno abbattuto e mai più ricostruito. Al suo posto c’è un parcheggio, accanto allo stadio. I trofei, allora: quello che c’era, e rievoca gli anni gloriosi, è finito a Parma, a un parente di Mario Ardissone, capitano della Pro dell’ultimo scudetto, quello del 1922. Lui, Stefano Delsignore, li ha restaurati, a cominciare dalla monumentale lavagna con le foto delle sette squadre tricolore: dice che vorrebbe farli tornare a Vercelli, esporli in un luogo adatto, ma finora - sono passati otto anni dall’asta giudiziaria attraverso la quale se li aggiudicò dalla vecchia società fallita - non è stato raggiunto un accordo con il Comune. Chissà che non si riesca con la nuova amministrazione: in città è tempo di elezioni e magari anche di promesse.

Delsignore nel 2016: "Nessun intento ostile, voglio rendere fruibili i trofei della Pro Vercelli"

Un museo a cielo aperto

Per colmare questa lacuna, La Stampa ha ideato un progetto chiamato «Vercelli, la città dei leoni (che è il soprannome dei giocatori della Pro)». In cosa consiste? In un museo, ma non un contenitore di oggetti da chiudere in quattro mura: un museo all’aperto. In pratica vogliamo raccontare la storia della Pro Vercelli in sette (il numero, ovviamente, non è casuale) punti emblematici della città e della sua mitica società di calcio. Ognuno sarà caratterizzato da una piccola stele, da un simbolo che richiami la Pro e da un codice Qr che riporti, sullo smartphone a un testo più approfondito, a foto e ad altre informazioni utili, anche pratiche. Ad esempio: lo stadio intitolato a Silvio Piola, il re dei bomber italiani, che qui iniziò la sua travolgente carriera; il vicino Parco Camana, verso cui il primo campo era orientato (oggi è un parco giochi); piazza Mazzini, dove un gruppo di amici iniziò a correre dietro al pallone acquistato da Marcello Bertinetti: il primo nucleo della Pro. E poi: la Sala d’armi, sede della società di scherma, che con la ginnastica diede vita alla polisportiva. Gli scorci che fanno tornare alla mente altre due stelle vercellesi del futbol che tra gli anni Trenta e Quaranta scrissero pagine gloriose: Pietro Ferraris II, campione del mondo nel 1938 con Piola e Vittorio Pozzo, ed Eusebio Castigliano, morto nella sciagura di Superga con il Grande Torino.

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Una storia da film

L’obiettivo è offrire uno strumento concreto per ricordare, per non lasciare che la memoria sbiadisca come certe foto. Ma anche - e riecco l’Inghilterra - creare un circuito virtuoso di quello che oggi viene chiamato «turismo sportivo». Appassionati e storici che vengono in città alla ricerca di testimonianze concrete e non solo di carta. Luoghi. Pietre. Sono magnetiche, oltre alle storie, le citazioni di primati che la Pro Vercelli può vantare: nove giocatori su undici in Nazionale, il 1° maggio 1913 (Italia-Belgio), il primato ancora imbattuto di gol in Serie A del vercellese Silvio Piola, e ancora il primo giocatore diventato professionista, Virgilio «Viri» Rosetta, passato dalla Pro alla Juve nel 1923. Proprio come i protagonisti della serie tv The English game, popolarissima su Netflix. Ora, non pretendiamo che sia un attore hollywoodiano come Ryan Reynolds a far risorgere la tradizione secolare delle Bianche casacche, come ha fatto con il Wrexham, la società più antica del Galles per poi raccontarlo in un documentario per Disney +. Storie da film. Lo diceva Domenico Marocchino, vercellese di Santhià, talento della Juve tra gli anni Settanta e Ottanta: «L’epopea della Pro Vercelli meriterebbe una sceneggiatura da affidare a un buon regista». E allora torna in mente, pensando al nostro museo senza porte e ai leoni di cui troppe persone (anche di qui) non conoscono le gesta, la frase ripetuta a Kevin Costner nel film L’uomo dei sogni dedicato al baseball d’antan: «Costruiscilo, e lui ritornerà».

Marcello Bertinetti, l'uomo che vinse sia nel calcio che nella scherma

Ricordare e raccontare è necessario, in questi anni La Stampa non ha mai smesso di sottolineare che anche la toponomastica ha dimenticato troppi personaggi di quel romanzo sportivo. Non c’è una piazza o una via che ricordi la squadra dei 7 scudetti; il campo dedicato a Luigi Bozino, il presidente di quei pionieri, è stato restaurato ma non ha nemmeno una targa con il suo nome; Pietro Ferraris II è sopravvissuto a Superga (aveva lasciato il Toro l’anno prima) ma non all’incuranza di una certa classe politica: non c’è un angolo di città che lo richiami. Sbadati o disinnamorati, infine smemorati. Di certo, più poveri, senza l’eredità dei figli prediletti di Vercelli. Per fortuna la passione dei dirigenti del club e degli stessi tifosi è incrollabile: nessuno, qui, ha dimenticato da dove veniamo, e il tricolore col numero 7 campeggia sul tetto di una delle tribune più antiche e suggestive d’Italia, sui muri all’ingresso della Curva Ovest, perfino sui colletti delle bianche casacche. E dagli spalti si leva, orgoglioso e altissimo, un solo grido: «Salutate i sette scudetti».

Sul terreno di gioco del Silvio Piola dove campeggiano i sette scudetti

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