John McCook, l'Eric Forrester di «Beautiful»: «Mio figlio è schizofrenico, ho dovuto imparare a comprenderlo» | Corriere.it

John McCook, l'Eric Forrester di «Beautiful»: «Mio figlio è schizofrenico, ho dovuto imparare a comprenderlo»

diChiara Maffioletti

L'attore della soap opera, che a giugno compirà 80 anni,  parla del libro scritto dal figlio Jake insieme alla madre: «È importante tenere aperta la discussione su questi temi»

Da 37 anni è il patriarca di una delle famiglie più conosciute della televisione, protagonista di una soap, «Beautiful», tanto longeva da diventare una sorta di vita parallela, un consapevole Truman Show. 

Eppure, fuori dal set, la vita per John McCook è stata decisamente diversa rispetto a quella del suo Eric Forrester. Se per il potente stilista, padre di Ridge, il problema più urgente spesso è stato capire di chi fosse innamorato, per l’attore, che a giugno compirà 80 anni, tutto si è rivelato molto più complesso e doloroso

Suo figlio, Jake, 43 anni, soffre di schizofrenia. Una malattia ancora poco indagata ma assolutamente invalidante, diagnosticata con un ritardo di anni, vissuti da lui e da tutta la famiglia come un inferno in cui ogni giorno, tra depressione, dipendenze e paranoie, è diverso dall’altro. Ogni minuto, anzi. McCook non ne aveva mai parlato. Ma ora il figlio, assieme alla moglie Laurette, ha pubblicato un libro, «The Cliffs of Schizophrenia: A Mother and Son Perspective» (disponibile su Amazon), in cui ripercorre il suo travaglio. Un modo per essere d’aiuto agli altri, che ora l’attore, noto in tutto il mondo («Beautiful» è vista ogni giorno da oltre 35 milioni di persone), vuole supportare. 

Come mai nel libro non è incluso il suo punto di vista, quello di un padre?
«Fin dal principio questo è stato un progetto di Jake e di sua madre e l’ho rispettato: era qualcosa che volevano fare assieme. Quando mi hanno spiegato cosa volevano fare ho detto: bene, ne sono fiero. Ma resta il loro progetto. Io, adesso, posso solo aiutare a farlo conoscere, anche se loro due sono una forza, non hanno certo bisogno di me». 

Come ha vissuto la malattia di suo figlio? Cosa ha rappresentato per lei?
«Credo sia interessante analizzare la cosa, considerare il punto di vista di un padre che ha un figlio che soffre di schizofrenia. Prima che davvero riuscissi a capire di cosa si trattasse è dovuto passare un po’ di tempo, lo ammetto. Un padre, molte volte, non capisce subito come stanno le cose. Io piuttosto, di fronte a certi comportamenti di mio figlio, iniziavo a dire: perché fai questo? Perché fai quello? Comportati così, cosa c’è che non va in te. Insomma, un padre deve essere educato per poter imparare che molte delle cose che vede sono sintomi. O, almeno, questo è successo a me. In un primo momento si reagisce in modo inappropriato, ci si arrabbia, perfino con il proprio figlio. Non so se avrei fatto lo stesso anche con mia figlia, me lo sono chiesto e non lo so. Ma con mio figlio si, ho avuto questa reazione molto primitiva all’inizio». 

E poi?
«Ho dovuto imparare a comportarci, comprendere come relazionarmi con qualcosa di completamente nuovo, mai messo in conto. E alla fine l’ho fatto, grazie a Dio. Non sono più arrabbiato con Jake, non lo sono affatto. Ma all’inizio è stato difficile capire tutto per me. Ho dovuto costruire la mia comprensione, ecco perchè penso che sarebbe giusto essere affiancati da gruppi di supporto, da qualcuno che ti insegni, semplicemente, cosa vuol dire una malattia come questa». 

Perché, dopo tanti anni, solo ora avete deciso di parlarne?
«È venuto spontaneo farlo una volta che è uscito il libro, per accompagnarlo. È importante alzare il velo e tenere aperta una discussione su certi temi, anche per far sentire meno sole altre persone che stanno attraversando tutto questo. Ed è il motivo per cui questo libro è tanto importante (come importante è anche il profilo social di Jake, che su Instagram si chiama artbyjakemc). Ma scriverlo è stato l’elemento fondamentale». 

Interpreta lo stesso ruolo da quasi 40 anni, una sorta di alter ego. Come è stato affrontare i problemi di Eric Forrester quando in realtà, nella sua vera vita, erano questi quelli che lei stava attraversando?
«Affrontare i problemi di Eric Forrester è divertente per me, è il mio lavoro, recito, mi soddisfa. Però tornare a casa è sempre stata una cosa differente, anche se lì avevo a che fare con questi problemi. Mia moglie, i miei figli, sono tutte persone amorevoli, ecco perché per me casa mia resta il posto dove mi sento meglio, più felice in assolto. Con tutto quello che lì accade, che sia difficile o bellissimo, resta sempre casa mia e io sono sempre felice di esserci». 

«Beautiful» spesso ha affrontato dei problemi sociali. Potrebbe essere un’idea raccontare anche una malattia come quella di suo figlio in una soap?
«Sarebbe una bellissima idea e una grande sfida al tempo stesso. Rappresentare al cinema o in televisione le difficoltà di chi ha problemi mentali in un modo corretto sarebbe molto utile, ma per ora lo si fa sempre e solo attraverso cliché, punti di vista stereotipati. Sulla schizofrenia resta lo stigma: è sempre raccontata come qualcosa di spaventoso, violento... cosa che a volte è, ma solo a volte. Si tratta di una parte dello spettro di questa malattia. Ecco perché una narrazione diversa avrebbe un valore educativo importante». 

Molte persone pensano di conoscerla per via del suo ruolo. Ora ha scelto di condividere anche questo aspetto della sua vita e, di colpo, è come se diventasse più tridimensionale. Lo avverte?
«Sento l’affetto delle persone. La gente è abituata a vederti per pochi minuti al giorno, oppure in due ore di film, pensando di sapere chi sei, ovviamente non è così. Di conseguenza quando si viene a conoscenza di alcuni aspetti della vita privata degli attori, o dei cantanti, c’è chi resta sorpreso, a volte anche turbato. È il motivo per cui di solito è un bene tenere la propria vita privata tale. Noi ora, come famiglia, abbiamo deciso di raccontare la nostra storia al mondo perché volevamo fare la differenza, aiutare gli altri. Io sono questo, io sono la mia famiglia, non la mia immagine». 

Ha mai raccontato quello che stava vivendo ai suoi colleghi?
«Ci conosciamo tutti ma non sappiamo tutto di tutti. Con alcuni ho condiviso alcune cose, come Thorsten Kaye (che nella soap è Ridge), che è un mio caro amico. Ma lo vedo solo al lavoro, non vive nemmeno a Los Angeles. E l’ho fatto anche con Katherine Kelly Lang... ma abbiamo tutti delle vite che vanno al di là di "Beautiful", oltre a quella che condividiamo sul set. In casi come questi, quando si lavora da tanto tempo assieme, si è soliti dire che il lavoro è come una famiglia. Ed è vero, ma la parola “come” fa la differenza. La mia famiglia c’è ed è un’altra. Sul set ci vogliamo bene, ma è una cosa diversa». 

Con Laurette è sposato dal 1980.
«Conoscerla è la cosa migliore che sia mai successa nella mia vita, da sempre e per sempre. È eccezionale, un riferimento per me e per tutti noi. Così forte e coraggiosa ma anche straordinariamente amorevole. Sono fortunato». 

Cosa la rende più orgoglioso di suo figlio?
«Sono orgoglioso del fatto che prima abbia voluto e poi sia stato in grado di scrivere questo libro. In generale sono orgoglioso quando ha un giorno buono, quando è dolce e affettuoso con le altre persone. Lui non è mai un attaccabrighe, una persona conflittuale. Non lo è nemmeno nei giorni che non sono buoni, quando si sente insicuro, sopraffatto e i suoi sentimenti sono tristi. Lui resta calmo, non è mai aggressivo, non vuole litigare. Mi rende orgoglioso come sta cercando di gestire quello che gli è successo, i suoi pensieri e i suoi sentimenti, da uomo adulto. Lo sta facendo molto bene e sono molto fiero di lui». 

Cosa si augura per il futuro?
«Io, mia moglie e mio figlio dobbiamo guardare al futuro. Dobbiamo farlo per noi stessi e per lui. per questo l’augurio è che sia sempre più indipendente e sperare che riesca in questo obiettivo, per lui e per noi».

desc img

13 maggio 2024 ( modifica il 13 maggio 2024 | 13:07)