La Cambogia tra memoria e riappacificazione - Treccani - Treccani

«… oggi la Cambogia è una terra di vittime, di carnefici e dei loro figli. Vittime e carnefici vivono assieme all’interno di una cultura di impunità».

(Bou Meng, sopravvissuto all’S-21)

Il 7 gennaio 1979, quarant’anni fa, le forze vietnamite entrarono a Phnom Penh, in Cambogia, e posero termine alla Kampuchea Democratica, il regime di Pol Pot (o il “Fratello n. 1”) e dei Khmer rossi. L’instaurazione della nuova Repubblica Popolare di Kampuchea (1979-89) non segnò la fine della guerra civile, che si protrasse ancora per molti anni anche a causa degli interessi geopolitici nell’area di Cina e USA (che continuarono ad appoggiare più o meno direttamente Pol Pot) e URSS (sostenitrice del governo vietnamita), ma fu comunque la fine di una delle dittature più brutali della storia. Durata meno di quattro anni, dal 17 aprile 1975, causò la morte di circa un terzo della popolazione: oltre un milione e mezzo di persone uccise direttamente nei modi più sadici o indirettamente dagli stenti e dalle malattie prodotti dal radicalismo delle misure economiche e sociali sperimentate dal regime. Nessuna famiglia fu del tutto risparmiata, e i cambogiani sono ancora oggi impegnati nella ricerca di un difficile equilibrio tra memoria e riconciliazione nazionale: un processo tanto complesso quanto complessa fu la storia di quel conflitto.

Già nel 1979 venne istituito un Tribunale del popolo per giudicare, perlopiù in contumacia, i crimini compiuti dai leader dei Khmer rossi, ma la maggior parte di essi, incluso Pol Pot (morto nel 1998), non pagò mai. Soltanto infatti dopo la fine della guerra civile e di quella fredda, e in seguito a un lungo negoziato (1997-2003) con l’ONU (che aveva continuato a considerare la Kampuchea Democratica l’unico governo cambogiano legittimo fino al 1991) si poté istituire un Tribunale speciale per i Khmer rossi (Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia, ECCC), divenuto operativo nel 2006. Anche questo tribunale, come già quello del 1979, si è mosso sulla linea sottile della distinzione tra la leadership e gli altri, non ritenuti responsabili, e numerose testimonianze delle vittime sono state rifiutate, sollevando polemiche e delusione. Ma benché le condanne siano state veramente scarse, in molti difendono il valore simbolico dell’ECCC. In Cambogia il processo della memoria è stato governato dall’alto, anche perché numerosi Khmer rossi passarono alla parte vietnamita verso la fine del conflitto, e si teme che soddisfare a pieno la “sete” di giustizia delle vittime potrebbe ostacolare la riappacificazione, se non innescare di nuovo la guerra.

Tra i maggiori responsabili, Ieng Sary, il “Fratello n. 3”, fu arrestato nel 2007 ma morì nel 2013 prima del verdetto, e sua moglie Ieng Thirith, con lui imprigionata, morì libera per motivi di salute nel 2015; Nuon Chea (il “Fratello n. 2”), ideologo e braccio destro di Pol Pot, e Khieu Samphan, capo di Stato e poi ministro, sono invece stati condannati all’ergastolo nel 2010 e nel novembre 2018 riconosciuti colpevoli del “genocidio” – l’unica volta che il Tribunale ha applicato questo concetto rimosso completamente dalla storia cambogiana – della minoranza musulmana dei Cham e di quella vietnamita; infine all’ergastolo è stato condannato Kang Kek Iew (detto Deuch), direttore del famigerato S-21, una ex scuola di Phnom Penh trasformata in ufficio della polizia segreta e in prigione da cui, delle migliaia di torturati e uccisi, ne uscirono vivi solo sette.

L’S-21 è oggi sede del Museo del genocidio di Tuol Sleng, uno dei luoghi di memoria più importanti. Anche la storia di questo museo, voluto dal governo vietnamita subito dopo l’ingresso a Phnom Penh, è significativa: alla sua creazione collaborarono i sette sopravvissuti e uno di essi, Ung Pech, ne divenne direttore, ma la mente principale dell’operazione fu il vietnamita Mai Lam, già organizzatore del Museum of American War Crimes a Ho Chi Minh City (Saigon): necessario sembrò negare ogni legame col comunismo dei “traditori del popolo Khmer”, assimilandoli piuttosto ai nazifascisti, nonché offrire una visione “manichea” di quegli eventi, eliminando le tante zone grigie di antiche e nuove alleanze tra vietnamiti e Khmer rossi. Per più di un anno, inoltre, il museo fu interdetto ai cambogiani, a cui fu aperto solo dal luglio del 1980: nell’ottobre di quello stesso anno, oltre 300.000 di essi lo avevano già visitato, anche in cerca di notizie dei loro cari.

Altri sono i luoghi della memoria presenti in Cambogia, come il Choeung Ek Memorial, eretto in uno degli ex campi della morte, a pochi chilometri dalla capitale, dove venivano uccisi i prigionieri condotti dall’S-21 e dove vennero scoperti 8.500 corpi, moltissimi di bambini (ma ancora molte fosse comuni non sono state riaperte). E dopo lunghi anni di silenzio, nel 2009-10 è stato introdotto l’insegnamento a scuola della storia del genocidio, sono sorte iniziative per educare “al perdono e alla tolleranza” e programmi di salute mentale indirizzati ai parenti delle vittime. Tuttavia, la difficoltà di raccontare le atrocità commesse da cambogiani su altri cambogiani, di trovare una narrazione comune in un Paese dilaniato dalla violenza, e di dare un senso a quanto avvenuto, sono al momento ancora molto lontane dall’essere risolte.

Crediti immagine: Paul Mannix. originally posted to Flickr as Cell doors, Security Prison 21 (S-21), Tuol Sleng Genocide Museum, Phnom Penh, Cambodia. Creative Commons Attribuzione 2.0 Generico, attraverso it.wikipedia.org

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