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Filippo

COMPOSIZIONE

Alfieri scrive in francese l’idea e la stesura del Filippo, fra marzo e maggio del ’75, prima ancora che la sua prima tragedia, poi ripudiata, l’Antonio e Cleopatra, sia rappresentata a Torino, al Teatro Carignano, a giugno. La versione in italiano risale al luglio 1775, mentre entro l’inizio del ’76 egli approda alla prima versificazione di “quasi due mila versi”.

Successive versificazioni risalgono al 1776, ’80, ’81, con correzioni per l’edizione senese, presso Vincenzo Pazzini Carli e Figli, del 1783, e per l’edizione parigina del 1787, nel primo volume della Didot Maggiore (1788, ma ’89).

 

FONTI

La tragedia rimanda alla vicenda del re di Spagna Filippo II, il quale, nel gennaio 1568, ordinò la carcerazione del figlio don Carlos, di cui fu annunciata la morte il 24 luglio successivo. A due mesi di distanza, la morte di parto della regina Elisabetta, (figlia di Enrico II e di Caterina de’ Medici, promessa a don Carlos nel 1558, ma dal ’60 moglie di Filippo II), alimentò la leggenda dell’amore fra i due giovani, amore innocente, secondo Alfieri, contrastato dalla tirannide di Filippo.

La fonte letteraria è nel Dom Carlos. Nouvelle historique, opera del 1673 dell’abate César Vichard de Saint-Réal, ma Alfieri ebbe presenti anche il Mithridate (1673) di Racine e l’Andronic (1685) di ]. G. Campistron.

 

FORTUNA

La tragedia, recitata a Firenze, a casa di Alfieri, nel 1795, con l’autore impegnato alternativamente nei ruoli di Filippo e di Carlo, fu interpretata dalla compagnia di Giovanni Boccomini nel 1825; a Napoli da Alberto Tessari al Teatro dei Fiorentini fra il 1828 e il ’30; sempre nel ’30 a Bologna, all’Arena del Sole, con Luigi Domeniconi. Del Domeniconi si legge come, ancora giovane «attore randagio», giunto in un paese del Piemonte, «davanti a una platea di Vignaioli», avesse deciso, «per mandare a letto allegri», di mutare nel Filippo «la fine orribilmente tragica in lieto fine» e di sostituire il verso con «una prosa improvvisata tutta sua». L’aneddoto vuole che lo stesso Alfieri assistesse a una di quelle recite e riuscisse, pertanto, a «legnare il responsabile di tale scempio».

Dal 1824 un celebre Carlo fu l’attore Gustavo Modena. Nel 1880 debuttò nella parte Giovanni Emanuel. Significativa fu la presenza del Filippo sulle scene napoletane fra il 1783 e l’84.

 

 

Polinice

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata e stesa in prosa francese, con il Filippo, nel 1775, fu versificata nel ’76 e nel’’81; letta da Alfieri nel’80 presso l’Accademia La Filopatria a Torino.

Alfieri la pubblicò nell’edizione senese del 1783 e nell’edizione parigina del primo volume della Didot (1788, ma ’89).

 

FONTI

Alfieri riprende le fonti classiche del mito tebano, I sette a Tebe di Eschilo, l’Edipo re, l’Edipo a Colono e l’Antigone di Sofocle, Le Fenicie di Euripide, l’Edipo e le Phoenissae di Seneca, la Tebaide di Stazio. Nota ad Alfieri era anche La Thébaide ou les frères ennemis di Racine.

 

CONTENUTI E FORTUNA

L’antefatto è la vicenda di Edipo, figlio di Laio, re di Tebe, e di Giocasta, abbandonato poco dopo la nascita sul monte Citerone, appeso a un albero per i piedi (da qui il nome, che significa “dai piedi gonfi”), al fine di vanificare un vaticinio secondo il quale il bambino, cresciuto, avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Liberato da un pastore che lo porta a Corinto, Edipo viene avvisato dall’oracolo delfico che egli sarà colpevole di parricidio e incesto. Nella fuga, si dirige verso la Beozia, incontra un vecchio su un cocchio e, durante un diverbio, lo uccide, ignorando che si tratti di suo padre.

Giunge a Tebe, sottomessa dalla Sfinge, mostruoso animale con sembianze di leone alato e petto e volto di donna. Scioglie l’enigma dal quale dipende la liberazione della città e ottiene in sposa da Creonte la sorella Giocasta, divenendo re di Tebe e marito della propria madre vedova. Dall’unione incestuosa nascono Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. Quando, ad alcuni anni di distanza, la Beozia è colpita da una peste, l’oracolo di Delfo spiega che gli dei risparmieranno Tebe solo quando sarà vendicato Laio. Edipo, fatte ricerche sul colpevole, scopre di essere l’uccisore del padre e, per disperazione, si acceca, mentre Giocasta si uccide impiccandosi. Edipo va poi in esilio a Colono, con la figlia Antigone.

 

Alfieri si sofferma sulla vicenda dei due fratelli Eteocle e Polinice, figli di Giocasta ed Edipo e fratelli di Antigone. Essi dovrebbero alternarsi di anno in anno sul trono di Tebe, ma Eteocle, terminato il suo periodo di regno, rifiuta di cederlo a Polinice, che va in esilio ad Argo, dove sposa Argia, figlia di Adrasto, e, con il suocero, muove guerra a Tebe (la guerra dei “Sette a Tebe”).

In un duello conclusivo, nel testo di Alfieri, Polinice ferisce Eteocle che viene portato in scena morente. Giocasta maledice Polinice, che chiede perdono ad Eteocle, il quale, fingendo di abbracciarlo, lo pugnala.

Polinice lo perdona, ma Giocasta maledice la stirpe di Laio. Le parole estreme sono quindi affidate a una donna, una madre, che invoca la morte e la maledizione della sua stirpe.

 

Antigone

COMPOSIZIONE

La tragedia fu ideata e stesa nel 1776, versificata nel ’77, «in meno di tre settimane» e poi nel 1781 e nel 1783. Fu letta dall’autore presso la società letteraria La Sampaolina di Torino, poi rappresentata a Roma il 20 novembre 1782.

Compresa nel primo volume dell’edizione senese Pazzini (1783), venne ripubblicata nell’edizione Didot (1788 ma ’89).

 

FONTI

Il testo fu suggerito dalla lettura del «duodecimo libro di Stazio», tradotto da Cornelio Bentivoglio, ma anche dall’Antigone di Jean Rotrou e da quella di Sofocle, pervenuta ad Alfieri tramite il volume sulle tragedie greche dello scrittore francese Pierre Brumoy.

 

FORTUNA

Nell’Ottocento, la tragedia di Alfieri ebbe grandi interpreti in Carlotta Marchionni, al Carignano di Torino nel 1823, e in Adelaide Ristori, dal 1841 al ’51.

Il personaggio della protagonista ebbe particolare fortuna in campo musicale, anche indipendentemente da Alfieri. Oltre a G. M. Orlandini (1718), ]. A. Hasse (1723) e altri autori minori, si pensi a F. Mendelssohn-Bartholdy (1841), C. Saint Saëns (1893), A. Honegger, con libretto di J. Cocteau (1922, 1927).

 

CONTENUTO

Il conflitto tragico è fra il tiranno Creonte, che si appella alla ragione di stato e Antigone che rimane fedele alle sacre leggi degli affetti familiari,

Creonte, che, dopo l’uccisione di Laio, aveva governato Tebe alla morte di Eteocle e Polinice, assume nuovamente il ruolo di re e ordina che sia condannato a morte chiunque tenti di dar sepoltura a Polinice. Antigone, invece, intende onorare la memoria del fratello. È notte fonda quando Antigone giunge nella reggia.

Antigone è all’esterno rispetto alla reggia, di notte, quando avverte l’approssimarsi di Argia e le si rivolge, chiedendole di svelarsi.

Emone, figlio di Creonte, dichiara il suo amore per Anrigone davanti al padre. Quando Antigone giace sul fondo «svenata», Emone si avventa armato contro il padre Creonte. Come annota Alfieri, tuttavia, volgerà poi l’arma contro se stesso, prima di cadere trafitto.

La scena è la reggia in Tebe.

Virginia

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata, stesa in prosa e versificata nel 1777-1778, versificata una seconda volta nell’83, anno dell’edizione senese, fu letta da Alfieri a Roma nel 1782, alla presenza del Monti, dei fratelli Verri, del Canova, e rappresentata a Torino, al Carignano, nel 1784, dalla compagnia Medebach.

Fu pubblicata nel primo volume dell’edizione senese Pazzini e nel secondo volume dell’edizione Didot (1788).

 

FONTI

Ispirata da Livio (Ab urbe condita, III, 44-48).

Prima delle cosiddette «tragedie di libertà» è ambientata nell’antica Roma dove la giovane plebea Virginia, figlia di Numitoria e del soldato Virginio, lontano dalla città perché in guerra, promessa in sposa al tribuno Icilio, è a questi contesa da Marco, che sostiene che ella sia figlia di una sua schiava. In realtà, Marco agisce per conto del decemviro Appio Claudio, che più volte ha tentato invano di sedurre la fanciulla. Il magistrato e il popolo sono coinvolti nella controversia e Icilio accusa apertamente Appio di tirannide, denunciandone le brame.

Tornato a Roma, Virginio, padre di Virginia, invita il giovane Icilio alla prudenza, ma questi ribadisce di preferire la morte alla perdita della libertà. Invano Appio tenta di corrompere Virginio, offrendogli il comando dell’esercito, e tenta di conquistare Virginia. Al suo ennesimo rifiuto, la minaccia di ucciderle il padre e Icilio, che, fallito il tentativo di opporsi con le armi, si uccide. Nell’ultimo atto, nel Foro, di fronte al popolo e ai littori, Appio proclama Virginia schiava di Marco. Virginio, chiesto il permesso di abbracciare un’ultima volta la figlia, nell’abbraccio la pugnala. A questo punto, il popolo, fra «gran tumulto, e strepito d’armi», insorge al grido «Appio, Appio muoia». La scena è il Foro a Roma.

 

FORTUNA

Benché il testo risenta di una certa lentezza, ebbe notevole successo nel corso dell’Ottocento, con l’interpretazione di Antonio Morrocchesi al Teatro di Santa Maria di Firenze nel gennaio 1794 e al Carignano di Torino nel 1800, così come con quella di Gustavo Modena, che l’ebbe in repertorio dal 1824.

 

Agamennone

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata a Pisa con l’Oreste nel 1776, stesa in prosa nel luglio del ’77 e versificata dapprima nel ’78, poi nell’81, come le precedenti, fu stampata nel secondo volume dell’edizione senese del 1783 e della Didot del 1788, con correzioni.

 

FONTI

 Alfieri riprende la vicenda narrata da Seneca (Tieste e Agamennone) a ripresa delle fonti di Eschilo (Agamennone), Sofocle (Elettra) ed Euripide (Elettra).

È stato sottolineato il rapporto con il Macbeth di Shakespeare del 1606, letto da Alfieri in francese l’anno precedente. Il primo atto si apre con Egisto, perseguitato dall’ombra del padre Tieste, che chiede vendetta dopo la propria morte.

 

CONTENUTI

La vicenda riguarda i discendenti di Tantalo, con la cacciata di Tieste dalla città di Micene d’Argo, da parte del re Atreo, suo fratello, dopo che Tieste aveva sedotto la sposa di Atreo, Aeropa.

Tieste porta con sé il figlio di Atreo, Plistene, nella speranza di fargli uccidere, un giorno, ignaro, il padre. Accade tuttavia che sia Atreo ad uccidere il figlio e che finga di volersi riappacificare.

Durante un banchetto, Atreo serve al fratello Tieste le carni dei figli nati dalla sua unione con Aeropa. Tieste, allora, segue la predizione che lo riguarda e decide di unirsi incestuosamente alla figlia Pelopia: dalla loro unione nasce Egisto, allevato a corte da Atreo. Quando Tieste riconosce in Egisto il proprio figlio, lo convince ad uccidere Atreo, per impadronirsi del trono. I legittimi eredi, Agamennone e Menelao, esiliati a Sparta dove sposano le figlie del re, Clitennestra ed Elena, riconquistano il trono paterno uccidendo Tieste e bandendo Egisto, che diventa amante di Clitennestra.

Egisto impone a Clitennestra di uccidere il marito nel sonno. La tragedia di Alfieri si chiude con l’urlo di morte di Agamennone, la ricomparsa in scena di Clitennestra con il pugnale insanguinato e il suo delirio. La scena è la reggia in Argo.

 

FORTUNA

La tragedia alfieriana fu recitata a Firenze fra il 1800 e il 1802, alla presenza dell’autore, dalla Compagnia Reale Italiana, con Paolo Belli Blanes. Si ricorda anche un allestimento al Teatro Carignano di Torino nel 1821.

Al personaggio di Agamennone si sono ispirati, in età moderna, numerosi altri autori, sempre rifacendosi ai modelli di Eschilo e Seneca: si pensi, fra gli altri, a C. Boyer (1680), Thomson (1738), L. Lemercier (1797), Galt (1812), T. Seemann (1872), H. de Bornier (1886) e, in musica, G. Calzerani (un balletto, 1821) e G. Treves (opera, 1847).

 

Oreste

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata nel maggio del 1776 con l’Agamennone («Appena ebbi stesa l’Antigone in prosa, che la lettura di Seneca m’infiammò e sforzò d’ideare ad un parto le due gemelle tragedie, l’Agamennone e l’Oreste», Vita, IV, II), stesa in prosa nell’estate del 1777, fu versificata nell’autunno del ’78 e nel settembre del’81. Fu inclusa sia nel secondo volume dell’edizione senese dell’’83 che nel secondo volume della Didot del 1788.

 

FONTI

Le fonti classiche sono le stesse dell’Agamennone, di cui prosegue l’azione. Note ad Alfieri erano anche l’Electre del 1708 di P. J. Crébillon e l’Oreste del 1749 di Voltaire, ricordato nella Vita: «Nell’inverno poi [del 1777], trovandomi io in Torino, squadernando un giorno i miei libri, mi venne aperto un volume delle tragedie del Voltaire, dove la prima parola che mi si presentò fu, Oreste tragedia. Chiusi subito il libro, indispettito di ritrovarmi un tal competitore fra i moderni, di cui non avea mai saputo che questa tragedia esistesse» (IV,V).

La scena è la reggia in Argo.

Nella tragedia alfieriana, Elettra, nell’avvio notturno della tragedia, tormentata dal ricordo del padre Agamennone, spera che il fratello Oreste ne vendichi la morte. Alla madre Clitennestra Elettra rinfaccia la complicità con l’usurpatore Egisto. Clitennestra avverte dei forti complessi di colpa, ma non riesce a sottrarsi alla nefasta influenza di Egisto.

Nella conclusione, Oreste con il pugnale grondante del sangue di Egisto, scopre di aver ucciso anche la madre. Il clima generale è segnato dallo sconvolgimento mentale dei personaggi di Clitennestra e Oreste, entrambi deliranti anche se in maniera diversa.

 

FORTUNA

La tragedia alfieriana venne allestita nel carnevale del 1781 al Teatro di Foligno, in una versione rimaneggiata al punto da prevedere un lieto fine. Si ricorda l’episodio della violenta recriminazione di Alfieri, presente in scena perché di passaggio diretto a Roma e colpito dal manifesto. Come si legge in una pubblicazione coeva, «Dal palchetto piombò sul palcoscenico, irruppe furibondo tra le quinte e prese a pugni ed a calci attori e capocomico; poi, presentandosi alla ribalta, superbamente annunziò al pubblico, sorpreso per quel pandemonio: -lo sono Vittorio Alfieri -. Il pubblico lo applaudì, gli attori se la cavarono con tante scuse, e la Direzione del teatro s’affrettò a prender questa determinazione: «Il palchetto occupato da V. A. in una sera del carnovale del 1781 starà sempre chiuso a perpetua memoria, e nella città di Foligno non si darà mai più l’Oreste con lieto fine».

Nel 1782 Alfieri tenne una lettura della tragedia a Roma, a casa propria; la prima recita approvata dall’autore si tenne nel gennaio 1794 a Firenze, al Teatro Santa Maria, protagonista Antonio Morrocchesi.

Notevole fu la fortuna teatrale durante l’Ottocento: con Paolo Belli Blanes, Alberto Tessari, Gustavo Modena, Tommaso Salvini.

La fortuna del personaggio di Oreste fu affidata, in età moderna, oltre ai testi di Voltaire e Alfieri, alle pagine musicali di Cimarosa (1783), Morlacchi (1808) e C. Kreutzer (1818).

 

 

Rosmunda

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata e stesa in prosa nel 1779, venne verseggiata dapprima nel 1780 e poi fra il febbraio e il marzo del 1782.

 

FONTI

A differenza delle altre, è ambientata nell’alto medioevo, in tempi, cioè, come Alfieri annota nel Parere, «per la loro barbarie e ignoranza così nauseosi, che i loro eroi non sono saputi, né se ne vuole udir nulla». In realtà, la vicenda di Rosmunda, figlia del re dei Gepidi sconfitto e ucciso da Alboino, come si legge nella nota all’edizione critica della tragedia, «godeva di una ormai plurisecolare fortuna», dalla fonte della Historia Longobardorum di Paolo Diacono, attraverso i cinquecentisti Giovanni Rucellai, Antonio CavalIerino, Pietro Cerruti.

 

FORTUNA

La fortuna del personaggio si prolunga nel melodramma e nel poema epico, fino al teatro settecentesco, dalla Rosimonda di Giuseppe Gorini Corio ai Longobardi di Alessandro Carli.

La scena è la reggia in Pavia.

Nella tragedia, il truce banchetto durante il quale Alboino ha costretto Rosmunda a bere nel cranio del padre è già avvenuto. Rosmunda si è già vendicata e Alboino è stato ucciso da Almachilde, al quale ella si è concessa in sposa e a cui ha concesso il trono.

La tragedia si apre con lo scontro fra gli armati, capeggiati dal regicida vendicatore Almachilde, e i ribelli fedeli ad Alboino

La scena è la reggia in Pavia.

La tragedia è costruita in un crescendo di orrore, fino al finale, con le morti in scena.

 

 

Ottavia

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata nell’agosto 1779, stesa in prosa nel luglio 1780 e versificata dapprima fra il 1780-1781, poi nell’82, fu pubblicata nel terzo volume dell’edizione senese del 1785 e nella Didot dell’’88.

 

FONTI

Alfieri riprende la fonte degli Annales di Tacito (XIV, 60-64), ma non ignora anche l’Octavia attribuita a Seneca, allontanandosi da Tacito circa la morte dell’eroina, che veniva trucidata solo in un secondo momento, dopo essere stata relegata nell’isola di Pandataria.

A Tacito si rifaceva anche Racine, con il Britannicus, tragedia rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1669, pubblicata nel 1770 e ambientata in analogo contesto.

La scena della tragedia è la reggia di Nerone in Roma.

Ottavia è la figlia di Messalina e Claudio, avvelenato da Agrippina, sua seconda moglie e madre di Nerone. Questi, sposata Ottavia, è acclamato imperatore. La tragedia ha inizio nel momento in cui Nerone, dopo averla mandata in esilio, ha richiamato la moglie Ottavia, come apprendiamo dal colloquio iniziale fra Nerone e Seneca. A ragione Nerone teme per Ottavia, dal momento che Poppea, sua amante, la odia.

Nella tragedia alfieriana, Ottavia morente, dopo essersi avvelenata, esprime un’ultima difesa motale di sé, ma anche il perdono il perdono nei confronti di Nerone.

 

FORTUNA

Grandi interpreti femminili della tragedia alfieriana furono Adelaide Ristori e Assunta Nazzari, moglie di Gaetano Perotti.

 

Timoleone

COMPOSIZIONE

Terza «tragedia di libertà», dopo Virginia e La Congiura de’ Pazzi, fu ideata a Firenze nel 1779, il 21 agosto, a tre giorni dall’idea dell’Ottavia. Stesa in prosa e verseggiata dapprima nel 1780-1781, poi nel’82, fu edita nel terzo volume dell’edizione Pazzini e della Didot.

 

FONTI

La fonte è Plutarco (Vite parallele,  XXIII), di cui Alfieri acquistò una copia proprio a Firenze nello stesso anno. La tragedia rielabora, infatti, il contenuto del terzo e quarto capitolo della Vita di Timoleone.

La scena è la casa di Timofane in Corinto.

Timofane, tiranno di Corinto, figlio di Demarista è infatti fratello di Timoleone. Invano la madre vorrebbe che Timoleone gli si affiancasse nel regno, con moderazione. Echilo, cognato dei due fratelli, informa Demarista che Timofane ha fatto uccidere il suo maggior oppositore, Archida, carissimo amico di Timoleone. In un confronto con Timoleone, Timofane invita il fratello a ucciderlo. Timoleone ed Echilo sfidano Timofane ad ucciderli, ma quando Timofane afferma che essi dovranno inchinarsi al suo potere, Echilo lo trafigge. Timofane morente ordina ai soldati che accorrono di non compiere vendetta, dal momento che ama e perdona Timoleone. A Timoleone che, disperato, vorrebbe uccidersi, Echilo suggerisce di dedicarsi al bene pubblico.

 

FORTUNA

Come ricorda Lovanio Rossi, curatore dell’edizione nazionale, la tragedia fu tradotta in greco da un anonimo.

 

 

Maria Stuarda

COMPOSIZIONE

La Maria Stuarda fu ideata nel 1778 a Firenze, per «suggerimento e soddisfazione dell’amata», Luisa Stolberg contessa d’Albany. Nella dedica, scritta molto probabilmente nei giorni successivi alla morte di Carlo Stuart, marito dell’Albany, mai pubblicata, ma prevista in apertura della seconda versificazione del 1782, Alfieri si rivolge alla Stolberg: «Maria Stuarda infelice Donna più volte udii compianger da voi; dell’appostale uccision del marito scolparla per quanto io ‘l seppi mi piacque in questa Tragedia ch’a voi dedico espressamente».

Stesa in prosa nel ’79, fu versificata nel 1780 e nel 1782. Non compresa nell’edizione senese, fu stampata nel terzo volume della Didot, nel 1788. Come la critica ha sottolineato, si tratta forse di una «fra le meno belle delle tragedie alfieriane».

 

FONTI

Fra le fonti, si ricorda l’History of England di David Hume; fra i precedenti, La Reina di Scotia di Federico Della Valle, del 1628. Il personaggio di Maria Stuart, condannata a morte innocente con l’accusa di aver complottato contro la vita di Elisabetta e, in realtà, colpevole di aver istigato all’assassinio del primo marito, è presente anche nelle pagine di altri autori, nell’Ecossaise ou Marie Stuart del 1605 di A. de Montchrétien; nella Corona tragica, vida y muerte de la Serenissima Reina de Escocia del 1627 di Lope de Vega.

 

La scena è la reggia di Maria a Edimburgo.

Alfieri si sofferma sulla morte di Enrico Stuart, conte di Darnley, chiamato Arrigo nella tragedia, definito da Alfieri «imprudente, inetto, irresoluto, ingrato, mutabile», secondo marito di Maria Stuart, cattolica, da questa sposato nel 1565, dopo il ritorno in Scozia successivo alla morte, nel ’60, a due anni dal matrimonio, del primo marito, Francesco II di Valois-Angouleme, delfino di Francia

Altri personaggi sono: Lamorre, ovvero il conte di Murray, definito da Alfieri «prete verace, onesto, ardito e caldo», rappresentante del protestantesimo scozzese; Ormondo, ambasciatore della regina Elisabetta Botuello, ovvero James Hepburn, conte di Bothwell, «astuto e ambizioso», processato e assolto dopo la morte di Darnley, nel 1567 unito in matrimonio a Maria, ma rifugiatosi in Danimarca, dove fu imprigionato, impazzì e morì, quando Maria riparò in Inghilterra. Lamorre dà alla regina la notizia della morte di Arrigo e accusa Botuello dell’omicidio. La tragedia si allontana dalla realtà storica, pur mantenendo sullo sfondo lo scontro fra Cattolici e Protestanti (Maria viene accusata di aver tramato per uccidere  la regina Elisabetta d’Inghilterra).

 

FORTUNA

Fu successiva ad Alfieri la tragedia di Schiller, composta fra il 1799 e il 1800 e pubblicata nel 1801, rivolta, in particolare, al momento della morte della regina.

Fra le riprese successive si ricordano la Mary Stuart del 1881 di A. Ch. Swinburne. Celebre l’opera di Donizetti, Maria Stuarda, del 1834.

 

La Congiura De' Pazzi

COMPOSIZIONE

La tragedia fu ideata in un giorno, il 4 giugno 1777, e versificata successivamente nel 1779, con ritocchi nel’’80 e ’81. Fu pubblicata nel terzo volume della Didot, nel 1789.

Molto stretto è il rapporto con il trattato Della tirannide, che ne anticipa di poco i concetti fondamentali,

 

FONTI

Alfieri si rifà al settimo e ottavo libro delle Istorie fiorentine di Machiavelli, lette, su suggerimento dell’amico Francesco Gori Gandellini, durante il soggiorno senese di quell’anno.

Nell’idea, i nomi dei due Pazzi, padre e figlio, sono Jacopo e Francesco, come in Machiavelli, ma senza rispettare il rapporto di parentela di zio e nipote, mentre nelle successive versificazioni essi diventano Guglielmo e Raimondo.

 

La scena è il palazzo della Signoria in Firenze.

Raimondo de’ Pazzi, marito di Bianca, sorella di Lorenzo e Giuliano de’ Medici, insofferente del dominio dei cognati in Firenze, nonostante i consigli di prudenza di suo padre Guglielmo, intende riconquistare alla città la libertà. Prende forma l’idea di una congiura, a cui aderisce anche l’arcivescovo Salviati.

Negli ultimi istanti della tragedia, Raimondo si è colpito a morte. Fuori scena cresce il tumulto. Giunge Lorenzo, che Salviati non è riuscito a ferire seriamente; Guglielmo è in catene e Lorenzo lo manda a morte. Giuliano è morto; Salviati è stato ucciso. Raimondo si uccide con il pugnale e Lorenzo rimane vincitore tra la sorella Bianca e Guglielmo destinato alla pena capitale.

 

Don Garzia

 

COMPOSIZIONE

È la seconda delle due tragedie medicee di Alfieri, anteriore di dieci mesi a La Congiura de’ Pazzi nell’ideazione, ma di poco successiva nella stesura, e nella prima versificazione, a poco più di tre mesi. La tragedia fu composta il 3 agosto 1776.

 

FONTI

Alfieri rammenta nella Vita (IV, II) di aver udito raccontare, durante il soggiorno fiorentino di quell’anno, «l’aneddoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo Primo» e di esserne

rimasto così colpito da procurarsene un estratto di archivio, prima di ideare la tragedia.

 

La scena è il palazzo di Cosimo in Pisa.

Cosimo de’ Medici interroga i figli sul modo di liberarsi di un odiato oppositore, Salviati. Diego, il maggiore, suggerisce la condanna a morte; Garzia, che ama Giulia, la figlia di Salviati, il perdono; Piero l’elevazione di Salviati a un grado tale che ne provochi la rovina. Cosimo loda Diego e Piero e rimprovera aspramente Garzia.

Nello scontro, Diego mette mano alla spada, ma Piero lo trattiene.

Quando, nel terzo atto, Garzia si presenta al padre per ottenerne il perdono, questi lo accusa di tradimento e gli ordina, per dimostrare la sua innocenza, di uccidere Salviati. Nel quarto atto, Piero ordisce l’inganno, dicendo a Diego che Garzia si incontrerà in una grotta con Salviati per strappargli il potere. Induce Diego a nascondersi nella grotta per sorprendere Garzia. Questi giunge armato di pugnale nella grotta.

Nel quinto atto, Garzia mostra gli abiti insanguinati; Cosimo lo accusa di non aver ucciso Salviati, ma il fratello Diego. Garzia si lascia uccidere dal padre, ma rivela le responsabilità del fratello Piero. Cosimo, sconvolto, fra il figlio appena ucciso e la moglie svenuta, resta solo in scena in un quadro amplificato di orrori familiari.

 

Saul

COMPOSIZIONE

La tragedia, ideata il 30 marzo 1782, versificata alla fine di luglio dello stesso anno, fu stampata nell’edizione Didot. Si trattò della «decima quarta» tragedia, e avrebbe dovuto essere l’ultima.

Saul compare in scena nel secondo atto: è l’alba ed egli ricorda la sua giovinezza gloriosasi dibatte fra tormenti e sospetti, in una tragedia del dissidio interiore, che fonde nel personaggio del protagonista la dialettica che, nelle tragedie precedenti, contrapponeva personaggi diversi e opposti.

 

FONTI

Nella Vita (IV,IX), Alfieri ricorda: «mi era dato assai alla lettura della Bibbia, ma non però regolarmente con ordine. Bastò nondimeno perch’io m’infiammassi del molto poetico che si può trarre da codesta lettura».

Oltre alla fonte del Libro primo dei Re (12-31), corrispondente al primo Libro di Samuele, si ricorda una fonte francese, il Saul di Agostino Nadal, e una inglese, La cura di Saule di John Brown, secondo la versione di F. Corsetti, oltre a l’Athalie, tragedia biblica di Racine.

 

FORTUNA

Alfieri lesse con successo la tragedia durante il soggiorno romano, nell’aprile del 1783, all’Accademia degli Arcadi, e la interpretò ripetutamente negli anni 1793-1795. A giugno del ’95, a Pisa, interpretò Saul per l’ultima volta.

Antonio Morrocchesi la rappresentò a Firenze nel gennaio del 1794, al Teatro di Santa Maria, e ne parlò nelle sue Memorie, ritenendola un’opera non rappresentabile. Tuttavia, ebbe sedici repliche e la quinta sera vi assistette lo stesso Alfieri. La tragedia fu interpretata, nel corso dell’Ottocento, da Paolo Belli Blanes con la Compagnia Reale Italiana; da Luigi Gattinelli, a Torino, al Carignano; da Gustavo Modena, nella parte di Saul e Tommaso Salvini in quella di David, a Milano, al Teatro Re.  In seguito Salvini impersonò più volte Saul, sempre a Milano, al Teatro Carcano, ma anche a Palermo e ad Asti e Torino, nel 1903. Da ricordare la rappresentazione di Varsavia del 12 novembre 1809 e quella di Weimar, organizzata da Goethe, nell’aprile 1811.

Notevole fu la fortuna della tragedia nelle riduzioni musicali. Bonifazio Assioli da Correggio mise in musica i canti di David (III, 248-387) per il tenore La Cainea. All’esecuzione, in un’Accademia privata di Firenze, partecipò anche Alfieri, che pregò La Cainea di «far aggradire ad Asioli i sentimenti del suo pieno soddisfacimento».

Il personaggio di Saul ritorna nel 1821 a Venezia, ad opera di Luigi Antonio Calegari, e, in prima assoluta, il 21 giugno 1830, grazie  a Carolina Uccelli, alla Pergola di Firenze.

 

 

La scena è il campo degli Israeliti, in Gelboè, presso la pianura di Esdrelon in Palestina.

Micol, figlia di Saul, è sposa di David, al quale Samuele ha profetizzato un destino da re e verso il quale Saul prova sentimenti contrastanti.

Quando David fa riferimento alla propria vittoria sui Filistei, Saul reagisce, mettendo mano alla spada, trattenuto dai figli Gionata e Micol, mentre David si allontana.

Nel quarto atto, mentre Saul è ossessionato dal pensiero che David conquisti il potere, Achimelech lo rimprovera di essersi allontanato da Dio. Saul ordina ad Abner di uccidere Achimelech e sterminare i sacerdoti e le loro famiglie, poi scaccia i figli.

Nel quinto atto, Micol parla con David, nascosto in una grotta, del massacro. David dissuade Micol

dal seguirlo e fugge. Micol ode in lontananza il fragore della battaglia, poi incontra il padre, in preda al delirio: Saul si sente minacciato dall’ombra di Achimelech, invoca la morte da David, vuole morire in battaglia. Abner giunge con la notizia della sconfitta militare e della morte di Gionata. della morte di Gionata. Saul gli affida Micol, perché sia posta in salvo.

Nel suo ultimo disperato monologo, Saul rimasto solo parla rivolto alla sua spada con cui sta per suicidarsi.

 

Agide

COMPOSIZIONE

A due anni di distanza dal Saul, nonostante il proposito di chiudere la propria attività di poeta tragico con la quattordicesima tragedia, Alfieri inizia a lavorare all’Agide. Ai primi di agosto del 1784 raggiunge l’Albany a Colmar: dopo quindici giorni di soggiorno con l’amata dice di sentirsi «di bel nuovo interissimo di animo di cuore e di mente» e riprende la sua attività creativa. La sera del 30 agosto nascono, «quasi ad un parto», Agide, Sofonisba e Mirra.

La stesura, iniziata il 14 dicembre dello stesso anno a Pisa, si protrasse per tutto il 1785 e fu terminata il l0 dicembre. Particolare attenzione Alfieri dedica al personaggio di Leonida, che, nei suoi rapporti con la figlia e il genero, ripete, in un certo senso, la situazione di Saul.

 

Oltre ai protagonisti (Agide, già sovrano di Sparta e genero di Leonida; Leonida, sovrano di Sparta; Agesistrata, madre di Agide; Agiziade, figlia di Leonida e sposa di Agide; Anfare, eforo), Alfieri prevede la presenza in scena di molte comparse: efori, senatori, popolo, soldati di Leonida.

 

Mirra

COMPOSIZIONE

La tragedia fu ideata 1’11 ottobre 1784. La stesura in prosa è da collocare dal 24 al 28 dicembre del 1785, la prima versificazione nell’estate del 1786, la stampa parigina nel 1789.

 

FONTI

Nelle pagine della Vita (IV, XIV), Alfieri ammette l’originalità del soggetto: «A Mirra non avea pensato mai; ed anzi, essa non meno che Bibli, e così ogni altro incestuoso amore, mi si erano sempre mostrate come soggetti non tragediabili». Indica la propria fonte: «Mi capitò alle mani  nelle Metamorfosi di Ovidio quella caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice, la quale mi fece prorompere in lagrime, e quasi un subitaneo lampo mi destò l’idea di porla in tragedia».  Oltre al rapporto con Ovidio (X, 298-518), si è indagato su un possibile legame con la Phèdre di Racine (1677). Alfieri la definisce «toccantissima ed originalissima tragedia», consapevole della complessità della materia: «tutte le orribili tempeste del cuore infuocato ad un tempo e purissimo della più assai infelice che non colpevole Mirra».

A differenza di quanto avviene nelle fonti, la Mirra di Alfieri, per la profondità di introspezione  delle angoscianti fluttuazioni dell’animo della protagonista, incarna il dissidio colpa-innocenza, nel  tormento indicibile rappresentato dalla misteriosa passione di Mirra per il padre Ciniro, fra  reticenze e negazioni.

 

FORTUNA

Alfieri lesse più volte pubblicamente la tragedia, negli ultimi anni della sua vita, durante il soggiorno fiorentino. Massimo d’Azeglio, ne I miei ricordi, lasciò il racconto di una di queste letture a Firenze.

Fu una delle tragedie di maggior successo nel corso dell’Ottocento. La messinscena fiorentina del 1800-1802 da parte della Compagnia Reale Italiana ottenne l’approvazione dell’autore; nel 1819 a Bologna, all’Arena del Sole, Byron pianse assistendo a una recita della Mirra.

La interpretarono con successo Carlotta Marchionni nel 1823; Antonietta Robotti nel ’44 al Carignano di Torino; Giuseppina Aliprandi nel ’43 in molti teatri d’Italia; Adelaide Ristori nel ’46 al Teatro Metastasio di Roma, con scarso successo. Sempre la Ristori la portò a Madrid dopo il 1850 e ottenne un trionfo nel ’54, al Teatro Valle di Roma, e a Parigi, nel ’55, con Ernesto Rossi.

Si ricordino ancora, nel corso dell’Ottocento, le interpretazioni di Giacinta Pezzana a Napoli e Adelaide Tessero a Torino, Milano, Firenze.

Nel 1902 andò in scena con musiche di Domenico Alaleona, che compose lo spartito utilizzando il testo degli ultimi due atti come libretto.

 

La scena è la reggia di Cipro.

Mirra manifesta  a Euriclea il suo desiderio di morte, senza poter, tuttavia, confessare il suo dramma.

Nel IV atto si svolge la cerimonia delle nozze. Mirra inizia a tremare, vaneggia, si crede perseguitata alle Furie. Pereo, nella battuta conclusiva, si allontana, liberandola da ogni vincolo.

La protagonista arriva ad accusare la madre di essere la causa della sua sofferenza, ma, chiedendole perdono, oscuramente afferma la propria innocenza.

Negli ultimi istanti della tragedia. Ciniro informa Mirra che Pereo si è ucciso, e la accusa di amare un altro. Mirra ammette di essere innamorata, disperatamente e invano, di un amore inconfessabile e, ormai stremata, si tradisce dichiarandosi invidiosa della madre che potrà almeno morire accanto a lui. Quando Ciniro intuisce, Mirra gli strappa la spada e si trafigge. Ciniro, ormai consapevole, si allontana inorridito, conducendo con sé la moglie. Mirra pronuncia le ultime parole prima di morire con la sola compagnia della pietosa Euriclea.

 

Bruto Primo

COMPOSIZIONE

La tragedia fu scritta nel giro di pochi giorni, «d’un lampo», a breve distanza dal Bruto Secondo,  «ad un parto»: ideata e stesa in prosa nel 1786, versificata nel 1787, pubblicata a Parigi nel 1789.

 

FONTI

La fonte è Livio, Ab urbe condita  (I, 56-60; II, 1-4). Il soggetto è presente anche in Julius Caesar di Shakespeare; La mort de César (1735) e il Brutus di Voltaire.

 

FORTUNA

Fu rappresentata a Firenze nel 1794, in una recita privata organizzata dallo stesso Alfieri, e nel ’97,  a Venezia, nel teatro di San Giovanni Grisostomo.

Con il Bruto Secondo, Timoleone e Virginia ebbe molta fortuna durante il triennio giacobino.

 

La scena è il Foro di Roma.

All’alba, Collatino è disperato, vorrebbe uccidersi, ma Bruto vuole che si sappia che sua moglie, violentata dal figlio del re, si è suicidata. Vuole rovesciare la tirannide dei Tarquini. Il popolo si riunisce nel Foro e il corpo di Lucrezia viene portato in scena.

Mamilio ha informato i due figli di Bruto, Tiberio e Tito, di una congiura dei patrizi a favore di Tarquinio: per salvarsi, essi dovrebbero convincere Bruto della pericolosità dell’alleanza con la plebe. Mamilio, inoltre, li convince a firmare una lista che reca i nomi di tutti i giovani patrizi, con la promessa che questo serva a salvare il padre.

Sorpresi da Collatino con numerosi soldati, Tiberio e Tito vengono in seguito arrestati. Bruto, sconvolto, scopre i nomi dei figli fra i congiurati.

Il Foro è affollato, all’alba, di popolo, senatori e patrizi. Collatino, turbato, denuncia i congiurati, cercando attenuanti nella loro giovane età. Il popolo vuole conoscerne i nomi e chiede la condanna a morte. Nel silenzio, Bruto denuncia i figli. I congiurati non si discolpano. La richiesta della pena di morte da parte di Bruto cade nel silenzio. Mentre Tito cerca di discolpare il fratello minore Tiberio, Bruto insiste per la condanna alla decapitazione, benché Collatino interceda e il popolo, commosso, sia disposto a perdonare. Di fronte all’alternativa di condannare tutti o salvare tutti, Bruto intende dare un memorabile esempio. Affida a Collatino l’esecuzione della sentenza, chiede di volgere le spalle, ma ordina ai romani di guardare.

Bruto Secondo

COMPOSIZIONE

La tragedia fu ideata nell’aprile 1786, stesa in prosa fra la fine di novembre e i primi di dicembre dello stesso anno, versificata nel novembre-dicembre 1787.

 

FONTI

Si rimanda alle stesse fonti del Bruto Primo. Alfieri dovette avere presente anche il Giulio Cesare (1726) e il Marco Bruto (1744) di Antonio Conti.

 

FORTUNA

Pubblicata a Parigi nel 1789, la tragedia venne rappresentata con grande successo nel ’99 a Napoli, al Teatro del Fondo, con l’interpretazione di Paolo Belli Blanes. Da ricordare una rappresentazione al Carignano di Torino nel 1848 con Luigi Taddei. Fu uno dei testi preferiti di Ernesto Rossi.

Per la fortuna della figura di Cesare, si ricordino anche lo Julius Caesar di Shakespeare (tragedia rappresentata nel 1599 al Globe Theatre di Londra); la Morte di Cesare del 1743 di Voltaire; il Cesare, frammento drammatico del 1774 di Goethe. Notevole anche la fortuna musicale: fra altri,si ricordino Schumann (1850) e Malipiero (1936).

 

La scena è il Tempio della Concordia, poi la Curia di Pompeo, in Roma.

In una prima lunga scena, che si identifica con il primo atto, ai senatori nel Tempio della Concordia, Cesare annuncia la sua intenzione di muovere contro i Parti, per vendicare la sconfitta di Crasso. Cimbro, alleato di Cassio e Cicerone, vuole che prima si pensi alla situazione italiana; Antonio accusa di tradimento chiunque si opponga a Cesare; Bruto dichiara di non provare né odio né amore per Cesare, e lo sfida a porsi come oppressore o liberatore della patria. Antonio vorrebbe reagire, ma Cesare convoca i senatori in curia.

Cassio propone di trucidare Cesare, mentre Bruto spera di indurlo ancora ad essere custode delle leggi. Nel caso in cui non riesca in questo intento, giura di ucciderlo. Antonio spinge Cesare a sopprimere gli oppositori, ma questi ha scelto gli strumenti della persuasione e desidera farsi amico Bruto, che tanto ammira. Bruto scongiura Cesare di tornare semplice cittadino, ma Cesare, commosso, chiede il tempo per portare a compimento l’impresa contro i Parti, dopo di che gli affiderà il compito di restaurare la libertà. A Bruto sconcertato, Cesare rivela di essere suo padre. Tuttavia, Bruto gli rinnova la richiesta di rinunciare al potere.

Il senato si riunisce. Bruto annuncia che Cesare ha deciso di tornare semplice cittadino e rivela anche di essere suo figlio. Cesare lo interrompe  e gli conferma che sta per partire contro i Parti, dichiarando nemico della patria chiunque non riconosca il suo potere. Al momento dell’assassinio, Bruto estrae il pugnale, ma Cimbro e Cassio lo precedono. Il popolo irrompe nella Curia, mentre Bruto, che non ha colpito Cesare, proclama Roma libera dal tiranno e incitando  a recarsi in Campidoglio per liberarlo dai seguaci di Antonio.

 

 

Sofonisba

COMPOSIZIONE

L’idea della Sofonisba nacque «quasi… per forza… ad un parto»  con quelle di Agide e Mirra, dopo il ricongiungimento di Alfieri con l’Albany a Colmar, nell’agosto 1784. Anche la stesura risale al 1785, come per le altre due tragedie. La prima versificazione fu composta nel giugno-luglio 1786, ma, nel marzo ’87, come si legge nella Vita (IV, XVII), il testo fu gettato nel fuoco, in uno scatto d’ira. L’episodio divenne il soggetto del dipinto del Biscarra, di proprietà della Fondazione Centro Nazionale di Studi Alfieriani, esposto nel  salone di Palazzo Alfieri. La versificazione definitiva risale al 7-25 maggio dello stesso anno.

 

FONTI

La fonte è in Livio, Ab urbe condita (XXX, 12-15), benché Alfieri potesse conoscere nell’originale o in versione anche i testi di Polibio, Diodoro Siculo, Silio Italico, Appiano, Dione Cassio, così come la Vita di Scipione di Donato Acciaioli e l’Histoire romaine del Rollin del 1738, senza contare il Petrarca dell’Africa (V, l-773) e del Trionfo d’Amore (II, 5-87) e il Trissino della tragedia omonima, pubblicata nel 1524.

Sofonisba, figlia di Asdrubale, regina cartaginese, «D’odio imbevuta in un col latte, e d’ira, / Contro a Roma», come sottolinea Lovanio Rossi, curatore dell’edizione nazionale del testo, «così in risalto nel racconto liviano, sta al centro della tragedia in un aspro contrasto di onore-amore». A un alto «grado di magnanimità» si collocano pure gli altri protagonisti, Siface (re di Cirta e marito di Sofonisba), Massinissa, Scipione.

 

La scena è «il campo di Scipione in Affrica».

La tragedia inizia con il monologo di Siface, fra centurioni romani, «vinto, prigioniero, privo, e innamorato di Sofonisba», come annota Alfieri nell’idea.

Il secondo atto vede avverarsi il timore espresso da Scipione che Sofonisba abbia fatto ricorso a Massinissa nel campo dei soldati numidi. Massinissa crede Siface morto in battaglia e vedova Sofonisba, alla quale chiede di sposarlo, dichiarandole il suo amore. All’arrivo di Scipione, Sofonisba si ritira: Scipione si complimenta con Massinissa per la vittoria, gli rivela che Siface è vivo e che è al corrente del suo amore per la figlia di Asdrubale e lo mette in guardia circa la pericolosità della sua passione. Alla scoperta che il marito è vivo, Sofonisba rinnova l’impegno di seguirlo, mentre Scipione manifesta la sua alta ammirazione. Quando Sofonisba e Massinissa si incontrano nuovamente,  Massinissa è disposto a tutto per amore e si offre di facilitare la fuga e quindi la salvezza dei due prigionieri, mentre Siface decide di cedere Sofonisba a Massinissa.

Dopo il suicidio di Siface. Sofonisba rifiuta di mettersi in salvo, fuggendo dal campo romano, e chiede del veleno per morire., Nell’ultima scena, Scipione chiede invano di essere ucciso da Massinissa, disperati  condannati a sopravvivere.

 

 

Antonio e Cleopatra

COMPOSIZIONE

Si tratta della prima tragedia composta da Alfieri, parzialmente ancora scritta in francese, iniziata probabilmente (come si legge nella Vita, III,XIV) durante una malattia dell’«odiosamata» Gabriella Falletti di Villafalletto, nel 1773 o ’74 .

Si può ritenere che nell’aprile del ’75 la Cleopatra fosse finita (la versificazione completa, o Cleopatra seconda, ebbe inizio nel gennaio di quell’anno) e stesse per essere rappresentata al Carignano. È da rifiutare, secondo Sterpos, curatore dell’edizione nazionale, il racconto della Vita, secondo cui la tragedia sarebbe stata ripresa solo all’inizio del ’75, dopo essere stata «in macero quasi che un anno» sotto il cuscino della Prié.

Si sa, invece, che già a maggio, a tragedia ultimata, Alfieri compose la farsetta I Poeti, da mettere in scena con la tragedia. Fondamentale, attraverso le varie stesure, l’abbandono della cosiddetta atmosfera metastasiana iniziale, a vantaggio di situazioni di più forte tragicità.

La tragedia fu pubblicata per la prima volta a Firenze nel 1804 dal tipografo Piatti, fingendola pubblicata a Londra. Alfieri non la incluse né nell’edizione Pazzini, né nella Didot.

 

FONTI

Fra le fonti, si ricordino le Vite parallele di Plutarco e, in particolare, le biografie di Demetrio e Antonio, molto note ad Alfieri, il quale non cita la Pharsalia di Lucano, né Svetonio, né Velleio Patercolo, né l’Ode XXXVII di Orazio, né Dante o, fra i moderni, Giraldi Cintio, autore di una Cleopatra, ma sicuramente conobbe l’Antony and Cleopatra di Shakespeare, composta nel 1606-1607, recitata nel 1623 e pubblicata a un secolo di distanza, e un’altra Cleopatra, quella del cardinale Giovanni Delfino.

 

FORTUNA

La fortuna del personaggio di Cleopatra è confermata anche dalla presenza in ambito musicale, si pensi almeno al Giulio Cesare in Egitto, opera in tre atti di G. F. Haendel, su libretto di Nicola Francesco Haym (che tradusse un libretto del Bussano), rappresentata per la prima volta al King’s Theatre di Londra nel 1724. Il personaggio di Cleopatra è affidato a una voce di soprano.

La tragedia alfieriana fu recitata a Torino, al Teatro Carignano, l’11 giugno 1775.

 

La scena è in Alessandria nella Reggia di Cleopatra.

Il primo atto si apre con il dialogo fra Ismene e Cleopatra, che rivela le passioni che la tormentano, fra visioni, rimorsi, dubbi, ambizioni, sete di potere, pensieri di morte. Intervengono poi Diomede, ministro di Cleopatra e Canidio, fedele di Antonio, a tracciare il resoconto della vicenda di Antonio, al quale sono legati i temi del tradimento, della guerra e della sconfitta.

Nel monologo dell’atto I, scena IV, oscillante fra la ricerca del vero e la resa al destino, all’apparire dell’ombra di Antonio, Cleopatra, “Pallida… minacciante, ed assetata / Abbeverar si vuol di sangue infido”.

Nell’atto secondo, Antonio esprime il proprio conflitto interiore. Nell’atto III, in un dialogo fra Cleopatra e Ismene, si ha notizia dello sbarco di Augusto; poco dopo entra in scena Antonio, pronunciando parole di vendetta contro Cleopatra. Narra del tradimento della flotta e invita Cleopatra ad uccidersi. Antonio che ammette gli errori compiuti per amore, nega il valore della vittoria di Augusto, mentre questi lo invita a lasciare l’Egitto. Antonio ribadisce il suo amore per Cleopatra ed esprime la paura che Cleopatra vada a Roma al trionfo di Augusto, considerato «reo Tiranno».

Nel quarto atto, invece, Cleopatra manifesta la speranza di avvincere a sé Augusto, negando di amare ancora Antonio. Alla reazione violenta di Antonio, segue la sua scelta di morire.

 

Abele

COMPOSIZIONE

L’elaborazione dell’Abele, dall’idea alla copia di Montpellier, abbraccia l’arco di circa quattordici anni. Secondo De Bello, curatore dell’edizione nazionale, come Agide, anche Abele è “figlio degenere” di Saul, per il tema biblico, perché la figura di Adamo rimanda a quella di David.

L’idea è datata «Roma, 5 Ottobre 1782», con il titolo «Caino / Tragedia / musicale». La stesura occupò il poeta a Martinsbourg dal 27 gennaio al 23 febbraio 1786. La versificazione fu iniziata a Parigi il 6 novembre 1790 e terminata a Parigi il 24 dicembre dello stesso anno, ma riletta nel ’92. Nel ’96, Alfieri riprese in mano il lavoro con «furore irresistibile». Dopo due altre copie, il titolo risulta mutato nel 1799, in  Abéle / tramelogedia / sola, ammissione, da parte del Poeta, che il nuovo genere non avrebbe avuto seguito e che gli analoghi Ugolino e Scotta sarebbero rimasti abbozzi.

Escludendo l’Abele dall’edizione Didot, Alfieri annotava nella Vita (IV,XX): «di quelle tramelogedie, di cui doveano essere sei almeno, non vi potei mai aggiungere nulla alla prima, l’Abele; e sviato poi da tante cose, perdei il tempo, la gioventù, il bollore necessario per una tale creazione, e non lo ritrovai mai più».

Nella Prefazione dell’Abele, Alfieri tenta di precisare ciò che il testo non è: non tragedia «poich’ella pecca contro varie delle principali regole di un tal genere»; non commedia, per l’antichità dei personaggi, le peripezie, la catastrofe tragica; non dramma né tragicommedia né greca tragedia, ma «opera tragedia», perché «tragedia mista di melodia e di mirabile», tanto da richiedere «due ben distinte Compagnie, l’una di attori Tragici, l’altra di Cantanti», e tale da piacere «facilmente al volgo».

 

FONTI

Le figure di Caino e Abele furono tratte dalla Genesi.

 

FORTUNA

La presenza teatrale del soggetto è confermata anche dal Caino, tragedia in tre atti di Byron del 1821, dedicata a Sir Walter Scott, definita «mistero» e concepita a ripresa del racconto biblico del Paradiso perduto di Milton. Il Caino di Byron, in particolare, fu ammirato da letterati come Goethe, Shelley, Scott, ma per la sua empietà non ebbe fortuna scenica.

 

La scena, come annota Alfieri, «varia quasi ad ogni Atto»: reggia di Lucifero; Capanna d’Adamo; ancora Capanna d’Adamo, di notte; Vasta campagna; ancora Vasta Campagna.

I personaggi si dividono in «fantastici», che pronunciano versi «lirici e rimati, sempre o a recitativo o ad arietta» (La voce d’Iddio, Lucifero, Belzebù, Mammona, Astarotte, il Peccato, l’Invidia, la Morte, Coro d’Angeli, Coro di Demonj) e «tragici», che «recitano in versi sciolti» (Adamo, Eva, Caino, Abéle).

 

 

 

 

Alceste Seconda

COMPOSIZIONE

L’ideazione avvenne in un giorno, suggellata con la scritta «d’un getto pensata e scritta», con la data «Firenze 26 Settembre 1796» e l’annotazione «pieno tutto di dolce malinconia». La stesura, iniziata il 7 ottobre 1797, al rientro da una passeggiata alle Cascine, fu ripresa «con furore maniaco e lagrime molte» il 22 maggio 1798. L’autore chiuse lo scritto con la nota: «Ultima scintilla d’un volcano che presso è a spegnersi». Dal 30 settembre al 21 ottobre 1798 ebbe luogo la versificazione.

 

FONTI

Nelle pagine della Vita (IV, XXVI), Alfieri rammenta la lettura di Omero, Eschilo, Sofoc1e, Euripide e, in particolare, giunto all’Alceste, la propria scritta «su un fogliolino»: «Firenze 18 Gennajo 1796. Se io non avessi giurato a me stesso di non più mai comporre tragedie, la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato e infiammato che così su due piedi mi accingerei

caldo caldo a distendere la sceneggiatura d’una nuova Alceste».

Segue l’elenco dei personaggi: “Alceste – Admeto – Eumelo figlio di Admeto – Feréo, padre d’Ameto – ed Ercole per disciorre il nodo, e far il miracolo della risuscitazione di Alceste, […]. Coro di Donne Feree”.

 

FORTUNA

Alfieri ricorda come, il 2 dicembre 1798, «la lessi come traduzione di quella di Euripide, e chi non l’avea ben presente, ci fu colto fin passato il terz’atto; ma poi chi se la rammentava svelò la celia, e cominciatasi la lettura in Euripide, si terminò in me». Alla lettura pubblica seguì una rilettura personale il 7 marzo 1799.

Un’altra «dotta celia letteraria» consistette nell’invitare il Caluso, nell’estate del 1800, a tradurre in greco alcuni versi della tragedia.

La fortuna della figura di Alceste è testimoniata, oltre che dal testo di Alfieri, da quello incompleto di Racine e dalle Alcesti di A. Hardy (1624) e di J. Richter (1806), come dal rifacimento in versi martelliani del testo euripideo da parte di Pier Jacopo Martello e dalle versioni musicali, fra gli altri, di G. B. Lulli (1674), G. F. Handel (1749), G. W. Gluck (1767), A. Elwart (1847).

 

SITUAZIONE

La scena è la reggia di Feréo in Fere, Capitale della Tessaglia.

I personaggi sono Feréo, padre di Admeto; Admeto; Alceste, sposa di Admeto; Eumelo, figlio di Admeto; Ercole; coro di matrone Tessale, fanciulla di Admeto e ancelle d’Alceste, che non parlano. Il primo atto vede la preghiera di Feréo ad Apollo per la salvezza del figlio Admeto (I, I); l’incontro di Feréo con AIceste, che gli garantisce la salvezza di Admeto, in cambio di se stessa, immolandosi come vittima; un brevissimo monologo di Feréo e l’intervento del coro.