Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto | National Geographic

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

In occasione dell'anniversario della liberazione del campo di concentramento, ricordiamo la tragica storia di Edith Grosman che arrivò ad Auschwitz nel marzo 1942.

DI Heather Dune Macadam

pubblicato 18-01-2024

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

Due delle cinque ragazze in questa foto - scattata a Humenné, in Slovacchia, intorno al 1936 - sono note per essere state inviate ad Auschwitz, in Polonia, il 25 marzo 1942, durante il primo trasporto ufficiale di ebrei nel campo di sterminio. Né Anna Herskovic (seconda da sinistra) né Lea Friedman (quarta da sinistra) sopravvissero.

FOTOGRAFIA DI FAMIGLIE GROSMAN E GROSS (PER GENTILE CONCESSIONE)

PODRAD, SLOVACCHIA - Il 27 gennaio 1945 furono aperte le porte a circa 6.000 prigionieri. Pochi giorni prima, i nazisti avevano costretto quasi 30.000 reclusi a partire a piedi nel bel mezzo di una tormenta.

I soldati sovietici liberarono Auschwitz trovando 7000 prigionieri scheletrici, 4.000 dei quali donne e centinaia di morti abbandonati. Nelle successive settimane, altre centinaia non ce l’avrebbero fatta a causa di fame o malattia. In occasione del Giorno della Memoria, ricordiamo la storia di forza e coraggio di Edith Grosman. 

“Abbiamo aperto e chiuso Auschwitz”, commenta Edith sul suo calvario in un'intervista del 2020. Il tutto iniziò quando lei e più di 900 altre giovani donne slovacche, molte delle quali adolescenti, salirono a bordo del primo trasporto ebraico ufficiale verso il campo nel 1942. Per molte di loro finì in quella marcia forzata, ma Edith ebbe la fortuna di sopravvivere fino all'armistizio dell’8 maggio 1945.

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

Questa foto dei bambini Friedman è stata scattata a Humenné intorno al 1936. Da sinistra a destra: Herman, Edith, Hilda, Ruthie, Lea e il più giovane, Ishtak.

FOTOGRAFIA DI FAMIGLIE GROSMAN E GROSS (PER GENTILE CONCESSIONE)

“Una mattina ci siamo svegliate”, dice Edith, “e abbiamo visto un annuncio incollato sulle facciate delle case che recitava che tutte le ragazze ebree non sposate, dai 16 anni in su, sarebbero dovute andare a scuola il 20 marzo 1942 per lavoro”.

Edith Friedman, allora diciassettenne, sognava di diventare un medico; Lea, sua sorella di 19 anni, voleva diventare avvocato. Ma quelle aspirazioni erano state già deluse due anni prima quando la Germania di Hitler aveva annesso la Slovacchia. Il governo collaborazionista della Repubblica Slovacca aveva iniziato ad attuare drastiche leggi contro gli ebrei, tra cui la revoca del loro diritto all'istruzione oltre i 14 anni. “Non potevamo nemmeno avere un gatto”, dice Edith incredula alzando le sopracciglia.

Edith fa una pausa, poi sospira profondamente al ricordo di quell'editto. “I miei genitori avevano due ragazze pronte per andare”. Sua madre, Hanna, si ribellò, ricorda Edith. “Disse: ‘È una cattiva legge!” Ma i funzionari della loro città, Humenné, avevano assicurato ai genitori preoccupati che le loro ragazze avrebbero lavorato come "volontarie a contratto" in una fabbrica per produrre stivali per le truppe. Così Hanna mise in borsa le misere cose delle sue figlie e le mandò fuori dalla porta per farle registrare come parte di questa nuova forza lavoro femminile. Pensava che sarebbero tornate a pranzo.

Edith riconobbe la maggior parte delle circa 200 giovani donne, molte anche adolescenti, che erano in fila. “Humenné era una grande famiglia, tutti si conoscevano”, dice. Funzionari e personale militare locale presiedettero al controllo, ma tra loro c'era un uomo in uniforme delle SS, lo Schutzstaffel (Squadra di protezione). “Ho pensato che fosse strana la presenza di una SS lì”, dice Edith.

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

Delle nove ragazze ebree in questa foto di classe nella loro scuola di Humenné, solo tre sono sopravvissute all'Olocausto. Edith Friedman è la seconda da sinistra nella fila in alto.

FOTOGRAFIA DI FAMIGLIE GROSMAN E GROSS (PER GENTILE CONCESSIONE)

Dopo che i loro nomi furono segnati, un dottore ordinò alle ragazze di spogliarsi per un controllo medico. Spogliarsi di fronte a strani uomini era inaudito, ma chi erano loro per mettere in discussione l'autorità? “Non è stato un vero esame”, scherza Edith. “Nessuno è stato respinto”.

I genitori si erano radunati fuori dalla scuola. L'ora di pranzo arrivò e passò, così ci si chiedeva perché ci volesse tutto questo tempo proprio di venerdì, quando le famiglie si stavano preparando per lo Shabbat, il sabato ebraico. Poi qualcuno notò che le guardie avevano fatto sgattaiolare le ragazze da un'uscita posteriore e le stavano spingendo verso la stazione ferroviaria. Così i genitori agitati le inseguirono, chiamando i nomi e chiedendo informazioni sulle destinazioni delle loro figlie. Nessuno rispose.

Alla stazione, le ragazze sono state caricate in carrozze senza nemmeno la possibilità di salutare i loro parenti. Edith sentì la voce di sua madre in mezzo alla folla: “A proposito di Lea, non sono così preoccupata - ma di Edith sì”. Era uno scherzo in famiglia che voleva che i venti dalle montagne avrebbero spazzato via l'elfica Edith se non fosse stata attenta.

Mentre il treno usciva dalla stazione, alcune delle ragazze più grandi cercarono di sostenere le più giovani. “Ci stiamo dirigendo verso un'avventura”, ha detto una delle amiche d'infanzia di Edith, Margie Becker. “Quando abbiamo visto le bellissime montagne, i Monti Tatra, abbiamo cantato tutte ‘Le Belle Montagne’ e l'inno nazionale slovacco”.

A Poprad, a circa 120 chilometri a ovest di Humenné, Edith e le sue amiche scesero dal treno e furono spostate in una caserma vuota. La mattina dopo, le guardie maschili le misero al lavoro per pulire l’edificio. “Abbiamo pensato, forse è questo”, dice Edith. “Forse è questo il lavoro che dovremmo fare”. Poi arrivò un altro treno di giovani donne. E il giorno seguente arrivarono altri treni pieni di giovani donne ebree non sposate dalle regioni circostanti.

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

Questa fotografia di Edith Grosman, allora 92enne, è stata scattata a Poprad, in Slovacchia, il 24 marzo 2017, alla vigilia del 75° anniversario del primo trasporto ufficiale ad Auschwitz.

FOTOGRAFIA DI Stephen Hopkins

Cinque giorni dopo la partenza del gruppo di Edith, quasi un migliaio di ragazze erano arrivate a Poprad. Poi le guardie ordinarono loro di fare le valigie e, mentre passavano davanti alla caserma, videro allinearsi vagoni bestiame sui binari. “Stavamo piangendo”, dice Edith, “ed eravamo così spaventate!”.

Edith dice che le guardie le picchiarono quando si rifiutarono di salire, fino a quando furono costrette a salire in quelle scatole umide e fetide. “Ero con mia sorella e le nostre amiche più care, volevamo stare insieme”, dice. “Non c'era niente dentro. Non c'era un secchio. Nemmeno l’acqua. Niente. Solo una piccola finestra”. Edith disegna un minuscolo rettangolo con le dita per mostrare quanto piccola fosse la finestra. “Ed era bloccata dall'esterno”.

Non avevano idea di dove stessero andando ma, per quanto fosse terrorizzata, Edith si sentì rassicurata dall’essere con Lea e Margie del negozio all'angolo, Adela Gross, con i suoi capelli rosso fuoco, Anna Herskovic, che amava andare al cinema con Lea, e altre che conoscevano da scuola, sinagoga e mercato.

Dopo ore di viaggio, nel cuore della notte, il treno si fermò al confine tra il Grande Reich germanico (ex Polonia) e la Slovacchia. Lì si concluse una transazione segreta tra i due governi, con gli Slovacchi che pagarono i nazisti 500 Reichsmarks (circa 230 euro di oggi) per ogni giovane donna presa come schiava. E così la prima spedizione ferroviaria ufficiale delle vittime della "soluzione finale" di Hitler si fece strada verso la punta sud-occidentale della Polonia.

Vita e morte ad Auschwitz

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

Quando Edith Friedmann e le altre ragazze arrivarono ad Auschwitz, non sapevano di essere prigioniere. Ma subito Edith si chiese perché ci fosse del filo spinato intorno alla caserma. Oggi il campo di sterminio, qui mostrato nel 1990, è conservato come memoriale.

FOTOGRAFIA DI Francois Le Diascorn, Gamma-Rapho/GETTY

Perché il piano di Hitler di sterminare gli Ebrei attraverso i campi di lavoro forzato in Polonia iniziò proprio con 999 giovani donne?

Il governo fascista voleva eliminare le fertili portatrici della prossima generazione di Ebrei, ma anche perché, secondo lo storico slovacco Pavol Mešťan, era più facile convincere le famiglie ad abbandonare le figlie che i figli. Inoltre, si credeva che le ragazze avrebbero poi portato le loro famiglie a seguirle nei campi di ricollocazione, dice Mešťan, dove gli Ebrei sarebbero stati "reinsediati" o "reinseriti", eufemismi nazisti per l’uccisione.

Quando il treno finalmente si fermò, Edith, Lea e le loro amiche si ritrovarono in quella che sembrava essere una terra desolata, con nient'altro che neve a perdita d'occhio. “Era un posto vuoto, non c'era niente lì”, esclama Edith.

Le guardie ordinarono a uomini in divisa a strisce di usare dei bastoni nello scacciare le donne dal treno. Un sopravvissuto polacco si ricorda di aver bisbigliato alle ragazze, “Sbrigatevi! Non vogliamo farvi male”. Dopo quasi 12 ore nel freddo vagone ferroviario, Edith e le altre lottarono per trascinare le loro cose attraverso i campi innevati verso quelle che un sopravvissuto descriveva come “scatole e luci tremolanti”.

Fino ad allora, Auschwitz era servita come campo di concentramento per uomini, principalmente prigionieri di guerra e combattenti della resistenza. Edith non immaginava che gli uomini con i bastoni fossero prigionieri, né sapeva che lo fosse anche lei, anche se si stupì della recinzione con filo spinato.

Mentre le ragazze entravano nel campo, Linda Reich, una delle sopravvissute, sussurrò a un’amica: “Questa deve essere la fabbrica dove andremo a lavorare”. La struttura, in realtà, era una camera a gas.

Durante i successivi tre anni, furono costruiti cinque forni crematori e camere a gas all'interno di un complesso di caserme che copriva quasi 40 chilometri quadrati. Anche se il campo non fu pienamente operativo fino a luglio, i nazisti avevano già altri modi per uccidere quelle giovani donne. Una dieta da fame di circa 600 calorie al giorno, combinata con lavoro straziante che includeva la demolizione di edifici e la pulizia delle paludi a mani nude, le consumava. “Le ragazze iniziavano a morire”, dice Edith.

“Alcune persone dicono che gli angeli hanno le ali”, la voce di Edith si fa dolce e pensierosa. “I miei invece avevano i piedi”. Uno dei lavori meno faticosi nel campo era quello di ordinare i vestiti e le cose dei nuovi prigionieri. Margie Becker fu incaricata di farlo e, quando le scarpe di Edith si ruppero, le portò un buon paio. “Le scarpe potevano salvarti la vita”, afferma Edith.

Ma ci sarebbe voluto ben più delle scarpe per salvare la sorella di Edith. Nell'agosto 1942, le donne furono trasferite in un altro campo nel complesso di Auschwitz: Birkenau. Le condizioni di vita lì erano così dure che presto un'epidemia di tifo si diffuse tra i blocchi degli uomini e delle donne, uccidendo allo stesso tempo prigionieri e guardie SS.

Quando Lea si ammalò, faceva parte di una squadra di lavoro che stava tutto il giorno in acqua fredda per ripulire i fossati. Per settimane, Edith diede a Lea la sua zuppa perché non riusciva a ingoiare il pane. Fino a quando sua sorella, debilitata dalla febbre, non riuscì più ad alzarsi.

In qualche modo, Edith ebbe la fortuna di essere assegnata alla selezione dei vestiti, ma una sera, quando tornò al suo blocco dopo il lavoro, apprese che Lea era stata trasferita al Blocco 22, il reparto malati. Nessuno era mai uscito vivo da quel luogo, dove i prigionieri erano stipati fino a quando i camion li avrebbero portati nelle camere a gas.

Un giorno, Edith riuscì ad avvicinarsi di soppiatto al Blocco 22, dove trovò Lea stesa a terra sul pavimento. “Le ho stretto la mano, l'ho baciata sulla guancia. Sapevo che poteva sentirmi. Ero seduta con lei, guardando il suo bel viso, e sentivo che avrei dovuto essere io lì al suo posto. Il senso di colpa del sopravvissuto… non passa mai”.

Il giorno successivo, il 5 dicembre, era lo Shabbat Hanukkah. Edith tornò al Blocco 22 prima di andare al lavoro e Lea giaceva ancora a terra. “Si stava deperendo”, dice Edith che non ebbe altra scelta che abbandonare sua sorella. “Faceva così freddo e lei era in coma”.

Lo stesso giorno, i nazisti avevano preso provvedimenti per liberare il campo dai prigionieri infetti. Quando il gruppo di Edith tornò dal lavoro, fu ordinato loro di spogliarsi e marciare nudi oltre i cancelli e le guardie SS. Le donne che avevano i punti rivelatori del tifo furono portate nelle camere a gas.

La vista all'interno dei cancelli stupì Edith. “Il campo era vuoto”, dice. La sopravvissuta Linda Reich ricorda di aver ritrovato nel suo blocco solo 20 delle migliaia di donne che erano lì quella mattina. Tutte le altre furono portate nelle camere a gas; Lea era tra loro.

Edith non voleva vivere senza Lea, ma era una combattente. “Perché siamo sopravvissute se non per raccontarlo?”, dice. Per lei, il coraggio di continuare a combattere, la volontà di sopravvivere, venne da uno dei suoi angeli con i piedi, la sedicenne Elsa Rosenthal. Le Lagerschwestern, sorelle di campo, erano le donne che si occupavano di chi era in difficoltà, specialmente dopo la morte di una sorella. Elsa, in quanto sorella di campo di Edith, si assicurò che lei mangiasse. Di notte le dormiva accanto e la teneva al caldo; le disse perfino: “Non posso sopravvivere senza di te”. "E così devo vivere”, dice Edith.

Lasciare Auschwitz: "La neve era rossa di sangue"

Quasi tre anni dopo l’arrivo ​​ad Auschwitz da adolescenti, Edith e le sue poche amiche sopravvissute dovettero affrontare un'ultima prova. I nazisti stavano progettando di evacuare il campo e fuggire dall'esercito sovietico in avvicinamento. In lontananza, i cieli notturni brillavano di rosso e oro mentre bruciava Cracovia. Il 18 gennaio 1945, nel mezzo di una bufera di neve, gli ultimi prigionieri di Auschwitz furono costretti a quella che divenne nota come la marcia della morte verso il confine tedesco. Si stima che 15.000 prigionieri del complesso dei campi di Auschwitz morirono nelle marce di giorni attraverso la Polonia verso i valichi di frontiera in Germania.

Di tutti gli orrori e le difficoltà che hanno subito le ragazze del primo trasporto, “questo è stato il peggiore”, dice Edith. “La neve era rossa di sangue”. Se un prigioniero inciampava e cadeva, gli sparavano. La sorellanza era appesa a un filo. Se una delle loro amiche cadeva nella neve, Elsa ed Edith la rimettevano in piedi prima che un ufficiale delle SS potesse spararle. Quando Edith sentì di non poter fare un altro passo in più, la sua amica d'infanzia Irena Fein la esortò a continuare. Non c'era cibo e dormivano nei fienili. “Perché sono sopravvissuta zoppicando, mentre altre che erano sane non sono riuscite a farlo?", si chiede Edith.

Giorno della Memoria: ricordi e testimonianze per non dimenticare le vittime dell'Olocausto

Chi manca in questo felice raduno della famiglia Friedman in Israele nel 1963 è Lea, che morì ad Auschwitz il 5 dicembre 1942. Da sinistra a destra: Herman, Edith (che tira fuori la lingua), Margita (la sorella maggiore di Edith), Ruthie (la sorella più giovane), Hilda e Ishtak. Avanti, i loro genitori, Hanna ed Emmanuel.

FOTOGRAFIA DI FAMIGLIE GROSMAN E GROSS (PER GENTILE CONCESSIONE)

Nel frattempo, i tedeschi schiavizzarono Edith e migliaia di altre prigioniere sopravvissute a Ravensbrück, il famigerato campo di sterminio delle donne, e in campi come Bergen Belsen, in Germania, e Mauthausen, in Austria. Il sovraffollamento e la fame minacciavano la vita di tutti, tanto che, ricorda Linda Reich, quando si rovesciò una pentola di zuppa, le donne si inginocchiarono e cercarono di leccarla.

Edith ed Elsa furono spedite in un campo di lavoro satellite, dove si riparavano le piste degli aeroplani che venivano ripetutamente bombardate dagli Alleati. Edith afferma che quando i bombardieri attaccarono il complesso e le guardie SS si rifugiarono nei loro bunker, i prigionieri corsero tutti in cucina, “abbiamo avuto così una vita migliore. Avevamo del cibo”.

L'8 maggio 1945 fu dichiarato l'armistizio in Europa. Si stima che, delle 999 giovani donne del primo trasporto ad Auschwitz, ne siano sopravvissute meno di 100, tra cui otto amiche d'infanzia di Edith. Lei ed Elsa impiegarono sei settimane per tornare a casa in Slovacchia dove Edith dovette affrontare un’altra dura prova. Aveva infatti contratto la tubercolosi ossea ad Auschwitz e dopo la liberazione si ammalò gravemente. “Sono stata debilitata fisicamente da Auschwitz”, dice. “Elsa invece era stata colpita dal punto di vista psicologico”, piena di paura e ansia per il resto della sua vita.

Nonostante la sua malattia, dice Edith, “ho provato tanta speranza per il mondo, per l'umanità, per il nostro futuro. Ho pensato: ora il mondo cambierà per sempre”. S’innamorò e nel 1948 sposò lo sceneggiatore e autore Ladislav Grosman, morto nel 1981, il cui film Il negozio al corso vinse l'Oscar per il miglior film straniero nel 1965.

Sebbene il sogno di Edith di diventare medico fosse ormai svanito, finì il liceo e continuò a lavorare come ricercatrice biologa nella Cecoslovacchia comunista e successivamente in Israele. “Hai i tuoi piccoli inferni, ma anche piccoli paradisi”, dice Edith della sua vita. “Ho avuto tutto qui su questa Terra”.

Ma l'antisemitismo è in aumento e i crimini d'odio contro le minoranze sono all’ordine del giorno. “Perché ci sono ancora guerre?”, si chiede. “Per favore, per favore, dovete capirlo: non c’è nessun vincitore in una guerra”. La sua voce è fioca ma sicura: "La guerra è la cosa peggiore che possa accadere all'umanità".

L'intervista a Edith Grosman è stata pubblicata il 27 gennaio 2020 e adattata per celebrare il Giorno della Memoria 2024.

Heather Dune Macadam è biografa dell’Olocausto e autrice di Le 999 donne di Auschwitz. La vera storia mai raccontata delle prime deportate nel campo di concentramento nazista, Newton Compton Editori.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in lingua inglese su nationalgeographic.com.