“La Società della Neve”: la vera storia che ha ispirato il film candidato agli Oscar 2024
Il disastro aereo del 1972 che ha coinvolto una squadra di rugby uruguaiana ha ispirato un nuovo film Netflix, già disponibile sulla piattaforma. Una storia di tenacia, di morte e di cannibalismo.
Il 13 ottobre 1972 il volo 571 dell'aeronautica militare uruguaiana si è schiantato sulle Ande con 45 persone a bordo. Dopo 72 giorni, ne erano sopravvissute solo 16.
Questo disastro aereo ha ispirato film, libri e serie televisive, da "Alive" del 1993 a "Yellowjackets" di Showtime. Più di recente, è uscito su Netflix “La Società della Neve” che ha conquistato due nomination agli Oscar 2024 nelle categorie "Miglior film internazionale" e "Migliori trucco e acconciature".
La vera storia del volo 571 è una storia di vita e di morte, di disperazione e di grande tenacia, in cui un gruppo di persone si è ritrovato in condizioni estreme e ha fatto ciò che doveva fare per sopravvivere... anche ciò che era impensabile.
Quel giorno di ottobre il volo charter 571 trasportava i membri della squadra di rugby Old Christians Club, insieme ad alcuni amici e familiari, per una partita. La rotta era da Montevideo, in Uruguay, a Santiago, in Cile. Solo un passeggero non aveva alcun legame con la squadra.
Mentre l'aereo si avvicinava alla sua destinazione, il copilota, il tenente colonnello Dante Lagurara, che lo pilotava, chiese all'aeroporto di Santiago il permesso di atterrare. L'aereo iniziò la discesa.
Ma Lagurara e il pilota, il colonnello Julio César Ferradas, avevano calcolato in maniera errata la posizione dell'aereo. Così, quando il velivolo è sbucato dalle nuvole non si è trovato di fronte la pista di atterraggio dell'aeroporto bensì una valle d’alta montagna, nella quale si è schiantato.
I 33 sopravvissuti allo schianto sono riusciti ad estrarre sé stessi e gli altri dai rottami, ma poi hanno dovuto affrontare una sfida ancora più grande: sopravvivere nel mezzo delle Ande ghiacciate, con temperature sotto lo zero e bufere di neve che li ricoprivano con diversi metri di neve. Per non parlare dell'aria sottile dell’alta quota, che creava ulteriori difficoltà.
Senza forniture mediche, fonti di calore o cibo, i sopravvissuti hanno usato parte dell'aereo distrutto come rifugio e ne hanno riutilizzato alcune parti, trasformando i bagagli in pareti e i rivestimenti dei sedili in coperte.
Ben presto, avrebbero anche trasformato i cadaveri in cibo.
Tra i resti dell’aereo i sopravvissuti hanno trovato una scorta limitata di cibo, come caramelle, vino e marmellata, ma questa purtroppo non è durata a lungo.
Ben presto il freddo estremo e la fame hanno iniziato a mietere vittime. I corpi si accumulavano uno dopo l'altro. Nel giro di 10 giorni erano morti altri sei dei sopravvissuti. E quelli ancora in vita erano sempre più deboli.
Alla fine, hanno raggiunto la consapevolezza di dover adottare una soluzione radicale, ma indispensabile, per sopravvivere: mangiare i corpi dei loro compagni morti.
"Non dimenticherò mai quella prima incisione, quando ogni uomo era solo con la sua coscienza su quella cima infinita, in un giorno più freddo e più grigio di tutti quelli precedenti o successivi", ha scritto il sopravvissuto Roberto Canessa nel suo libro del 2016 Dovevo sopravvivere. "Noi quattro, ognuno con una lametta o un frammento di vetro in mano, tagliammo con cura i vestiti da un corpo il cui volto non potevamo sopportare di guardare".
Nel pomeriggio del 29 ottobre, poco più di due settimane dopo l'incidente, un altro disastro ha travolto i sopravvissuti. Mentre riposavano nel loro rifugio di fortuna, una cascata di neve si è abbattuta nella valle dal fianco della montagna, seppellendo completamente l'aereo e togliendo la vita ad altre otto persone.
"Stavo per arrendermi dopo che la valanga ci ha colpito", ha raccontato Canessa in un'intervista al National Geographic nel 2016. "Ma poi uno degli altri ragazzi mi ha detto: 'Roberto, quanto sei fortunato a poter camminare per tutti noi'. È stata come un'infusione eroica nel mio cuore. Lui aveva le gambe rotte, ma io potevo camminare. La mia missione non era pensare solo a ciò che era meglio per me, ma a ciò che era meglio per il gruppo".
A dicembre, il numero dei sopravvissuti era sceso a 16. Ed è stato a quel punto che si sono resi conto di dover fare una scelta fondamentale: stare lì ad aspettare di morire oppure cercare aiuto.
Così, i sopravvissuti decisero che un piccolo gruppo sarebbe partito per una disperata missione di salvataggio: Canessa, Nando Parrado e Antonio Vizintín. I tre giovani avrebbero dovuto scalare la montagna nella speranza di trovare aiuto dall'altra parte. Trascorsero settimane a prepararsi.
Il trio iniziò il cammino il 12 dicembre. A tre giorni dall'inizio della spedizione, Vizintín tornò all'accampamento affinché Canessa e Parrado avessero maggiori possibilità di successo con le loro razioni limitate.
Il 20 dicembre, la coppia ha finalmente individuato un altro essere umano: Sergio Catalán Martínez, un mandriano cileno. Il giorno successivo l’uomo è tornato con i soccorsi e Parrado e Canessa hanno potuto condurre le autorità agli altri 14 sopravvissuti.
Dopo 72 giorni sperduti sulle Ande, erano finalmente tutti salvi.
La notizia del cosiddetto "miracolo sulle Ande" si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. L'euforia per il salvataggio ha però presto lasciato il posto all'orrore quando i sopravvissuti hanno raccontato di aver mangiato carne umana per rimanere in vita.
"Non ci si può sentire in colpa per aver fatto qualcosa che non si è scelto di fare", disse Canessa al Washington Post nel 1978 per difendere il comportamento del gruppo.
Tuttavia, i sopravvissuti portarono con sé il ricordo di quell’atto di cannibalismo nei decenni successivi. Nel suo libro autobiografico, Canessa ha spiegato: "Per noi, fare questo salto è stata una rottura definitiva, e le conseguenze sono state irreversibili: non siamo più stati gli stessi".
Sebbene 16 giovani siano scesi dalla montagna, i resti di coloro che non sono sopravvissuti non lasceranno mai le Ande. Sono stati deposti vicino al luogo in cui sono morti.
La storia del volo 571 avrebbe potuto facilmente concludersi come una tragedia intrisa di mistero, con il racconto di un aereo perduto tra le Ande di cui non si era saputo più nulla, i cui passeggeri erano scomparsi per sempre.
Ma salvando sé stessi, i sopravvissuti hanno riscritto quella storia.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente in lingua inglese su nationalgeographic.com.