Copa ’71, il film documentario sulla prima Coppa del Mondo Femminile - la Repubblica

Il Venerdì

Quel mondiale di calcio “in gonnella” cancellato dalla Storia

La capitana danese Inger Pedersen con la coppa (Ritzau Scanpix / TopFoto)
La capitana danese Inger Pedersen con la coppa (Ritzau Scanpix / TopFoto) 

A città del messico nel ’71 le nazionali di calcio femminile si contesero la coppa per la prima volta. Un maxi evento di cui nessuno ha più memoria. Ma che ora un doc intitolato “Cop 71” riporta alla luce

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Erano magnifiche clandestine, erano ribelli e guerriere, erano ragazzine, splendide atlete dilettanti e illuse, erano qualcosa di grande che durò lo spazio di un enorme attimo. Però che vertigine, che emozione. Come quando la Storia sta cambiando e nessuno se ne accorge, ma non per questo non è una rivoluzione.

5 settembre 1971. Allo stadio Azteca di Città del Messico si affrontano le nazionali di Messico e Danimarca nella finale della prima Coppa del Mondo di calcio femminile: nel mastodontico impianto che nel ’70 aveva visto gli Azzurri perdere la Coppa Rimet contro il Brasile di Pelè, ma anche celebrare l’eterno rito di Italia-Germania 4-3, ci sono 110 mila spettatori. Dopo mezzo secolo, resta l’evento di sport femminile con più pubblico della storia. Ma nessuno se ne ricorda, se non le ragazze che vissero quelle settimane di inatteso delirio: c’erano anche le italiane, e le inglesi, francesi, argentine. Molte di loro non avevano mai calzato scarpe con i tacchetti. Le argentine arrivarono in Messico senza neppure le maglie da gioco, però accadde l’incredibile. E quelle ragazze furono le effimere regine di un’estate al contrario.

Calcio femminile: orgoglio e pregiudizio

La storica epopea, nata e finita in clandestinità, è ora un documentario: Copa 71, diretto da Rachel Ramsay e James Erskine, prodotto negli Usa dalle sorelle Serena e Venus Williams e distribuito in Italia dalla Fandango di Domenico Procacci. Si tratta di una lezione di forza, coraggio e progresso sociale anche se, in apparenza, dopo la finale vinta dalle danesi tutto tornò come prima. Colpa dei maschi che governavano il mondo attraverso la Fifa e che, ancora oggi, non vogliono riconoscere ufficialmente quel mondiale.

Le immagini d’epoca raccontano ogni sfumatura di un tempo che rovesciò tutto, compresi i pregiudizi e le convenzioni. Alcune delle ragazze di allora raccontano e ricordano, non poche si commuovono, tutte sono intrise di un orgoglio e una fierezza che non passeranno mai. «Non volevamo giocare a pallone per essere come i maschi, ma per essere felici». Nell’alternanza di quel tempo e di questo, tra i primi filmati a colori del calcio e le interviste che li narrano, sfilano persone speciali proprio perché sfidarono il mondo. Elba (Argentina): «Fu il momento più bello della mia vita». Nicole (Francia): «Mi sembrava di avere le ali». Silvia (Messico): «Per la prima volta mi sentii davvero libera. Quando, da piccola, mio padre tornava a casa, dovevo nascondere il pallone altrimenti le prendevo. Lui ripeteva che dovevo comportarmi come una bambina». Elena (Italia): «Volevo giocare a calcio insieme ai maschi, e se me lo impedivano io cominciavo a menare, ero proprio una ribelle».

Calzini o motosega?

Il doc racconta come queste ragazze passarono, nel giro di qualche settimana dal giocare su campetti spelacchiati e senza uno spettatore fino al mitico Azteca. La Copa 71 venne organizzata dalla Martini & Rossi a dispetto della Fifa, che anzi giurò che avrebbe preso provvedimenti nei confronti delle federazioni che avessero appoggiato l’evento. Tuttavia i messicani capirono che la gente voleva quella Coppa del mondo, c’erano enorme attesa e code per i biglietti, come e più che per i calciatori uomini. L’ostilità ottocentesca maschile non venne mai meno, ci furono medici capaci di sostenere che il calcio femminile era pericoloso per utero, seni e ovaie.

«Fosse stato per loro, saremmo rimaste a cucinare o rammendare calzini» dice Carol Wilson, inglese. «Io sapevo lavorare a maglia e usare la motosega, e allora?» si chiede Susanne Augustesen, l’attaccante danese che segnò la tripletta in finale. Le partite di quel mondiale fantasma furono anche un evento mediatico, e le calciatrici messicane capirono che “o allora o mai più”: chiesero (e non ottennero) due milioni di pesos per disputare la finale, «tutti stavano facendo soldi a palate grazie al nostro lavoro, ma per noi neppure un centesimo» ricorda Elvira Aracén, che in quella Nazionale giocava in porta. Dopo oltre mezzo secolo le brillano ancora gli occhi. «Non guadagnammo denaro, però la gente in tutto il mondo capì che eravamo brave atlete e belle ragazze, non mostruosità muscolari. E che con il pallone tra i piedi facevamo divertire il pubblico».

Dalla parte giusta

Come in un documentario sui Beatles non mancano passaggi pop. Il pullman delle danesi che si guasta nel deserto e quello delle italiane che viene in soccorso; le ragazze che prima di allora non erano mai salite su un aereo, i parrucchieri con tanto di casco per la messa in piega negli spogliatoi, la Danimarca che si presenta all’Azteca per la finalissima in minigonne bianche. Il ’68 del calcio fu un ’71 e cambiò tutto per sempre, anche se in apparenza non andò così. Dopo il mondiale clandestino, la Fifa prese i provvedimenti che aveva minacciato e nessuno più si occupò di quelle ragazze con i tacchetti bullonati invece dei tacchi a spillo. Le inglesi non trovarono neppure una persona ad attenderle all’aeroporto. Ma il seme del calcio femminile com’è oggi, cioè ufficialmente riconosciuto e apprezzato in ogni angolo del pianeta, deve molto a un manipolo di coraggiose pioniere che se ne fregavano di risatine, battute e insulti, perché sapevano di trovarsi dalla parte giusta della Storia.

L’Italia fu eliminata in semifinale dal Messico: due gol annullati e una clamorosa rissa finale, nella quale Elena Schiavo, ritenuta allora la più forte ala sinistra del mondo, “la Gigi Riva in gonnella” (non dimenticate che stiamo parlando delle idee e del linguaggio di 50 anni fa) si scatenò come un ossesso tra calci e pugni. Come i maschi, anzi di più. Esiste una forma più grande di libertà?

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