Disponibile su RaiPlay Passion, un film del 1982 diretto da Jean-Luc Godard, vincitore del Grand Prix tecnico al 35º Festival di Cannes. Dopo il ritorno con il precedente Si salvi chi può (la vita) a una cinematografia più tradizionale, alla fine del turbolento periodo di sperimentazione estetica e politica degli anni Settanta, Jean-Luc Godard sente la necessità di girare tre lungometraggi che si situano praticamente all’opposto rispetto al lavoro teorizzato a partire dal Sessantotto: pellicole che raggiungano la perfezione dell’immagine, in ossequio a un’estetica del sublime. Passion è il primo dei tre nel 1982, sarà seguito da Prénom Carmen nel 1983 e da Je vous salue, Marie l’anno successivo: una vera e propria trilogia della classicità, dal punto di vista della critica, o della perfezione, secondo la tecnica, o ancora della verginità, nel linguaggio della morale. Con Isabelle Huppert, Michel Piccoli, Hanna Schygulla, Jerzy Radziwilowicz.
Trama
Un’operaia balbuziente, un padrone della fabbrica dispotico, un regista polacco che cerca di ricreare nel film che sta girando riproduzioni esatte di quadri famosi. Il film non riesce a farsi, l’operaia viene licenziata e il regista torna in macchina verso la Polonia. È un film di una bellezza sconvolgente e non solo per i quadri che ricrea con amorosa precisione: è un saggio, un film erotico e una gioia per gli occhi.
Jean-Luc Godard: «Bisogna filmare talvolta l’emozione, fare un piano di emozione pura. Solo la pittura o la musica lo rendono possibile».
Certi dettagli di Passion non possono che richiamare alla memoria il precedente Il disprezzo, che risale ormai a vent’anni prima: la presenza di Michel Piccoli in uno dei ruoli protagonisti, per esempio, oppure dialoghi in diverse lingue (in questo film però non sono ripetuti in francese da un altro personaggio), o ancora l’atmosfera in bilico tra vita moderna e classicità. La narrazione oscilla tra due piani, rappresentati dalle riprese in interno e quelle in esterno: l’arte e la vita, quest’ultima intessuta di un fitto intreccio di personaggi e storie, politica, storia e cultura; una narrazione frammentata, talvolta accennata solo per allusione, spesso inafferrabile eppure molto presente. Le scene in interni sono invece un altro mondo, un sogno d’artista ricostruito nella perfezione di colori e forme sotto le luci da studio, per ricreare tableaux vivants al confine tra cinematografia e pittura classica: Rembrandt, El Greco, Ingres, Watteau e soprattutto Delacroix e Goya con due dipinti ciascuno: comparse come corpi luminosi, quasi completamente statici e senza dono della parola, mentre il commento sonoro è lasciato a una musica solenne, spesso liturgica: Dvořák e Fauré, ma anche Mozart e Beethoven, particolarmente prediletto quest’ultimo da Godard.
L’opposizione dialettica tra l’esterno e le scene in interni appare evidente nel prodotto finale; da una parte c’è il dominio della confusione: dialoghi sovrapposti e talvolta incomprensibili, voci asincrone, movimenti bruschi e gag quasi da film comico; dall’altra invece c’è il set con le sue luci violente, nitide, i colori impeccabili, la musica classica e un décor grandioso. Per questa sorta di poetica della luce, non soltanto negli studi di Billancourt ma anche negli altri interni (quasi in ogni inquadratura appare un punto luce artificiale), Godard non poteva che richiamare dopo 14 anni il suo fotografo Raoul Coutard. Coutard comunque arriva sul set dopo che il regista ha tentato di scritturare Vittorio Storaro, il direttore della fotografia che al tempo lavora con Coppola; l’ultima volta che ha girato con Coutard è il 1967, da allora sono divisi soprattutto da punti di vista politici completamente opposti: il fotografo infatti si dedica a film sulla nostalgia della Francia coloniale e si circonda di macchinisti, reduci dalla guerra d’Indocina.
Questo conflitto interno/esterno, staticità/dinamismo è recepito anche nello svolgimento della trama; nel film che Jerzy sta girando ci sono attori e comparse, ma non c’è una storia, si tratta dunque di cinema o d’altro? «Nel cinema non ci sono leggi, è per questo che la gente lo ama ancora» dice Jerzy; «Le storie bisogna viverle, prima di inventarle. Credete che cadano dal cielo, le vostre storie di merda?» Da un certo punto di vista, Passion è un kolossal storico, come i grandi film biblici o dell’epica medievale di Hollywood, ma un kolossal senza storia; o meglio, un film nel quale la storia si crea inevitabilmente mentre si gira, e infatti a confronto con il tipico film godardiano questo è fitto di intrecci e legami narrativi, non c’è personaggio che non abbia relazione con un altro.
Le due serie di immagini, gli interni e la vita vera all’esterno, appaiono diversissimi, due mondi esteticamente inconciliabili. Eppure gli elementi essenziali del cinema ci sono tutti, e estremamente curati: luce, suono, immagine; si tratta di costruire attraverso il montaggio rapporti di contenuto fra l’arte (i quadri) e la vita, fra i crociati a Costantinopoli e i poliziotti che presidiano la fabbrica durante lo sciopero, tra il vascello per Citera e l’aereo in volo, tra i volti di Goya e i primi piani di Hanna Schygulla, tra le odalische di Ingres e Delacroix e i nudi di Myriem Roussel, che non hanno nulla da invidiare alla pittura classica. In questo film Godard non si limita a mostrare quadri, come ha fatto fino dagli esordi e come tornerà a fare in seguito: diventa finalmente quel pittore che ha sempre desiderato di essere; e forse è questo il momento della sua maturità artistica: dopo gli anni della destrutturazione del Cinema, gli anni del gruppo Dziga Vertov che rappresentano il suo periodo d’avanguardia artistica, Godard scopre che classicità e perfezione son possibili anche senza andare a lavorare a Hollywood.
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