VOLONTÉ, Gian Maria in "Dizionario Biografico" - Treccani - Treccani

VOLONTÉ, Gian Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

VOLONTE, Gian Maria

Marina Pellanda

VOLONTÉ, Gian Maria. – Nacque il 9 aprile 1933 a Milano. La madre, Carolina Bianchi, era di origine lombarda e faceva la casalinga. Il padre, Mario , era di Saronno.

La famiglia, quando Volonté era appena nato, si trasferì a Torino, dove sei anni dopo nacque Claudio, il secondogenito (usando il cognome Camaso anche lui scelse la carriera dell’attore). Il padre di Gian Maria, membro del Partito nazionale fascista, negli anni Quaranta si macchiò di azioni particolarmente violente. Quando tra il 1944 e il 1945 finì in carcere, La Stampa di Torino lo definì un «feroce criminale e rastrellatore» e un «losco figuro» (Gian Maria Volonté, 2018, p. 12). Fu probabilmente per sottrarsi alla sua influenza, pesante e dolorosa, che, mentre la madre cercava di tirare avanti come affittacamere, Gian Maria lasciò «prematuramente la scuola e, a diciassette anni» partì «per la Francia vivendo alla giornata, vendendo giornali e raccogliendo mele» (ibid).

Rientrato in Italia si avvicinò al teatro rispondendo alle inserzioni della Ribalta, il periodico delle compagnie itineranti dei Carri di Tespi. Quando questi persero la loro funzione rinunciò al sistema teatrale per compagnie, abbandonò quella itinerante di Alfredo De Sanctis e nel 1954 con il prologo del Marescalco di Aretino provò a essere ammesso all’Accademia di Roma. Come lui stesso riconobbe, i corsi in Accademia furono un momento essenziale nella sua formazione per almeno due motivi: eliminarono dalla sua recitazione molti dei vizi acquisiti con la compagnia di De Sanctis e gli permisero di accostarsi all’insegnamento di Orazio Costa, che con il tempo si sarebbe rivelato solido e profondo in particolare per il metodo di indagine e di analisi dei testi.

Nel 1957 Volonté fu a Milano e partecipò agli spettacoli presentati al teatro S. Erasmo. Nel novembre del 1957, nella Fedra di Jean Racine tradotta da Giuseppe Ungaretti e diretta da Corrado Pavolini, recitò il ruolo di Ippolito (Fedra fu Diana Torrieri, Teseo Carlo Ninchi): «Il giovane attore Gian Maria Volonté, che è parso assai dotato, ha dato un’immagine di Ippolito come meditabonda, sognante, da predestinato alla morte» (De Monticelli, 1957). Seguirono La devozione alla Croce di Pedro Calderón de la Barca diretto da Franco Enriquez e la messa in scena della versione teatrale dell’opera di Franz Kafka Il castello, diretta da Arardo Spreti.

Per la stagione successiva – era luglio del 1958 – partecipò a La rosa di zolfo di Antonio Aniante che la compagnia triestina propose al Festival della prosa di Venezia per la regia dello stesso Enriquez. In questa occasione Volonté interpretò un ruolo di secondo piano, mentre nella ripresa dello spettacolo, durante la stagione regolare (novembre 1958), prese il posto di Domenico Modugno nel ruolo di Colao. Al teatro Nuovo, sede della Stabile triestina, debuttò il 23 settembre 1958 nel ruolo di don Pedro in Molto rumore per nulla.

Nel 1959, per primo in Italia, diresse e interpretò L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett. Fu un gesto d’avanguardia, non solo perché la Cantina – il piccolo club triestino che ospitò la rappresentazione – sembrò anticipare il tipo di teatro che si diffuse nel Sessantotto, ma soprattutto perché Beckett si affermò in Italia con difficoltà, solo a partire dal 1960-70. Del 1959 fu anche la sua prima fortunatissima partecipazione televisiva come Rogozin nell’Idiota di Fëdor Dostoevskij, ridotto, sceneggiato e interpretato da Giorgio Albertazzi, per la regia di Giacomo Vaccari.

Volonté, allora un promettente giovane attore quasi del tutto sconosciuto, offrì nei panni di Rogozin un saggio notevole delle sue possibilità: conferì al personaggio una tensione e una carica di energia e violenza che anche figurativamente contrastarono con le spaesate immobilità di Albertazzi, nei panni del suo rivale, il principe Myskin: «L’interpretazione della difficile figura di Rogozin lo impose improvvisamente al pubblico come uno dei più interessanti e promettenti attori della nuova generazione» (Peano, 1967).

Il 6 novembre 1959 fu ancora in televisione per la regia di Claudio Fino in un adattamento del Saul di Vittorio Alfieri, interpretando David, mentre Saul fu Salvo Randone. A un anno di distanza, la sera di domenica 6 novembre 1960, fu trasmessa la terza delle sei puntate dello sceneggiato La Pisana, tratto da Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, nel quale Gian Maria, al fianco di Giulio Bosetti e Lydia Alfonsi – che impersonò la protagonista – fu Ettore Carafa, capitano di ventura napoletano al servizio dell’esercito. Nell’estate del 1960 l’attore tornò a lavorare con Enriquez in due spettacoli shakespeariani: Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra. Il primo ebbe una certa risonanza, soprattutto sulle pagine dei rotocalchi popolari, perché fu in quell’occasione che cominciò la relazione tra lui (nella pièce Romeo) e Carla Gravina (che invece fu Giulietta). Il loro legame nato al di fuori del matrimonio fece parecchio scandalo, ma continuò nonostante l’ostracismo che anche nel lavoro colpì i due attori, e il 3 luglio 1961 nacque Giovanna, che avrebbe portato il cognome materno.

Tra la seconda metà del 1961 – quando ebbe un ruolo nella Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini con Claudia Cardinale – e la prima metà del 1963, Volonté si divise senza manifeste preferenze tra cinema, teatro e televisione. Il primo ruolo importante al cinema arrivò per lui nel 1962 con Un uomo da bruciare, primo film dei fratelli Vittorio e Paolo Taviani e di Valentino Orsini, in cui interpretò il sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia. Nello stesso anno, con Philippe Leroy, fu sul set di Gianfranco De Bosio nel Terrorista. Furono però l’esperienza televisiva con Silverio Blasi – per il quale interpretò La vita e le opere di Michelangelo – e la partecipazione ai due western di Sergio Leone, Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965), che gli assicurarono il primo vero successo popolare. Del 1965 fu anche il tentativo di rappresentare un dramma storico che si interrogava sul silenzio della Chiesa (in particolare di Pio XII) di fronte agli orrori nazisti e alle deportazioni degli ebrei: Il vicario, di Rolf Hochhuth. Avrebbe potuto essere la sua prima rappresentazione italiana ma le porte di tutti i teatri restarono sbarrate, originando quello che forse fu il primo duro scontro di Volonté con la realtà sociale e politica dell’Italia di allora.

Dopo il western, sempre per il cinema, fu la volta sia di uno dei pochissimi incontri dell’attore con la commedia all’italiana nell’Armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli – dove interpretò Teofilatto dei Leonzi discendente scapestrato di una dissoluta famiglia bizantina che si unisce alla sgangherata banda capeggiata dal Brancaleone di Vittorio Gassman – sia dell’unico film – Svegliati e uccidi di Carlo Lizzani – in cui i fratelli Gian Maria e Claudio recitarono insieme.

Nel 1967 A ciascuno il suo segnò per la carriera di Volonté alcuni incontri cruciali: firmato da Elio Petri, fu la prima delle pellicole tratte dai libri di Leonardo Sciascia che interpretò. Ne seguirono altre tre: Todo modo (1976) ancora di Petri, Porte aperte di Gianni Amelio (1990) e Una storia semplice, di Emidio Greco (1991), per il quale ottenne dalla Mostra del cinema di Venezia un Leone d’oro speciale alla carriera.

Sul finire degli anni Sessanta divenne l’interprete d’elezione delle ribellioni (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in Paradiso di Petri, Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo), delle frustrazioni, degli atti d’accusa e degli amari apologhi (Il caso Mattei e Lucky Luciano di Francesco Rosi, Il sospetto di Francesco Maselli). Nel 1968, premiato con il Nastro d’argento per A ciascuno il suo e con la Grolla d’oro per l’interpretazione di Cavallero nel film di Lizzani Banditi a Milano, cominciò a essere unanimemente considerato uno degli attori migliori nel panorama cinematografico italiano del momento.

A volte la sua inquieta ricerca, gli interrogativi, l’ansia di chiarimenti gli fecero mancare occasioni prestigiose: attraverso le sue scelte non dettate da logiche di mercato non rinunciò mai a interrogarsi sul suo ruolo di intellettuale e di attore, tanto da lasciare un segno anche per i film che si rifiutò di interpretare. Nel 1972 disse no a Francis Ford Coppola per Il Padrino e nel 1976 rifiutò Il Casanova di Federico Fellini e Novecento di Bernardo Bertolucci.

Il decennio 1970-80 fu particolarmente sofferto. Vedendo spegnersi il cinema d’autore di stampo realistico, individuò nel mercato la peggiore delle censure. In questo clima si concesse lunghi soggiorni lontano dall’Italia (in Francia, in barca a vela nel 1970), ma anche, nel 1976, dedicandosi a una breve esperienza politica, singolare e generoso tentativo di portare il suo impegno e la competenza di uomo dello spettacolo nella vita pubblica: eletto consigliere comunale a Roma nelle liste del Partito comunista italiano, si dimise non molto tempo dopo perché ritenne non fosse quello il terreno a lui più congeniale. Tra il 1978 e il 1979 girò con Rosi Cristo si è fermato a Eboli (fu il quarto film con il regista) e diede vita, dalle colonne del quotidiano L’Unità, a una durissima lotta (anche sul piano giudiziario): la campagna sul tema ‘voce-volto’, che affermò il principio per cui un attore è tale solo se, oltre a dare il suo volto, dà al personaggio che interpreta anche la propria voce.

L’anno successivo gli venne diagnosticato un cancro a un polmone e per sostenere economicamente l’intervento chirurgico che lo salvò accettò di interpretare Plessis nella riduzione televisiva di Mauro Bolognini dell’opera di Stendhal La certosa di Parma (1982). Chi lavora nel cinema, se si ammala di cancro, non può essere assicurato per almeno cinque anni: quando Volonté seppe di non poter lavorare per un così lungo periodo entrò in uno stato di profonda depressione, dalla quale credette di uscire riscoprendo Girotondo di Arthur Schnitzler. Riscrisse il testo, lo fece leggere a Gravina e poi lo propose a Umberto Orsini e a Rossella Falk, allora direttori del teatro Eliseo. Lo spettacolo debuttò nel 1981 e fu un evento: Carla Gravina e Gian Maria Volonté, la coppia storica che si era formata con Romeo e Giulietta di Shakespeare era di nuovo insieme, ma la sua messa in scena venne giudicata severamente dalla critica. Tuttavia, pur amareggiato per la pessima accoglienza ottenuta dai critici, l’attore si ritenne soddisfatto perché secondo le sue intenzioni era riuscito comunque a provocare il pubblico, nonostante la maggioranza degli spettatori non avesse apprezzato lo spettacolo.

Nel 1983 Claude Goretta gli propose di interpretare il giornalista Bernard Fontana in Mort de Mario Ricci – con questo ruolo ottenne al Festival di Cannes la Palma d’oro come migliore interpretazione maschile – dopo di che per qualche anno Volonté non ebbe più occasione di recitare per il grande schermo. Dopo la malattia rimase assente dal cinema italiano fino al 1986, quando Giuseppe Ferrara gli chiese di interpretare Aldo Moro nel Caso Moro. Dopo Todo modo, su un registro ben diverso, lo interpretò dunque per la seconda volta, aggiudicandosi nel 1987 l’Orso d’argento al Festival di Berlino per la migliore interpretazione. Il 1987 lo vide anche in Un ragazzo di Calabria di Luigi Comencini, e per la quinta volta sul set con Francesco Rosi per Cronaca di una morte annunciata nel ruolo di Cristo Bedoya. L’anno dopo fu Zenon Ligre in L’oeuvre au noir di André Delvaux, e tra il 1992 e il 1993 girò due film in America Latina: Funes, un gran amor di Raúl de la Torre e Tiranno Banderas di José Luis García Sánchez.

Il 6 dicembre 1994 morì improvvisamente per un attacco cardiaco mentre si trovava a Florina, in Grecia, durante le riprese del film di Theo Anghelopoulos Lo sguardo di Ulisse.

Lo sostituì Erland Josephson e il film, che il regista volle dedicare alla sua memoria, vinse la Palma d’oro a Cannes (1995) ex aequo con Underground di Emir Kusturica.

Ciò che di vivido restò in quel 1994 fu la sua voce: proprio in quell’estate Volonté recitò Tra le rovine di Velletri, adattamento per il palcoscenico del diario di guerra di padre Italo Laracca, con cui celebrò il ricordo della Resistenza. Insieme alla sua ultima compagna, Angelica Ippolito, prestò la sua voce anche alle lettere dei condannati a morte della Resistenza in un filmato dedicato a Il canto sospeso di Luigi Nono. Furono occasioni da non perdere, che rientrarono negli atti d’amore e di lotta che Volonté compì come uomo e come attore. Anche il personaggio del direttore della cineteca di Sarajevo, che stava interpretando sul set di Anghelopoulos quando morì, era un difensore della memoria, la memoria del cinema, che tentava di salvare dalla distruzione della guerra.

Fonti e Bibl.: R. De Monticelli, Cristiana consapevolezza del male nella Fedra di Racine, in Il Giorno, 9 novembre 1957; C.A. Peano, V., G.M., in Filmlexicon degli autori e delle opere, VII, Roma 1967, s.v.; F. Faldini - G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984, raccontato dai suoi protagonisti, Milano 1984, passim; F. Deriu, G.M. V. Il lavoro d’attore, Roma 1997; G.M. V. L’immagine e la memoria, a cura di V. Mannelli, Ancona 1998; G.M. V. Lo sguardo ribelle, a cura di F. Montini - P. Spila, Roma 2004; Un attore contro. G.M.V. I film e le testimonianze, a cura di F. Montini - P. Spila, Milano 2005; M. Pellanda, G.M. V., Palermo 2006; Micromega, 2010, n.6, monografico: Almanacco del Cinema, passim; G. Pucciarelli - P. Castaldi - G. Morici, G.M. V., Padova 2014; M. Capozzoli, G.M. V., Torino 2018; G.M. V. Recito dunque sono, a cura di G. Savastano, Firenze 2018.

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