Processo San Michele contro le cosche: in cella i boss imprenditori condannati - La Stampa

Si è chiuso nelle scorse settimane l’elaborato iter giudiziario di una delle più rilevanti operazioni contro la ‘ndrangheta in Piemonte, ribattezzata San Michele: non certo per il santo protettore della polizia, ma per il bar di Volpiano (Torino) nel quale si riunivano alcuni degli indagati, per anni quartier generale di una delle più potenti ‘ndrine dislocate nel Torinese e cioè quelle originarie di Platì. Dopo che gli ultimi ricorsi sono stati respinti dalla Cassazione alcune rilevanti condanne sono diventate definitive nei mesi scorsi e la procura generale di Torino ha emesso gli ordini di carcerazione eseguiti di recente dai carabinieri del nucleo investigativo.

L’inchiesta è firmata dal Ros dei carabinieri e dalla Dda del capoluogo (pm Antonio Smeriglio deceduto prematuramente a causa di una malattia nelle more del processo e Roberto Sparagna in forza oggi alla Direzione nazionale antimafia). In carcere, per esecuzione pena, sono finiti personaggi centrali dell’inchiesta che ha svelato in generale anche le mire (fallite) delle cosche del Crotonese sui cantieri del Tav. Boss imprenditori. Come Nicola Mirante, manager molto affermato nell’edilizia torinese perlomeno fino alla data del suo arresto (nel 2014). Attivo in numerosi cantieri privati, Mirante, ritenuto affiliato, deve scontare una pena residua di 2 anni e 5 mesi. A tradirlo, secondo i giudici di Appello la cui pronuncia è nei fatti confermata, fu la sua «preoccupazione per il rinvenimento della microspia sull'auto di un sodale Mario Audia».

«Mirante riteneva necessario effettuare una verifica dei suoi uffici e della sua Mini Cooper ed incaricare dell'incombente un professionista» che finirà nei guai insieme a un carabiniere della stazione di Beinasco. All’investigatore privato in questione, Mirante arriverà attraverso un altro coimputato che ha varcato le porte del carcere per espiare una pena decisamente più alta (6 anni e 10 mesi), tale Vincenzo Donato, 58 anni anche lui imprenditore a capo, prima del blitz del Ros di Torino, di una serie rilevante di aziende tutte impiegate nel settore edile.

Come loro è in cella a espiare la pena anche Pasquale Greco (5 anni) e Luigino Greco (5 anni e 2 mesi). Quando Mirante rinvenirà la microspia piazzata dagli investigatori dirà: «La rimettiamo, la lasciamo». Una scelta che per i giudici di Appello altro non era che un tentativo «di accreditarsi alle orecchie dell'ascoltatore della captazione come estraneo al sodalizio e di giustificare in termini leciti i suoi rapporti (economici e non) con gli altri appartenenti alla 'ndrangheta».

L’indagine ha appurato l’esistenza di una ‘ndrina “distaccata” dalla Calabria al Piemonte, un paradigma giuridico che ha fatto scuola in successive sentenze. Una struttura cioè che si appoggiava al locale di Volpiano riconoscendo “un fiore” ovvero una royalty per poter esercitare affari e potere mafioso in provincia di Torino.

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