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Baby reindeer

Il capolavoro che nessuno si aspettava

Era solo qualche settimana fa, durante una noiosa domenica piovosa di aprile, quando girovagando per le finestrelle di Netflix mi sono imbattuta in questa enigmatica serie. La locandina mostrava il primissimo piano di un viso di donna che guarda dritto verso l’obiettivo, non si capisce se in modo triste o minaccioso, accoppiato al dolcissimo titolo Baby reindeer (cucciolo di cerbiatto). Il tutto presagiva qualcosa di macabro.

Leggo la descrizione, parla di stalking, però al femminile. Non sono ancora convinta. Però parte il trailer: lei, Martha, è alla fermata dell’autobus davanti a casa di lui, Donny. Passa lì intere giornate e notti solo per poter vederlo qualche secondo e lanciargli qualche battuta ammiccante. Ma sta arrivando l’inverno e siamo in Inghilterra, fa sempre più freddo, e giorno dopo giorno lo sguardo di Martha comincia a spegnersi fino a sprofondare in uno stato catatonico. Lo sguardo di Donny invece da inferocito si addolcisce, si impietosisce, e se all’inizio cercava di scappare il più velocemente possibile da quella fermata dell’autobus, ora si ferma e si avvicina verso colei che gli aveva reso la vita un inferno, mosso da quegli stessi sentimenti di empatia che l’avevano cacciato in quella situazione.

Tutto questo è solo il teaser che nient’altro era se non una scena da non più di venti secondi. Contro ogni pronostico la mia curiosità si era risvegliata di colpo e mi sono detta: “se tutto questo è successo in venti secondi, cos’altro potrà succedere durante tutta la serie?”. Non mi sarei mai immaginata di vedere una delle serie più belle, profonde e rivelatrici di sempre.

A quel punto mi ero infatti convinta che si trattasse di una di quelle storie che ora vanno così di moda, quelle che vogliono far vedere come “i cattivi non sono in realtà così cattivi e che se si comportano male c’è un motivo, normalmente un qualche trauma”; da qui nasce quel filone di film di innegabile successo come Joker, Cruella, Maleficent, etc. Concetto che trovo estremamente interessante, condivisibile e francamente necessario, in quanto relativizza le azioni umane senza polarizzare e contrapporre bene vs male (cosa che il cinema ha fatto insistentemente fino a pochi anni fa), mostrando che nessuno è ‘geneticamente’ cattivo e che le azioni sbagliate sono in relazione o in riposta a ciò che ci circonda, invitando a un’empatia e a una comprensione verso le sofferenze altrui. Mi ero di nuovo sbagliata, o almeno quella era solo una frazione minima della serie.

Cominciai a guardarla e più andava avanti più mi rendevo conto quanto in profondità stava scendendo nella tana del bianconiglio. Una quantità talmente enorme di riflessioni che era difficile concepire come tutto questo potesse essere contenuto in un girato di sette puntate. Era come entrare nell’armadio di Narnia e scoprire che dietro una porticina si nasconde un intero universo, che in questo caso era la psiche umana. Perché questo è stato proprio ciò che ha trasmesso questa serie: l’immagine della nostra mente come un incredibile e labirintico universo che, nella più pura interpretazione aristotelica del paradosso Zenoniano, è infinitamente divisibile e per tanto infinitamente esplorabile. 

Una storia vera, che più vera di così non si può. Sono vere infatti le 41.071 email, molte di queste fedelmente riportate nella serie, le 350 ore di messaggi vocali, i 744 Tweet, le 106 pagine di lettere etc. Ma ancor più sconvolgente è però che chi ha scritto, sceneggiato, diretto e recitato è proprio colui che quest’incredibile vicenda l’ha vissuta sulla sua pelle, il comico scozzese Richard Gadd. Tutta la serie è come se fosse un onestissimo e coraggioso video diario di una psicoanalisi, in cui il suo autore ha riversato tutti i suoi segreti più oscuri, tutti i suoi ragionamenti, le sue paure, le sue considerazioni, anche quelle più proibite. Il protagonista ha coraggiosamente deciso di rivivere sulla sua pelle un trauma terribile (che non è lo stalking), studiando a fondo sé stesso e mettendo in fila e visualizzando tutti i suoi processi mentali prima, dopo e durante, in un esercizio che dev’essere sicuramente stato liberatorio per il suo autore, anche se incredibilmente doloroso. 

Come anticipato, gli argomenti psicologici trattati in questa serie vanno molto al di là dello stalking e dell’ossessione, arrivando a scavare nei meandri più bui e reconditi della mente umana, in questo caso esemplificati nelle vicissitudini emotive di quello che si considererebbe come un ‘normale’ ragazzo britannico quasi trentenne.

Infatti Martha, la stalker, non è la reale protagonista della serie, quanto piuttosto la miccia innescante di una serie di percorsi interiori che portano Donny verso nuove consapevolezze che senza di lei non avrebbe mai compreso. A volte amica, a volte incubo, la figura di Martha suscita a più riprese sentimenti di empatia, compassione e odio, sia negli spettatori che nel protagonista, accompagnando chiunque su una spericolata montagna russa emotiva. Una parola va qui spesa per l’incredibile capacità attoriale di Jessica Gunning che ha interpretato magistralmente e con estremo realismo il ruolo di Martha.

Tra i temi che più mi hanno colpito ci sono: la ricerca, i dubbi, la brutale lotta e la sofferta accettazione interiore della propria sessualità, anche se considerata scabrosa da una buona parte della società. Quanto ciò che facciamo è guidato da noi stess* e quanto da pregiudizi, etichette, convinzioni e costrutti sociali? A quanto abbiamo rinunciato di noi stess* per essere accolt* e ben volut* nella società in cui viviamo? I nostri mostri, che a volte prendono la forma di persone, relazioni e abitudini tossiche, fanno parte di noi, siamo il loro riflesso, li cerchiamo, in essi vi troviamo rifugio, abbiamo bisogno di loro per scusarci, per compatirci e questo ci porta a vergognarci di noi stess*. Che il dolore crea dipendenza perché come una droga ci fa sentire viv* e la trasgressione a volte è l’unica cosa che ci rende davvero liber* e in aperta protesta con un mondo che non ci accetterebbe per ciò che siamo. Che a volte è bello essere l’ossessione di qualcuno, anche se ineviabilmente si finirà per soffrire.

Degli incredibili e infiniti modi che ha la nostra mente per gestire e processare un trauma, dall’abbracciarlo al respingerlo, nessuno di questi sarà mai in grado di impedire che cambi il nostro essere per sempre: una parte di noi sarà sempre e inevitabilmente distrutta, ma una nuova impalcatura verrà costruita su quelle macerie. A volte un trauma è utile per processarne un altro.

Infine, un ultimo aspetto molto interessante della serie è la sua non convenzionalità narrativa, che però risulta sorprendentemente realistica. Da copione, le storie hanno un inizio, un’interruzione dell’equilibrio, un conflitto e una risoluzione, sia questa a lieto fine o meno. Ma qui pare che ci siano molti finali, molte risoluzioni di situazioni e conflitti che però presto tornano a frantumarsi sotto il peso di nuovo problema.

Questo imita perfettamente l’andamento naturale della vita, che non raggiunge mai uno stato di stasi alla risoluzione di un conflitto, ma è in perenne oscillazione tra crisi e benessere nel suo continuo scorrere; così la serie si conclude con un finale aperto, lasciandoci a chiederci come la storia della sua vita abbia poi potuto proseguire dopo tutto ciò. Una domanda che lascerà libera interpretazione allo spettatore, cosa che a mio parere la rende ancora più intrigante.

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Nicole Greco
Storica dell'arte, archeologa e storica medievista, è in costante oscillazione tra ciò che è bello e ciò che è interessante. Nata in Italia da madre inglese, riesce a fondere "the best of both worlds". Ha imparato con gli anni a tramutare la sua indecisione in multidisciplinarietà.