Di lotta e di condivisione. Giovanna Marini tra i grandi musicisti del Novecento - HuffPost Italia

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Di lotta e di condivisione. Giovanna Marini tra i grandi musicisti del Novecento

Di lotta e di condivisione. Giovanna Marini tra i grandi musicisti del Novecento

“I metalmeccanici di Torino e Milano/
puntavano in avanti tenendosi per mano/
Le voci rompevano il silenzio/
e nelle pause si sentiva il mare”. 

Sono alcuni, forse i più belli insieme alla loop di chitarra classica su cui poggia l’intera composizione, delle decine di versi che formano la più bella canzone politica italiana di sempre: “I treni di Reggio Calabria”, 1975, autrice per musica e testo Giovanna Marini. Giovanna se ne è andata, ieri, a 87 anni, nella sua tranquilla casa nei Castelli romani, dove viveva ormai da parecchi anni.

Con lei se ne è andato un pezzo di storia del nostro Paese, l’ultimo di quel Nuovo Canzoniere Italiano nato negli anni 60 che aveva in lei, Paolo Pietrangeli e Ivan Della Mea il suo “tridente” d’attacco. Attacco è la parola giusta, perché le loro, fin dai primi anni Sessanta, furono canzoni di lotta e di condivisione, collettive e non perse dietro a qualche rovello soggettivo: canzoni semplici, corali, da portare in piazza. Ne furono la forza e forse un poco il limite. Nel senso che alla fine tanta generosità militante e totalizzante, in anni di riflusso, gli si rivolse contro e li chiuse nel ghetto della musica agit-prop, buona al più per ricordare vecchie battaglie, per lo più perdute.

Questo fu l’effetto che mi fece, tempo fa, ritrovare nelle teche Rai, per la puntata del mio “Nessun Dorma” a lei dedicata su Rai5 del 2022 e che verrà riproposta sullo stesso canale venerdì 10 maggio alle 19.25, un vecchio filmato di Giovanna in concerto, voce e chitarra, in una fabbrica occupata romana. Fabbrica che non c’è più da vari decenni, ingoiata naturalmente dalla speculazione edilizia. Ma quella sera in bianco e nero sembrava che tutto potesse ancora succedere, e che “il padrone” sicuramente sarebbe stato indotto a ritirare i licenziamenti, rilanciando fabbrica e lavoro.

Ecco: implicarsi con la realtà a questo modo costò per molti anni a Giovanna Marini l’aggettivo di “pasionaria”, disconoscendone il talento di strumentista, compositrice, ricercatrice etnologica, autrice e pedagoga.

Veniva da una famiglia di musicisti colti. Il padre Giovanni Salviucci, allievo di Respighi e Casella, fu una certezza della scuola romana, prima della scomparsa a poco più di trent’anni. La madre, Ida Parpagliolo, fu docente di armonia a Santa Cecilia per tutta la vita. Lei, ossessionata dalla pressione per diventare pianista, scelse invece i primi corsi in quello stesso conservatorio dedicati alla chitarra classica, diplomandosi con Benedetto Di Ponio e perfezionandosi con Andrés Segovia.

Concerti, incisioni, docenza musicale: la strada sembrava segnata; ma il destino le riservò un altro percorso. Incontrò Bruno Trentin, Gianni Bosio, colonne della sinistra militante colta e creativa; e quei ragazzi che come Pietrangeli, Della Mea, Gualtiero Bertelli, Sergio Liberovici e Michele Straniero, sulla scia del canto popolare autentico di Giovanna Daffini e Caterina Bueno, provavano a scrivere una nuova musica popolare che riecheggiasse la grandezza della cultura orale operaia e contadina (il primo a parlargliene nel 1958 in un salotto romano, dove ventenne suonava Bach per sbarcare il lunario, fu Pierpaolo Pasolini). Insomma la promessa della chitarra classica voltò pagina e si coinvolse totalmente con quei nuovi, entusiasmanti amici, così che nel 1964, a 27 anni, fu con loro anche nella scandalosa notte del Festival di Spoleto, dove l’Italia scoprì che il canto popolare poteva trasformarsi in vera e propria bomba culturale.

Non lasciò più quella strada Giovanna, incise dischi, scrisse canzoni, arrangiò, orchestrò (gli altri giusto strimpellavano a orecchio la chitarra), si diede alla ricerca etnomusicale sul campo, percorse in lungo e in largo l’Italia ovunque la chiamassero, fu tra le fondatrici, e poi docente fino all’ultimo, della Scuola Popolare di Musica nel quartiere romano di Testaccio; poi arrivò a scrivere cantate, musica da film, ed ebbe la meravigliosa intuizione di formare nel 1976 un Quartetto Vocale tutto al femminile con cui sperimentò da compositrice e cantante nuove strade per la polifonia.

A riconoscerne le doti (ed è un vulnus che resterà, per le università e i conservatori italiani) fu la Francia, che la volle come docente di etnomusicologia  all'Università di Paris VIII-Saint Denis, a Parigi, dagli anni 90, per un decennio. Ma Giovanna non cercava onori o prebende: era una musicista, un’artigiana della musica, una divulgatrice. Vederla far intonare gli “intervalli” ai suoi allievi amatoriali di Testaccio era un’esperienza: tensione collettiva, amore per la musica, profonda conoscenza della voce come strumento.

Solo Francesco De Gregori e Gianni Morandi la risarcirono di tanto lavoro musicale altissimo quanto spontaneo e generoso. Il primo nel 2002 incise con lei per la Sony il disco “Il fischio del vapore”, che le fece provare per la prima volta l’ebbrezza dell’hit parade; il secondo la portò in prima serata su Raiuno alla guida del suo coro romano per intonare un canto popolare, e per un attimo quel frame televisivo sembrò portare in tv la forza delle masse del “Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo.

Chi scrive riuscì a coinvolgerla in un’ora di racconto della sua vita e della sua musica, avvolgendola di affetto e profonda stima. Se li meritava tutti: è stata una dei grandi musicisti italiani del 900, ora dobbiamo scriverlo. Anche perché ad appassionarla, sempre, è stata la storia degli uomini e delle donne.

Torno a “I treni di Reggio Calabria”: 

“Andavano col treno giù nel meridione/
per fare una grande manifestazione/
il ventidue d'ottobre del settantadue”.

Al centro del suo racconto in musica il corteo dei sindacati a Reggio del 22/10/72 in risposta al populismo neofascista di Ciccio Franco, che aveva strumentalizzato il campanilismo locale sulla scelta capoluogo di regione. Bruno Trentin, ancora lui, le chiede di andare a Reggio con la sua chitarra; lei accetta. Vive così in prima persona, insieme ai suoi “fratelli” operai, tutta il rischioso attraversamento in treno della penisola, il grande corteo popolare, la giornata di festa che ne scaturisce. Alla fine non può nascerne che musica: 

“Mi misi a scrivere in treno, poi continuai a casa. Erano pagine e pagine di scritto, come fare per contenere tutte queste parole in una canzone? Allora cominciai: le misi una dopo l’altra, piano piano, per fare un rigo, e poi un altro, lisciando, correggendo, cambiando. Le parole, tutto basato sulle parole. Poi feci un piccolo riff musicale e ci posai le parole. Ci ho messo due anni, per farlo tutto, per farci entrare tutto. Dura sette minuti la canzone. Poi la feci ascoltare ad alcuni amici: “Che dite, può andare”? E quando a giugno del ‘75 la cantai alla dichiarazione di voto per il Pci, Pasolini, che era lì con me (sarebbe morto qualche mese dopo) mi disse: “Hai fatto proprio una bella cosa”. Io ne fui molto contenta”.

Grazie Giovanna: che privilegio averti conosciuta, stimata, raccontata. Quel Gesù delle processioni e dei canti popolari che ci hai insegnato a cantare nel modo giusto, fuori d’ogni formalismo, clericalismo e moralismo, ti accolga a braccia aperte, come il Dio dei piccoli e dei diseredati che hai sempre laicamente e liberamente amato. Oggi da qualche parte si canta, si suona, si fa festa: ma tutti insieme, senza nessuno a primeggiare sugli altri, come ci hai insegnato tu.

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