Riprendiamoci il Servizio Sanitario NazionaleNoi per tutt3

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di Elisabetta Papini

Coordinatrice infermieristica

Coordinatrice nazionale del Forum per il Diritto alla Salute

Attivista di Medicina Democratica

Dal sapere delle donne all’assistenza infermieristica. Una riforma nel periodo delle contro-riforme del Servizio Sanitario Nazionale.

Negli ultimi trent’anni se c’è stata una riforma in un periodo di contro-riforme del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è stata proprio quella degli infermieri. È stato un percorso lungo e di “emancipazione” di una professione che è nata dal sapere delle donne e che per lungo tempo è stata ancillare a quella del medico. Se, infatti, l’assistenza è innata nella storia del genere umano, le figure dell’infermiera e dell’infermiere, anche maschio, non ci sono sempre state come quella del medico. Questa che oggi è una professione ha dovuto fare un lungo percorso nei secoli in parallelo rispetto all’impronta patriarcale della società. Il ruolo dell’infermiera nasce in ospedale, doveva essere donna e di un elevato ceto sociale, religiosa, spesso suora e il suo compito era seguire il medico ed assisterlo e nel territorio, invece, erano presenti “le donne curanti”, come studiato e dimostrato da Marie Francoise Collière (1992), perché la cura, intesa come aiuto e assistenza dei fragili, è sempre stata a carico delle donne nei secoli ed è dal loro sapere che nasce l’assistenza infermieristica.

Ripercorro brevemente le tappe principali. In Italia la figura infermieristica ha visto lo sviluppo del proprio percorso legislativo a partire dal primo Novecento ed in parallelo all’istituzione del SSN ha attraversato anche le contraddizioni e i danni di quelle che, visti gli esiti negativi che hanno prodotto, chiamiamo contro-riforme: il D. Lgs. n. 502/92 e il D. Lgs. n. 229/99.
Un primo “riconoscimento” di un lavoro di cura tutto e solo al femminile arrivò durante il fascismo, con l’emanazione della legge n. 562 del 1926 che, in base alle indicazioni del R.D. 15 agosto 1925 n. 1832, istituì le scuole convitto, con accesso esclusivo, proprio per ribadire il concetto subalterno di donna che l’ideologia fascista imponeva alla società.

In seguito, con il R.D. 1310 del 1940, venne pubblicato il Mansionario dell’Infermiera Professionale, in cui venivano elencate dettagliatamente tutte le attività e mansioni, che erano a carico dell’infermiera ma, soprattutto, si poneva in luce molto chiaramente il suo ruolo subordinato rispetto al medico: “Alle infermiere professionali competono (…) alle dirette dipendenze del medico”.

Negli anni successivi nacquero i Collegi e venne istituito il diploma di Dirigente dell’Assistenza Infermieristica presso gli Istituti di Igiene, ma bisognerà aspettare il 1971 per assistere all’apertura delle scuole infermieristiche agli uomini.
Il cosiddetto mansionario fu modificato con il D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225 stemperando i termini della dipendenza dal medico, ma sostanzialmente, lasciando un semplice elenco di cosa un infermiere potesse o non potesse fare in autonomia o dipendenza dal medico

L’emancipazione della professione in Italia. Non più “professionali” ma professionisti della salute.

Solo con il D.M. n. 739/1994, l’infermiere viene qualificato per la prima volta come operatore sanitario, introducendo il concetto di responsabilità dell’assistenza infermieristica e non più caratterizzata dalla stretta dipendenza dal medico.
In base all’articolo 1, un infermiere professionale deve:

  1. identificare i bisogni di salute e di assistenza infermieristica del singolo e della comunità;
  2. formulare quindi gli obiettivi per rispondere a tali bisogni;
  3. pianificare, gestire e valutare la necessità e, nello stesso tempo, l’adeguatezza di un intervento assistenziale infermieristico;
  4. garantire che le prescrizioni diagnostiche e terapeutiche siano applicate correttamente;
  5. agire sia individualmente sia in collaborazione con altre figure professionali;
  6. quando necessario, avvalersi di personale di supporto.

Nel secondo comma dell’art. 1, viene dato particolare risalto all’aspetto relazionale della professione infermieristica rispetto al passato: “L’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa, è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria”. Si sottolinea che l’infermiere esercita la funzione educativa, intesa non solo come educazione alla salute, ma anche come formazione in ambito lavorativo.

Vengono riconosciute fondamentali non solo la competenza tecnica ma anche altre due competenze infermieristiche: l’educazione sanitaria e la relazione terapeutica con la persona, la famiglia e la collettività in cui si vive. Questo significa che l’infermiere, oltre ed essere un professionista sanitario, non è solo un bravo esecutore di tecniche che richiedono precisa manualità che si acquisisce con anni di pratica e di studio di conoscenze di principi scientifici che li presuppongono, ma è colui o colei che è anche in grado di fornire risposte adeguate e competenti agli svariati bisogni di salute della persona, della sua famiglia e della collettività in cui vive. Ad esempio, nel momento in cui dobbiamo somministrare una terapia non solo dobbiamo garantire una corretta esecuzione, ma dobbiamo anche relazionarci con un paziente che è esigente, che è un cittadino, che va correttamente educato e informato riguardo al meccanismo di azione del farmaco sulla sua salute e sul suo corpo, sugli eventuali effetti collaterali e su quant’altro sia necessario.

Nel terzo comma dell’art. 1 del D.M. n. 739/94 l’infermiere viene individuato quale garante della corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche, funzione che si può attuare solo nella cooperazione tra la professione infermieristica e quella medica, evidenziando il ruolo centrale dell’infermiere all’interno dell’équipe multidisciplinare.

È da sottolineare che nell’iter dell’emanazione del D.M. n. 739/1994 ci fu una forte opposizione dell’Ordine dei Medici che temeva l’indipendenza di una figura fino a quel momento a loro ancillare. È stata l’unica giusta riforma all’interno di un processo di involuzione del SSN e che ha aperto la strada anche alle altre professioni socio-sanitarie, fisioterapisti, terapisti occupazionali, educatori, assistenti sociali. Gli infermier? con la loro sensibilità e la lotta politica che hanno condotto sono stati più avanti degli altri.

Con la L. n. 42/1999, si assiste finalmente alla scomparsa del carattere di ausiliarietà, per divenire una vera e propria professione sanitaria con competenze e responsabilità proprie in grado di rispondere ai bisogni di salute dell’individuo e della collettività come recita l’art. 32 della Costituzione. Le scuole professionali di Diploma per infermiere vengono chiuse e la professione approda in Università, si avviano i Corsi di Laurea Triennale con cui gli infermieri diventano professionisti della salute e non sono più “professionali” (è sbagliato quando li si chiama così!).
L’evoluzione della professione infermieristica, ancora in divenire, è avvenuta in un contesto di vero e proprio attacco al diritto alla salute con quelle che definiamo con I. Cavicchi delle vere e proprie contro-riforme del SSN, e che iniziano già 14 anni dopo la L. n. 833/78 – che tuttavia aveva al suo interno delle “bombe ad orologeria”, poste dai nemici della Riforma, come gli artt. 25, 26 e 41 per le convenzioni con il privato compresi i medici di famiglia – con il D.Lgs. n. 502/92 (la prima contro-riforma), affidata all’allora Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, del Partito Liberale Italiano – che fu l’unico partito insieme al Movimento Sociale Italiano di Almirante, a votare contro la L. n. 833/78 – poi indagato e condannato per Tangentopoli, ed in seguito con il D.Lgs. n. 229/99 – riforma Bindi: un’occasione mancata del Governo Prodi e delle sinistre.
Comincia così l’era dell’aziendalizzazione e della regionalizzazione in sanità che si accentua con la modifica del Titolo V della Costituzione ed oggi con l’Autonomia Differenziata (AD). Si espropria ai Comuni il ruolo che avevano in materia sanitaria, le USL diventano Aziende Sanitarie Locali (ASL) o

ospedaliere (ASO) e si passa così al modello thatcheriano e reaganiano “meno stato più mercato”, si smantellano i Comitati di Gestione che non vengono sostituiti con strumenti partecipativi più ampi, ma con la figura monocratica, autoritaria, anacronistica, patriarcale e antidemocratica del Direttore Generale, nominato dalla politica, non più da assemblee comunali, come era prima, ma dal Presidente della Regione, con un processo di lottizzazione, non solo partitica, ma per correnti, cordate e lobby. Processi di lottizzazione cui non sarà estranea nessuna forza politica compreso chi era contrario a questo processo di aziendalizzazione. L’obiettivo è ora il pareggio di bilancio e se con il D.Lgs. n. 502/92 pubblico e privato dovevano competere con il D.Lgs. n. 229/99 (riforma Bindi) possono collaborare e al contempo si da seguito con più forza al percorso di creazione della c.d. “secondo pilastro” che prevedeva i fondi integrativi nei contratti e negli accordi collettivi, anche aziendali.
Comincia il “sistema” contro il “servizio”.

Il “Servizio” che diventa “Sistema”

Ad un certo punto di questa fase di controriforme, alcune regioni, sperperando migliaia di euro di risorse pubbliche hanno cambiato i loghi, delle ASL e delle ASO da “Servizio Sanitario Regionale” a “Sistema Sanitario Regionale”, cambiando la parola “Servizio” con “Sistema”.

Il cambio non è di carattere semantico, ma politico.
La parola Servizio era stata messa in relazione alla parola diritti con la Legge n. 833/1978 che istituiva il SSN per rispondere all’art. 32 della Costituzione che parlava per la prima volta di diritto fondamentale alla salute. La cultura dei servizi legata alla parola diritti ha emancipato il nostro paese dalla cultura della beneficenza e del paternalismo assistenziale.
La parola Sistema, invece, è usata dalle Università Bocconi e Cattolica quando forma i Direttori Generali

e i dirigenti che sono a capo delle Aziende Sanitarie – non vanno bene nemmeno quando sono donne e nemmeno quando sono infermieri – che governano spesso come “dittatori” con i consigli di disciplina e occupandosi sempre meno di rispondere ai bisogni di salute delle persone, ma avendo come obiettivo il pareggio di bilancio, che si è ottenuto in questi anni con tagli e ridimensionamenti dei servizi.
La parola “Servizio” ha una valenza etica e sociale che la parola “Sistema” non ha, ma questa serve a giustificare che il SSN pubblico e il privato in tutte le sue forme (accreditato, esternalizzato, convenzionato, medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali convenzionati, singoli professionisti a Partita IVA, lavoro interinale) collaborano, appunto, per fare “Sistema”.

Gli operatori sanitari, tra cui gli infermieri, diventano allora operai di un “sistema sanitario regionale” che non è più Servizio, è sempre meno Sanitario, per la cronica mancanza di personale, e non è più Nazionale ma regionale e che, nella sua involuzione in chiave aziendalistica, da metà degli anni Novanta, ha trasformato il processo di cura alla persona in un “prestazionificio”, con tempi e metodi finalizzati al conseguimento degli obiettivi di pareggio del bilancio o profitto.
La parola “Sistema” al posto di “Servizio” Sanitario Nazionale, oltre ad andare contro la legislazione vigente, va respinta fortemente proprio dagli infermieri che sono i primi ad averne subito i danni e a farne le spese ogni giorno sulla propria pelle quando sono nel reparto di un ospedale, di una RSA, o a casa di un paziente terminale per l’assistenza domiciliare.

I “tappabuchi” del “sistema”.

Gli infermieri, che sarebbero dovuti essere protagonisti del cambiamento, sono i primi ad essere portati dentro il vortice dell’aziendalizzazione con il demansionamento, facendogli fare da “tappabuchi” ogni volta che manca personale e lasciandoli di fatto mozzati della loro professionalità. È cronica nel “sistema” la loro carenza, ad oggi, maggio 2024, secondo la FNOPI ne mancano in Italia circa 75.000.

I continui tagli alla spesa sanitaria che si sono succeduti negli ultimi decenni, il blocco del turn-over dopo la crisi finanziaria del 2008, hanno prodotto come conseguenza un inadeguato rapporto infermiere-paziente; si passa da 1 a 2 nelle terapie intensive e rianimazioni, a 1 a 13 nei reparti specialistici e da 1 a 20 nelle lungodegenze e anche 1 a 40 e più nelle RSA, quando invece la media, fatto salvo le aree critiche, dovrebbe essere di 1 infermiere su 6 pazienti (“Raccomandazioni per la determinazione dello staff per l’assistenza infermieristica” realizzato dalla SIDMI, Società Italiana per la Direzione e il Management delle professioni Infermieristiche, 2021).

Il paziente-esigente in una società che cambia.

Il lavoro in sanità soprattutto in Ospedale, si concepisce ancora in modo arretrato, la società è cambiata, i bisogni di salute sono cambiati, il paziente non è più paziente ma è “esigente”, cioè, se da una parte è autodeterminato, perché conosce i propri diritti, si informa curandosi anche da solo interpellando il “Dottor Google”, dall’altra può essere analfabeta funzionale o di ritorno che pensa di saperne più del medico e dell’infermiere, le prima due figure sanitarie che incontra, e con le quale “contratta” le cure nel momento in cui ne ha bisogno nel “sistema” che non è più “servizio” nel grande supermercato delle prestazioni.

In tutto questo l’infermiere oggi ha più da fare con le carte o con i tablet che con la relazione con il paziente e il suo lavoro è bloccato nelle rigide applicazioni ed esecuzioni di procedure, protocolli o algoritmi, che anche se hanno la loro importanza si inseriscono in una divisione del lavoro standardizzato che deriva dal mondo della produzione delle merci e dalla fabbrica dell’Organizzazione scientifica del lavoro – che di scientifico hanno solo lo sfruttamento – di Frederick Taylor, sacrificando l’interpretazione di una realtà complessa a partire dal paziente stesso. Cosa significa? Significa che la cura e l’assistenza al paziente devono seguire rigidi standard analoghi a quelli delle catene di montaggio delle fabbriche di automobili, così tutto deve essere cronometrato, la visita, le cure igieniche, la somministrazione della terapia, il trattamento riabilitativo, il colloquio con il paziente, che è cambiato ed è sempre più “esigente”, come dicevamo sopra (Cavicchi, 2016).

Anche con l’introduzione della cartella clinica informatizzata, si impongono azioni e relazioni rigide, che costringono gli infermieri professionisti della salute ad un rapporto sempre più “mediato” dalla tecnologia, con le domande da porre al paziente già pronte nei menù a tendina, di una piattaforma informatica gestita ovviamente da privati e che rendono quasi impossibile procedere a colloqui liberi e a misura della complessità della persona che si ha di fronte, come insegnano la “medicina narrativa” e le scienze umanistiche (Cosmacini, 2015; Mannocchi, 2022).

Al contrario di quanto ritiene il “sistema”, il livello di complessità assistenziale, proprio dei reparti di medicina, o delle lungodegenze, delle RSA o degli hospice richiede un altissimo livello di contributo infermieristico, che attualmente non è affatto garantito dall’esiguità delle risorse umane in forza a tali reparti; una complessità assistenziale che oggi è possibile misurare e che si attesta con scale di valutazione sempre più specifiche che si basano su studi di evidenze scientifiche. È impossibile pensare che un infermiere, per quanto supportato dagli Operatori Socio Sanitari (OSS), possa prendersi efficacemente cura da solo di 40 persone con bisogni umani compromessi, dalla mobilizzazione alla respirazione, dalla pulizia alla terapia. Perché di questi numeri stiamo parlando. Il personale infermieristico, come del resto gli altri operatori sanitari, è a livelli minimi, e non adeguati, esattamente come quando si devono garantire i livelli nelle giornate di sciopero.
In sanità, sappiatelo, siamo in un perenne sciopero generale totalmente ignorato, da tutti, anche dai pazienti.
Già dal 2017 circa 12 milioni di persone in Italia non si

curavano adeguatamente a causa della povertà (7° Rapporto Censis) e quando accedevano al SSN per un’acuzie (infarto, ictus, insufficienza respiratoria, ecc.) si presentavano con più comorbidità. Ciò ha determinato pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata, e causato un numero sempre maggiore di morti e di ricoveri, situazione aggravata con l’avvento del SarCov2.

Nel “sistema”: tutti contro tutti.

Il lavoro sfruttato in sanità genera sofferenza e ostilità tra le varie figure sanitarie che faticano ad assumere e a condividere responsabilità e competenze: medici contro infermieri, infermieri contro le figure di supporto come gli Operatori Socio Sanitari invece di collaborare tutti alla cura, alla salute e al benessere del paziente in un lavoro di equipe multidisciplinare.

Sul caso specifico dell’OSS, considerata figura di supporto, come da D.M. n. 739/1994, sarebbe necessaria una riflessione specifica, infatti questa figura è stata istituita man mano che negli ospedali si estinguevano gli infermieri generici (figli del diploma regionale generico o professionale) ai quali erano demandati anche lavori di pulizia degli ambienti, oltre che l’assistenza di base al paziente. Ma oggi anche gli OSS hanno competenze specifiche grazie all’Accordo Stato-Regioni del 2001. Faranno la fine di noi infermieri mozzati dal “sistema”? Oggi chiedono la “terza S”, che sta per “Specializzato”, da acquisire con un corso di studi aggiuntivo di pochi mesi, poi cosa si farà, si chiederà la quarta e la quinta S? Con l’infermiere di contraltare che chiede la possibilità di prescrivere farmaci, che si trovano oggi facilmente al supermercato, mentre si delega totalmente l’assistenza di base alla manovalanza degli OSS? Credo che non sia con l’appropriarsi di competenze altrui che si evolva una professione.

La Federazione Nazionale Ordini e Professioni Infermieristiche (FNOPI), l’ordine degli infermieri, ha puntato tutto, negli anni, a rivendicare l’autonomia della professione infermieristica con una logica che ha diviso gli infermieri dagli OSS e i medici dagli infermieri attraverso logiche corporative. Questo scenario unito alle croniche carenze di personale infermieristico ed ausiliario determinano oggi le cosiddette “missed-care”, le cure mancate, l’assistenza non erogata in maniera completa sul paziente complesso.

La letteratura scientifica evidenzia che il 55-98% degli infermieri ha ammesso di aver omesso o ritardato almeno una attività assistenziale durante il proprio turno di lavoro (Jones et al., 2015) e associa le missed care ad esiti negativi sui pazienti, sullo staff infermieristico e sull’organizzazione. In particolare, esse sono state associate ad eventi avversi (errori di somministrazione, cadute, infezioni nosocomiali), a bassi livelli di soddisfazione dei pazienti e ad un aumento della mortalità. Inoltre, le cure mancate sembrerebbero influenzare negativamente outcomes dello staff infermieristico quali la soddisfazione lavorativa, il turnover, l’intention to leave, causando demotivazione e aumentando il distress morale (Ausserhofer et al., 2013).

Contro il “sistema”, quali infermier?, per quale sanità, per quale salute?

Cosa fare allora? Come riappropriarci del nostro lavoro, della nostra professionalità della nostra passione nel curare le persone e la collettività?
Me lo chiedo come infermiera (sono una coordinatrice infermieristica) che lavora nel “sistema” in una struttura privata accreditata in un quartiere dell’estrema periferia di Roma e come attivista del Forum per il Diritto alla Salute, associazione di lotta per la difesa del SSN composta principalmente da operatori sanitari e di Medicina Democratica, storica associazione fondata da G. Maccacaro.

Come cambiare il “sistema” e riformare la sanità con un nuovo Servizio Sanitario Nazionale per la cura di tutt??
Da anni abbiamo lavorato all’elaborazione di una piattaforma dal titolo “QUALE SANITÀ PER QUALE SALUTE” con i movimenti di lotta, le associazioni, comitati e sindacati, libere soggettività. Veniamo da una recente manifestazione di protesta sotto il Ministero della Salute alla quale hanno partecipato tantissime realtà di lotta.
Insieme abbiamo elaborato 16 punti sui quali noi infermieri possiamo intraprendere una lotta che deve essere attuata su tre piani; nella società civile, sul nostro posto di lavoro con i nostri colleghi e compagni di lavoro, con i pazienti-esigenti di oggi.
Innanzitutto bisogna ripartire da un riequilibrio dei poteri della Repubblica, tra Stato, Regioni, Aree Metropolitane, Comuni e abolizione di ogni forma di Autonomia Differenziata (AD).

Il Fondo Sanitario Nazionale se deve essere aumentato, e siamo tutti d’accordo, deve essere destinato al SSN propriamente detto e non al privato, perché oggi la sanità fatta dagli imprenditori, laici o cattolici, non viene fatta con i loro soldi ma con soldi pubblici. Contemporaneamente si inizi una ri-pubblicizzazione dei servizi esternalizzati, si aboliscano accreditamenti e convenzionamenti, anche degli ambulatori infermieristici e si blocchi il fenomeno di medici gettonisti, infermieri, OSS, terapisti della riabilitazione con finte P.IVA, si inquadrino in contratti di dipendenza i Medici di Famiglia (MMG), i Pediatri di Libera Scelta (PLS) e gli Specialisti Ambulatoriali per ricostituire la medicina del territorio. E nell’ottica di ricostituire una rete di medicina di prossimità si devono valorizzare le preziose capacità organizzative degli infermieri con competenze specifiche a garanzia di controllo dei percorsi di cura e presa in carico della persona attraverso le reti presenti sul territorio; bisogna valorizzare inoltre le competenze cliniche avanzate nella velocizzazione dei percorsi clinici, domiciliari e nella telemedicina, a garanzia della presa in carico della persona. L’infermiere di comunità s’inserisce in un percorso assistenziale già in essere come “ponte” e facilitatore tra il paziente fragile e la sua famiglia e i diversi interlocutori istituzionali (ambulatori, ospedale,

MMG, PLS, consultori familiari, servizi sociali), ma dovrà essere un dipendente pubblico e non un dipendente da pseudo-cooperative finanziate dai fondi del PNRR per la gestione delle future Casa della Salute/della Comunità o Ospedali di comunità.

Ciò di cui c’è bisogno è che oggi gli infermieri escano dalla logica della frustrazione del pensarsi e definirsi sempre solo contro il medico o contro l’OSS. Più che rivendicare una mitica e presunta autonomia denunciando demansionamenti, rivendichiamo, invece, la necessità di essere messi nelle condizioni di poter svolgere al meglio la nostra professione con un piano straordinario di assunzioni! E questa lotta facciamola con i nostri colleghi medici, OSS e tutti gli altri operatori che lavorano in sanità. Contratto unico di tutti gli operatori sanitari, pubblici e privati – ci sono 45 contratti diverse oggi in tutta Italia e con l’AD le cose peggioreranno, e adeguamento salariale agli standard europei. Si devono superare le ingiuste differenze economiche e normative che ci sono e che portano ad assistere un paziente da un infermiere con un contratto a tempo indeterminato e da uno a partita IVA o con contratto di cooperativa – che di cooperativo non ha più nulla – e che rientra nel Terzo Settore, oppure da un fisioterapista che è partita IVA che è falsa partita IVA.

Lottiamo contro “il sistema” della mercificazione della salute, della svendita della nostra professionalità. In sanità al centro deve esserci il paziente indipendentemente da dove nasce o da che situazione sociale abbia. E noi con lui. Il problema è stato l’ossequio alla logica di mercato che ha causato i tagli, le restrizioni, i carichi eccessivi di lavoro e ha diviso le professioni sanitarie allontanandole dall’obiettivo principale che è la cura e la risposta ai bisogni di salute individuali e collettivi.

Le professioni sanitarie, tutte, sono complementari, non sono isole corporativistiche, e grosse responsabilità di questa divisione ce l’hanno i sindacati, tutti, sia quelli confederali che quelli di base e gli ordini professionali tutti, ma il sindacato siamo anche noi, per questo dobbiamo puntare alla collaborazione e al coordinamento tra noi, in quest’ottica andrebbero superate, come scritto in vari punti della piattaforma, l’organizzazione verticistica di tipo militare patriarcale delle strutture sanitarie. Come vogliamo democrazia nella società così la vogliamo in sanità con il superamento della figura del Direttore Generale, organo monocratico delle ASL, disgiunto dalla realtà assistenziale, costretto ad adempiere alle logiche di mercato invece che focalizzarsi sui bisogni di salute e benessere della popolazione.

Rivoluzionario oggi è riorganizzare il Servizio Sanitario Nazionale laico, umanizzato e interamente a controllo e gestione pubblica, partecipata, democratica e popolare (1° punto della piattaforma) con un processo di cambiamento profondo, che deve andare ad agire su più leve aprendo una riflessione sull’organizzazione e sulla divisione del lavoro in sanità ripensando l’assistenza infermieristica insieme a quello della medicina sia nell’ospedale che sul territorio, oggi, sempre più orientata ad essere medicina difensiva, in cui le prestazioni non vengono erogate per il miglioramento della salute del paziente, che oggi è sempre più complesso ed esigente, ma per non incorrere in denunce. Credo che gli infermieri, su questo, abbiano una marcia in più rispetto ai medici perché nella loro formazione universitaria si prevedono lo studio di materie umanistiche come l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la scienza dell’educazione, che rendono gli infermieri in grado, più del medico – che riceve ancora una formazione troppo nozionistica – di rispondere a domande di salute di difficile interpretazione data la complessità della società in cui

viviamo. Gli studi storici e antropologici portano a capire, studiare ed accogliere l’essere umano che ci ritroviamo a partire dal soddisfacimento dei bisogni primari (mangiare, bere, dormire, eliminare…) fino alla cura della sua salute corporea e psichica. Il paziente non è un numero o un posto letto da occupare per il raggiungimento del budget.

Se il vero problema è sempre il capitalismo nella sua forma più fallimentare e per questo più violenta e oppressiva, a questo, contrapponiamo, un concetto di salute come fatto collettivo e non solo individuale in tutte le politiche come pratica femminista, transfemminista e come tema intersezionale, che come dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità non è solo assenza di malattia ma una condizione di completo benessere fisico, psicologico, e sociale e dal 2011 anche “la capacità di adattamento e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”. Per questo come recita il punto 6 della nostra piattaforma bisogna rilanciare le politiche di prevenzione, a partire da quella primaria, in tutte le attività, nei territori e nei luoghi di lavoro, partendo da condizioni ambientali ed ecosistemi, reddito, salario, lavoro, abitazione, istruzione e servizi, cioè, tutto! Perché quando c’è tutto c’è anche la salute! Compresa la pace. Per questo in ultimo, ma non ultimo, gli infermier?, che spesso sono in prima linea nelle emergenze ambientali causate dalla crisi climatica, o nelle emergenze umanitarie causate da guerre o stragi, devono con forza pretendere l’abolizione delle spese militari: diritto alla salute e ripudio della guerra vanno insieme.
Gli infermier3 oggi non solo devono promuovere stili di vita sani, ma fare di più e promuovere stili di vita (ri)belli per una società più giusta e per la cura di tutt3!

Elisabetta Papini

Femminista e transfemminista. Lavora come coordinatrice infermieristica in una struttura privata accreditata di Roma.

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