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Luca Guadagnino - foto via Getty Images

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Luca e i suoi fornelli. Intervista a fuoco lento a Guadagnino

Michele Masneri

"La passione per la cucina l’ho presa da mio padre, che anche lui era eccessivo, come Laura, amava cene pantagrueliche", ci dice il regista mentre ci prepara una pasta e patate. A tavola il piatto principale è però il suo nuovo "Challengers"

Quest’intervista si svolge durante la preparazione di una gran pasta e patate, mentre Luca Guadagnino dà ordini a uno dei suoi assistenti tra frullatori, forni, impastatrici e gelatiere. “Grattugia il parmigiano”, “Gratta la scorzetta”, “sbuccia le patate”, “taglia le cipolle”, tutti filano nella cucina linda e pinta che è il centro della sua casa di campagna in Piemonte. Guadagnino ama dirigere, evidentemente, che sia  pasta e patate o un filmone con Josh O’ Connor e Zendaya. Come “Challengers”, pellicola tennistica che ha messo d’accordo tutti, italiani e americani, amanti del threesome con patiti del doppio, e che lo impone definitivamente nell’empireo cinematico, in una sontuosa dimensione hollywoodiana abbastanza inusuale. 


“Più fino quel peperoncino”, fa a un assistente. Poi dirigendo anche me: “Sta registrando? Guardi che così copre il microfono”, dice Guadagnino detto Frenesy, come si chiama pure la sua casa di produzione, perché lui freneticamente vede tutto, capisce tutto, controlla tutto. Guadagnino dopo “Challengers” farà “Camere separate” da Tondelli, Guadagnino ha già girato “Queer” da Burroughs, Guadagnino fa un film sulla cancel culture con Julia Roberts. “Vuole del gelato? Ci metto un attimo a farlo, anche senza lattosio”, e fruga in un colossale frigo professionale d’acciaio e cristallo, e versa la miscela in uno dei mille frullatori e aggeggi della sua cucina da Ratatouille mentre detta messaggi a un altro assistente da mandare a un attore americano. “Ma è domenica”, ribatte l’assistente, “vedrai che risponde”, ribatte il regista, e l’attore infatti risponde. Poi mentre tutti si è tramortiti  di chiacchiere e pasta lui fresco come una rosa si butterà in una call notturna, origlio, con un misterioso interlocutore che scopro essere Bryan Lourd, capo della Caa, l’agenzia d’artisti più potente d’America.

 

Tutto così. Questa è una intervista sulla cucina ma anche sulla mitomania, ecco dunque il paragone: Gay Talese, inventore del new journalism, che va a intervistare Frank Sinatra, nel famoso “Frank Sinatra ha un raffreddore” che uscirà su Esquire nel ‘66. All’epoca Sinatra aveva, oltre il suo faccione e la sua etichetta discografica, una linea aerea, una società immobiliare e pure un’azienda che produceva componenti per missili. Guadagnino non ha il raffreddore e oltre a dirigere, produrre i suoi film e quelli di altri, disegna anche case, negozi e alberghi con un suo studio di architettura, ha un’azienda agricola, eccetera eccetera. Se avesse un filo di seno farebbe pure Zendaya, parafrasando Enzo Biagi su Berlusconi. “Buona questa, la metta nel pezzo”, dice lui, mentre messaggia dirige assaggia immagina. Va bene maestro, metto. E poi: “Ah, Berlusconi, il disastro culturale di questo paese”, dice mentre gira il soffritto di cipolla.  Io non son tanto convinto. Mica l’ho mai votato, però ho dubbi che se fosse andato su Edilio Rusconi con la sua Italia 1 saremmo un popolo di intellettuali chic o felici tipo Bhutan. “Non lo so, non posso dirlo perché non ho visto Rusconi al potere. E non è tanto la tv privata, figuriamoci, io lavoro con Hollywood, ci mancherebbe, è che Berlusconi ha rintronato gli italiani convincendoli anzi assecondandoli della necessità di inseguire l’ingiunzione del godimento, dimenticando invece la seduzione e il tempo lento del desiderio”. Dice? Ma quando si è travestito da marocchino a sorpresa per riconquistare Veronica…

 

“Ma Veronica Lario per lui era un trofeo e un’ossessione, come dice Klaus Mann: si ama un solo volto e quello si cerca tutta la vita. Ma lei sopravvaluta Berlusconi, come il suo giornale!”. C’è una cosa in cui lei è  proprio antiberlusconiano:  nei suoi film il desiderio è come un soufflé, monta monta ma quasi mai riesce. Non c’è mai sesso vero. A parte qualche pesca. Anche in “Challengers”, alla fine non si combina niente. “Questa non è proprio la ricetta napoletana della pasta e patate, è una variante”, va avanti lui, “a un certo punto ho pensato che sarei diventato davvero un cuoco, ma il più grande dei cuochi”, dice. “Volevo fare l’alberghiero ma era un po’ troppo poco sofisticata come scuola. Perché, in caso, sarei dovuto essere un grande cuoco. Ero già megalomane e mitomane. Avrei dunque  fatto il liceo classico. Ma oggi ho amici chef come Niko Romito che stimo moltissimo”. Gli invidiosi, che sono legione, crescente come il suo siderale successo, lo ricordano cucinare però a Roma da Laura Betti, ancora un nessuno, in un angolino. “Eravamo come Harold e Maude, in giro a Roma o a Sabaudia, io ero l’allampanato siciliano che stava sempre zitto nell’angolo, e cucinavo per Laura.

 

Al podcast di Malcom Pagani ha raccontato che Betti era colossale anche nelle dosi. "Sì, mi mandava a comprare sei chili di carne per fare polpette per dieci persone. Ma Laura, chiedevo, non sarà troppo? Non capivo che poi lei puntava soprattutto agli avanzi, da mangiare per conto suo di notte. Faceva chiudere a chiave la porta della cucina per non cadere in tentazione, ma questa porticina era  tipo quelle dei saloon, aperta sotto, e lei di notte cercava di strisciare sotto, nell’apertura, e spesso rimaneva incastrata e la cameriera poi la doveva disincastrare il mattino successivo. Laura la conobbi perché mi ero laureato con una tesi sul cinema americano e Jonathan Demme e scrissi, nella mia mitomania, un adattamento per lei della 'Signorina Else'. Lo lesse, e diventammo amici”. Anche a  lei indirizzava i famosi epiteti? “Sì, certo, puttanella, zoccoletta. Poi mi impartiva ordini demenziali, e dopo se li eseguivo giù altre parolacce. Tipo, 'fammi queste duecento fotocopie. Zoccoletta! Che fai, mi dai retta? Devi pensare con la tua testa!'. E’ stata una grande scuola di vita. Ci vorrebbero tante Laure Betti oggi”. Più zoccolette per tutti. Guadagnino intanto era lì, faceva le polpette e ascoltava. “Ho visto passare tutti, gli intellettuali, l’intellighenzia cosiddetta di  sinistra. Vedevo, capivo e giudicavo”. Insomma parafrasando Truman Capote (“cosa credevano, che fossi lì solo per divertirli”, intendendo i suoi amici dell’alta società che poi avrebbe messo alla berlina), per Guadagnino si può dire: cosa credevate, che fossi lì solo per cucinarvi?  Un Truman Capote a induzione. Invece della pasta e patate qui ci voleva un soufflé Fürstenberg, quello ordinato in “Preghiere esaudite” allo chef del ristorante “La Côte Basque” specificamente perché impiega talmente tanto a cuocere da permettere chiacchiere e gossip infiniti. A proposito, l’ha vista la serie sui Cigni, su Disney Plus?  “No, ma il suo creatore Ryan Murphy mi è molto simpatico”. Le serie in generale le piacciono? No, sono il nulla”. Però ne ha fatta una, “We are who we are”. “Ma andava vista come un film di otto ore”. Capote è un suo riferimento fondamentale? “Sì, insieme a Thomas e Klaus Mann”. Dovrebbe fare un film dal formidabile romanzo Il mago di Colm Tóibín, che narra delle peripezie di Mann tra l’Europa in guerra e l’America. “Abbiamo già provato a chiedere i diritti”. Ovviamente. “Presto, quella margarina vegetale!”, fa, e poi apre pacchi di una pasta di marca sconosciuta e rarissima. “Lc. Non so, poteva preparare per cena una pasta all’ingrasciata, che è fatta con sette tipi di carni, un ragù sfilacciato, e poi aggiungeva  pure le melanzane imbottite e per finire la cassata”. Un po’ “Pranzo di Babette”. “Più ‘Grande bouffe’ di Ferreri, c’era qualcosa di mortifero in questa accumulazione”. Poi lui, il professore di scuola superiore che portò la famiglia da Palermo in Etiopia, e ritorno, “era magro magro, Laura Betti grassa grassa. La passione per i dolci invece viene da mia madre, che è algerina, dunque dalla tradizione francese, crème caramel, crêpe…”.

 

Mentre siamo lì appoggiati al bancone zincato, tra i vapori e le dissertazioni culinarie e geopolitiche, lui invece è già pronto per il prossimo multitasking. “Vogliamo vedere ‘Queer’ con le musiche montate? Tutti annuiscono. Tutti andiamo dietro, tipo Berlusconi coi suoi alle Bermuda, ma almeno non ci fa mettere in pantaloncini bianchi. Senta, ha mai momenti di down? “Solo quando penso di non riuscire a realizzare ciò che voglio. Ma poi mi ripiglio e ci riesco. Oppure quando è finito un progetto. Allora sì, ho bisogno sempre di trovarne uno nuovo. Come all’università, quando finito un esame poi per qualche giorno ero a terra”. 


Tesi sul cinema americano appunto. So che lei però è molto critico sugli Stati Uniti. Eppure è ormai il più hollywoodiano degli hollywoodiani. “Mi piace la dimensione immaginaria e la dimensione calvinista e il coraggio di quel Paese, che è stato molto generoso con me. Poi non posso fare a meno di constatare la devastazione culturale prodotta dal neoliberismo. L’ho percepita fisicamente quando ho girato l’America profonda in 'Bones and all'”. Ah, quindi il suo film sui cannibali era in realtà un film sul capitalismo”. “Ma sì, sul reaganismo, ovviamente”, alza gli occhi al cielo per la mia lentezza Frenesy, mentre visiona sul telefono un layout appena arrivato dal suo studio di architettura  (ha fatto per esempio i negozi Aesop e le magioni di Federico Marchetti, fondatore di Yoox). “Ottimo il pavimento così, benissimo”, risponde.  Poi lei ha lanciato il  cannibale vero, Armie Hammer. “Ma non l’ho lanciato io, era già famoso. La storia del cannibalismo è assurda, l’ha messa in giro una sua girlfriend che era stata scaricata, e ha diffuso dei messaggi di quelli bizzarri che tutti noi mandiamo in certe  situazioni, ‘ti farei questo e quello’, e gli americani come al solito hanno preso tutto alla lettera”. 


Come le è venuta la passione per l’architettura? “Leggevo molte riviste, essendo un ragazzo molto solo. Mia mamma usciva e io risistemavo gli oggetti in casa ridecorandola”. Questa casa sembra un neo-Memphis, un Sottsass di campagna. “Mmm. Io forse sono più legato a materiali tradizionali  rispetto al radical design. Disegno le case che sognavo  da ragazzo. Avevo visioni notturne ricorrenti di case meravigliose, poi il risveglio era brutale. Magari nell’appartamento di Palermo, o quello di Frascati dove abbiamo vissuto dopo l’Africa”. Senta Guadagnino, qui  esagera. Tutti noi ci siamo dissanguati con l’analisi, anni a interpretare i sogni con le case, e la casa che rappresenta il sé, e le parti del sé, e tutte quelle associazioni con cui i nostri analisti a botte di sessanta euro a seduta, loro sì si sono comprati  la casa (al mare). Lei non costruisce sogni ma solide realtà. “Sono andato in analisi  per una sola seduta, dalla mamma di Emanuele Trevi”. Per curare la mitomania? “Io odio i mitomani, di cui questo paese strabocca. Ma io sono un mitomane diciamo fattivo. Non ho mai posto freno alla mia ambizione, che però è sempre andata di pari passo allo studio, a capire come realizzarla”. Lei non ha il super Io. “E’ vero, non ce l’ho”. Ma guardi che è pericoloso! “Lo è”, e mi guarda sorridente. “Più peperoncino!”.


Con Frenesy, o Freny, come lo chiama il suo amico Carlo Antonelli, si ha l’impressione di stare più in presenza di un grande sarto, magari un Valentino Garavani nel mitico documentario “The last emperor” su di lui e il compagno-manager Giancarlo Giammetti che non di un cineasta. C’è la dimensione della factory, gli assistenti, il gusto totale e ossessivo.  “Ah, il mio amico Matt Tyrnauer, che girò quel documentario geniale. Il titolo è un omaggio a Bertolucci”. Lei però non ha il suo Giammetti. “No, perché dovrei? Io nasco col Giammetti incorporato”


Difficile poi immaginare Valentino o Giammetti che si ingegnano a fare polpette o pasta e patate (in caso, noi siamo qua). Ma oltre la dimensione della factory lei è solitario? “Mi piace avere gente intorno, nutrire gli amici, ma alla fine sì, sono un solitario”, dice Frenesy. Pure Tilda Swinton, sua amica-icona e un po’ protettrice, l’ha conquistata col cibo. “Sì, a Londra scoprii l’indirizzo di Tilda, con cui sognavo di fare un film, e preparai un dolce siciliano, il buccellato, che le feci recapitare con una lettera”. Che c’è nel buccellato? “Noci, tutti i tipi di frutta secca che si possano immaginare, fichi”. Difficile immaginarsi anche  la diafana Swinton a strafogarsi di buccellato. Rischioso: le avrebbe distrutto la glicemia o sarebbe stata sua per sempre. “E’ stata mia”. 


Guadagnino progetta ovviamente anche  un suo ultimissimo imperatore. “Un film su Hailé Selassié, il Negus d’Etiopia, Paese dove ho vissuto da piccolo. Sono anni che sto scrivendo un film su quegli anni, ma non mi viene mai come vorrei. La storia di un bambino che riesce a entrare nel palazzo dell’imperatore ad Addis Abeba  mentre è in corso un grande ricevimento, e sgattaiola di stanza in stanza finché non trova Hailé Selassié e si mettono a parlare. In Etiopia ci trasferimmo che avevo un mese, restammo fino ai miei sei anni”. In Etiopia anche l’incontro fatale col cinema. “La prima volta, sì, a vedere Lawrence d’Arabia in uno di quei cinema dall’architettura fascista italiana.  Lì ho capito tutto, Peter O’ Toole enorme su quello schermo…”. Come mai tornaste in Italia? “Ci fu il colpo di stato di Menghistu che, partendo da una giusta rivolta popolare, rovesciò l’imperatore e prese il potere”. Insomma se non c’era Menghistu lei sarebbe magari in Africa. Colpo di stato e colpo di culo.  “Sa come lo vorrei chiamare questo film? Bambino africano. Però oggi pensiamo cosa direbbero… appropriazione culturale, io bianco che faccio l’africano… per carità. Eppure io sono un bambino africano! Mia mamma è una cazzo di algerina quindi io sono un cazzo di bambino africano!”, si infervora. Ecco, ora oltre che regista cuoco designer è pure bambino africano.


Il suo amico Antonelli dice che il bambino africano-palermitano sembra che abbia sempre studiato per essere quello che è, poi il successo è arrivato come necessaria ricompensa di uno sforzo così costante, di un progetto autobiografico così preciso. Tante energie psichiche che trovano forma nell’atto. Però, scusi la volgarità, nel frattempo, come campava? “Grazie agli amici, almeno per 15 anni”. Amici ricchi? Cigni etiopi o di Frascati? “No, persone normali molto generose, come Walter Fasano, il montatore. Oggi spero di essere io altrettanto generoso con gli altri”. Fasano fa parte di un gruppo di amici, una fiesta mobile molto laboriosa che si è spostata anche negli anni tra Roma e Crema e Hollywood e i festival e i premi, in stanze d’hotel le cui stelle crescevano e crescevano. “Ma all’inizio alberghi di merda”.

 

Sempre piene di amici che si intruppavano perché non avevano soldi. Anche, cacciati dalla suite del Sunset Towers Hotel perché la Sony che distribuiva Io sono l’amore gli aveva tagliato i fondi e dunque vagando sulle strade di Los Angeles un po’ da homeless  (ma la sera poi tutti alla cerimonia dei Golden Globe). Però nella “stanza di Luca” non c’erano mai, neanche qualche settimana fa col party all’hotel Hassler per “Challengers”, celebrities cocate – Guadagnino non beve e non fuma, figuriamoci drogarsi - ma gli amici di sempre, come Antonelli, o il fotografo Alessio Bolzoni autore degli scatti di Josh O’ Connor studiati per far venire a tutti una gran voglia di tennis (e d’altro).

 

Senta, ma lei i ricchi li ama o li odia? Non mancano mai nei suoi film. “La ricchezza non è un tema così pervasivo del mio lavoro. A me interessa piuttosto il disvelamento della menzogna nelle cose”. Il successo, oltretutto internazionale, partendo dal nulla, è qualcosa  che in Italia è sempre considerato di pessimo gusto, una provocazione. “Sì, in Italia c’è un tetto, un blocco, un limite oltre cui non puoi andare. E’ un paese immobile”. Si sente arrivato? “No e non mi interessa come concetto. Semmai mi dà soddisfazione riuscire a giocare al livello di gioco che ho sempre desiderato, per rimanere al tennis”. Hai mai una botta di sconforto, mai voluto gettare la spugna? “Mai”. Cosa odia? “I gruppi, le lobby, i circoletti di potere”. E’ pazzo, non solo ha successo ma condanna l’amichettismo. Questo paese non la perdonerà. “Laura me lo diceva sempre, ti odieranno, ti faranno il culo”. Roma le piace? “No, la detesto”. Cosa detesta? Il cialtronismo diffuso del mondo del cinema?  “No, quello è uguale ovunque, anche in America. Non mi piace il cinismo cheap dei romani. L’inciviltà, l’appartenenza inutilmente ombelicale”. Milano invece la ama, “camminarci di notte, da Turro a Città Studi, mi piace tutta”.

 

Ma ‘sta pasta? E’ una pasta Fürstenberg. “Deve cuocere a lungo, glie l’ho detto che non è la ricetta classica”. Va bene. A Roma conobbe  Bertolucci, che è il suo animale guida, gli ha dedicato un documentario e ora ne sta girando un secondo. Però a parte alcuni elementi chiari – la dimensione internazionale, il citazionismo, l’uso di star hollywoodiane per raccontare storie nazionali, cuore a sinistra e portafoglio a Hollywood – manca in Bertolucci la dimensione di entrepreneur. “Erano altri tempi, credo che lui non avrebbe potuto fare altro. Io certamente ho anche una dimensione imprenditoriale”. Fellini? “Non amo. Un minore tra i maggiori. ‘Otto e mezzo’ dovrebbe durare una mezzora in meno”. Eddai su. Lei pare viscontiano come gestione degli attori. Non sembra considerarli molto, li dirige come ragazzi di cucina, non li frequenta. “Ha torto, io ho un grandissimo rispetto per gli attori. Sono creature dissociate con un desiderio delirante di essere guardate”. Annamo bene. Lei ha mai recitato? “Solo una volta, un cameo in cui faccio me stesso in un video di Maccio Capatonda, che è appena uscito. Sono pessimo”. Un regista sottovalutato? “Carlo Vanzina. Completamente non capito, invece era uno che conosceva il cinema e sapeva fare cinema, il suo prendere in giro gli italiani è stato frainteso, mentre ha raccontato una certa classe sociale di un certo periodo storico con una precisione incredibile”.  C’è un nesso tra la trilogia dei Vanzina su Milano, “Sotto il vestito niente”, “Yuppies”, “Via Montenapoleone”e il suo “Io sono l’amore”? .“Se lei lo vede allora c’è”.

 

Come i ricchi di una volta lei fa insieme ad Antonelli anche i necrologi, però rivisitati e corretti e assai bizzarri – che appaiono su Corriere e Repubblica in occasione di morti celebri. Chi li paga? “Io”. Costeranno un botto, alcuni sono lunghissimi. A cinque euro a parola, sarà una roba da mille euro. “Credo, anche di più, ma non so”. E’ chiaro che il necrologio è ormai l’unico business model del giornalismo. Che rapporto ha col denaro?  “Billy Wilder diceva che il nostro si chiama show business, senza soldi sarebbe show show”. Col denaro si è fatto una cucina da ristorante. “Una cucina e soprattutto una pasticceria”. Lei insomma è il famoso pasticciere trotskista di Nanni Moretti. Le piace Moretti? “Molto”. “Col denaro poi posso produrre film di persone che stimo. Solo quest’anno quelli di Giovanni Tortorici, Dea Kulumbegashvili, Hailey Gates…”. Tra le malefatte  a cui la inchiodano sempre ci sono invece i video di Paola e Chiara, e il film di Melissa P. “Dimentica la gallina!”. Quale gallina? “Ma sì, la pubblicità del Mulino Bianco, con Antonio Banderas e la gallina Rosita! L’ho fatta io”. 

 

Comunque “Melissa P.” è stato un punto di svolta. “Fu molto istruttivo, perché la produzione ci cambiò musiche, montaggio e altro, venne fuori un film completamente diverso da quello che volevo, capii che da quel momento avrei dovuto produrmeli io i film. Controllare il processo”. E la frenesia viene strutturata, e nasce l’azienda Frenesy. Film con uso di cucina, il montatore Marco Costa assiste con noi anche alla preparazione della pasta. Pausa. Andiamo a vedere un pezzo di “Queer” in sala montaggio, mentre la pasta si raffredda. “Queer” è pazzesco, immaginate Daniel Craig specie di Indiana Jones omosessuale a Città del Messico negli anni Cinquanta in cerca di sé e dell’ayahuasca. È un filmone epico, un Guadagnino spielberghiano. “L’abbiamo girato tutto a Cinecittà”, dice lui tornando in cucina.  E le scene al mare? “In Sicilia”. C’è anche un sacco di sesso finalmente, è il suo primo film da anni col sesso. Mi è diventato berlusconiano!

 

“Mai. Forse però sarà  anche l’ultimo, di film col sesso. Ah, come sarebbe bello che il desiderio finisse… ‘Queer’ è il film che avevo in testa da 35 anni, da quando lessi quel libro che ancora si chiamava Diverso e non ancora nella versione Adelphi di oggi, era un mio culto da ragazzo. Cercavo già di comprarne i diritti, anche se ovviamente non sapevo come fare né avevo lontanamente  i soldi per farlo”. Mitomane da sempre e per sempre. “L’anno scorso con i miei produttori Lorenzo Mieli e Raffaella De Angelis abbiamo scoperto che i diritti erano scaduti, e li abbiamo presi, e abbiamo fatto il film”, dice Guadagnino, come fosse normale che tutto nella vita alla fine riuscisse e si amalgamasse come una ricetta complicata che quaglia in un sapore semplice e naturale. “Purtroppo io sono come condannato a ottenere sempre quello che ho sognato”, sospira lui, e siamo di nuovo in Capote, “Preghiere esaudite”, con quella frase sinistra di Santa Teresa  che apre il romanzo (mai finito): “si piange di più per le preghiere esaudite che per quelle non concesse”. Ma qui gli occhi lacrimano solo per cipolla e peperoncino.   

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).