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LA PERDUTA SENSIBILITÀ TRAGICA DELL’AMERICA

Gli Stati Uniti hanno smesso di immaginare la catastrofe, fra l’introversione popolare e la tracotanza della classe dirigente. Il declino del pensiero strategico, sostituito da teorie iper-razionali. Il moralismo dei giovani e la cultura popolare nichilista.
di Federico Petroni
Pubblicato il
Pubblicato in: Fine della guerra - n°4 - 2024
Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

1. Tutto si può dire degli Stati Uniti negli ultimi trent’anni a parte che abbiano mantenuto un approccio strategico equilibrato. Si può persino azzardare che abbiano fatto il contrario. Come definire altrimenti la distruzione della classe media (liquidata con «ci sono sempre vincitori e vinti»), il cronico ritrovarsi in guerre senza fine, la pretesa di occidentalizzare la Cina, l’illusione di antagonizzare la Russia senza pagarne il prezzo, la noncurante sovraestensione degli impegni a fronte della consapevole contrazione dei mezzi? Com’è stato possibile trascurare a tal punto uno sguardo prudente e lungimirante? E come mai oggi l’America sembra paralizzata?

Ci concentriamo qui su un fattore fra i tanti, ma raramente osservato: dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno smesso di pensare in termini tragici. Di immaginare possibile la catastrofe. Di prefigurarsi le conseguenze più devastanti delle proprie azioni e omissioni. Di agire con senso della misura. La sensibilità tragica è una caratteristica essenziale del pensiero strategico. «L’arte di governo non può essere praticata in assenza di intuizioni letterarie», scriveva Charles Hill, maestro e veterano della diplomazia americana 1. Letteratura e tragedia forniscono lezioni cruciali su come mantenere in salute una collettività. Coltivano una forma di saggezza che è il contrario del cinismo perché tiene assieme il fardello del potere e lo sdegno per le ingiustizie. Danno l’elasticità mentale per cogliere le contraddizioni della storia, calate nel reale, non in teorie astratte. Alimentano il metodo geopolitico, col loro mettere a confronto le ragioni di tutti. Raccontano storie utili anche alla popolazione, per capire e legittimare i dilemmi dei potenti o per criticarli responsabilmente.

Questi insegnamenti giacciono ora inascoltati. A tre generazioni dall’ultima guerra mondiale, gli americani non hanno più esperienza di morte e devastazione su larga scala. La memoria delle precedenti catastrofi avvizzisce. La classe intellettuale e politica ne ha una conoscenza soltanto accademica: formale e precisa, eppure fredda, priva di umanità e immedesimazione. Qualità ottenibili mediante i classici. Educazione tuttavia sempre più negletta nelle università e nella cultura popolare. Condizione comune nelle sue premesse a tanti paesi occidentali, ma unica nelle sue conseguenze. Perché, se non corretta, l’assenza di sensibilità tragica può causare i cataclismi che l’America non sa più immaginare.

2. Sull’amnesia della tragedia si è innescato un limitato ma influente dibattito in America. Secondo alcuni, il problema è la popolazione. Immagina eterno il presente, dà per scontate le basi geopolitiche della sua prosperità, è riluttante a sacrificare sangue e tesoro. Per altri, la lacuna riguarda la classe dirigente. Ha applicato in modo irresponsabile la supremazia degli anni Novanta-Duemila e ha eroso la solidità della repubblica, le fonti della potenza e la credibilità, dunque la capacità dissuasiva, degli Stati Uniti. Per i primi, il peccato originale è di negligenza: l’introversione. Per i secondi, di tracotanza: la sovraestensione.

Il dibattito ruota attorno a due recenti volumi: The Lessons of Tragedy di Hal Brands e Charles Edel (2019) e The Tragic Mind di Robert Kaplan (2023). Entrambi opere di intimi del potere, entrambi editi a Yale, pura Ivy League. Eppure assai diversi, non solo per le tesi quasi opposte che sostengono. Kaplan, 72 anni, è famoso reporter di guerra dei Balcani e del Medio Oriente, sostenitore pentito dell’invasione dell’Iraq, appassionato di geografia politica (lui la definisce geopolitica), autore di studi per il Pentagono. Brands e Edel, quarantenni, educati sempre a Yale nel selezionatissimo programma di grand strategy dello storico John Gaddis, appartengono alla nuova generazione di intellettuali. Il primo, titolare della cattedra di Henry Kissinger alla Johns Hopkins e curatore del testo di riferimento New Makers of Modern Strategy. Il secondo, riservista della Marina e figura di spicco del blasonato Center for Strategic and International Studies. Per entrambi, un biennio a metà anni Dieci negli uffici di pianificazione della Difesa e del dipartimento di Stato.

Per Brands e Edel, la tragedia è catastrofe. Il senso tragico è paura della catastrofe e la sua funzione è educare la cittadinanza agli interessi strategici della collettività. «Per i greci», scrivono, «il teatro e le altre rappresentazioni drammatiche erano educazione pubblica. Le tragedie servivano (…) ad ammonire e terrorizzare il cittadino e a ispirarlo. Le élite credevano che Atene sarebbe potuta ascendere a grandi altezze solo se il pubblico avesse capito in quale abisso sarebbe potuto sprofondare senza grandi sforzi, coesione e coraggio» 2. La migliore definizione di questo ruolo sarebbe nelle Rane di Aristofane. Perché ammirare i poeti, chiede Eschilo a Euripide; risposta: «Pel savio giudizio, pel retto consiglio: che volgere al bene i concittadini possiamo» 3.

Le «virtù» della tragedia, stabiliscono gli autori citando la Retorica di Aristotele, risiedono nell’«arte della persuasione», nella «disponibilità al sacrificio», nell’accettazione dell’autorità dello Stato per preservare l’ordine dal disordine. Pur riconoscendo che il teatro greco instillava nel pubblico «lucidità e umiltà», insistono sul suo appello a «forza e risolutezza comune». Anche in un dramma come I persiani, in cui Eschilo fa empatizzare il suo pubblico con la caduta del nemico, mettono l’accento sul suggerimento dell’autore che la vittoria di Atene non è stata merito di singoli eroi, bensì di una comunità unita e capace di evitare gli errori di valutazione dell’avversario 4.

Secondo Brands e Edel, la perdita di sensibilità tragica dell’America consiste nel venir meno della volontà popolare di difendere l’impero. Qualcosa si è rotto negli Stati Uniti: i cittadini non vogliono più pagare i costi insiti nel ruolo di garante dell’ordine. Ma così facendo buttano tutto, perché il Numero Uno non può fare meno senza indurre un crollo più generale. Le basi di questa rimozione risalirebbero alla fine della guerra fredda: la popolazione chiede e ottiene di ridimensionare alcune spese per l’impero per concentrarsi sul fronte domestico; intanto, la classe intellettuale e degli affari si convince che la globalizzazione sia legge e destino dell’umanità, la natura dell’essere umano stia cambiando per il meglio, la guerra sia roba da archivi e il sistema internazionale si sostiene da solo anche senza l’America (John Ikenberry).

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Tuttavia, è con le presidenze Obama e Trump, in sostanziale continuità nonostante le innegabili differenze, che prende forma «un nuovo momento nell’arte di governo statunitense» 5. Il colossale errore della guerra al terrorismo apre a una più ampia contestazione popolare della politica estera, a «un evidente scetticismo non sui fini del progetto americano di costruire un ordine (…) bensì sui costi, rischi e frustrazioni tradizionalmente associati» 6. Gli statunitensi rifiutano alcuni pilastri del ruolo globale del loro paese: aumento della spesa bellica (finanziata col debito), accordi di libero scambio, promozione di democrazia e diritti umani, protezione degli alleati, difesa con la forza di alcune norme internazionali. Dunque eleggono governanti animati da «una visione del mondo ingenua, pericolosa e astorica» 7.

Brands e Edel vorrebbero che gli americani accettassero il proprio ruolo e applicassero costantemente la potenza necessaria a mantenere l’ordine. La tesi è molto elitista, però indica un problema reale: le capacità narrative dell’America si sono atrofizzate. I governanti hanno perso la capacità di spiegare come cambierebbe l’American way of life senza impero o se i rivali prevalessero. Manca capacità descrittiva. Durante la guerra fredda, la maggioranza della popolazione aveva ragionevolmente chiaro che il contromodello sovietico era inaccettabile. Oggi, anche a causa della sfiducia popolare verso le istituzioni e di ambienti mediatici che impermeabilizzano dal cambiare idea, i contorni delle minacce e delle poste in gioco per l’americano medio non sono ben definiti. Il cosa è enunciato: se la Cina vince diminuisce la prosperità americana; se la Russia vince non si ferma all’Ucraina; l’America è nazione indispensabile per la stabilità del mondo. Scarseggia il come, dominio dell’immaginazione realistica. Regno della tragedia.

3. Per uscire dall’amnesia, Brands e Edel suggeriscono di «riscoprire» alcuni principi: convinciamoci che la natura umana non è cambiata e il mondo non vuole essere come noi; è impossibile creare un ordine davvero pacifico ma non per questo dobbiamo smettere di provarci; non possiamo accordarci coi rivali perché non si può saziare un revanscista (corollario implicito: ogni partita è Monaco 1938); impedire il disastro richiede di agire preventivamente per togliere gli eventi dalla loro traiettoria (tradotto: smettiamo di essere in posizione reattiva, rispondiamo con la forza ai test dei rivali sulla nostra credibilità, per ora tutti falliti). Si appellano (ultimo imperativo) al «senso della proporzione e della misura» per non cadere nella hybris, sfinirsi e ritirarsi dal mondo. Tuttavia, all’atto pratico, le «asserzioni più prudenti e necessarie del potere americano» non sembrano poi così diverse dall’impostazione prevalente della dirigenza statunitense negli ultimi decenni 8.

Qui entra in gioco Robert Kaplan. Nella sua riflessione, la tragedia è un tipo particolare di catastrofe: l’anarchia, «maggiore e fondamentale paura dei greci» 9. Anch’egli concepisce la tragedia come strumento per informare il pubblico sui rischi di dimenticare certi principi basilari. Però l’accento è sul senso della misura. Definita come: modestia, umiltà, pessimismo costruttivo, consapevolezza del limite, anxious foresight (migliore traduzione: «preoccupazione»), estrema parsimonia dell’uso della forza, contemplazione dell’irrazionale.

Pur ammonendo intellettuali e popolazione a capire i vincoli di chi sta al potere e la ragion di Stato, il suo destinatario principale è la «nomenklatura» di Washington e New York. La critica: negli ultimi trent’anni ha «ignorato l’elemento dionisiaco» degli affari umani e mondiali, affidandosi a «presupposti giulivi». Per esempio: la fine della guerra fredda avrebbe portato all’inarrestabile diffusione di democrazia e libero mercato; «più commerciamo con la Cina, più questa si arricchisce e più diventerà liberale»; «una terapia economica d’urto renderà democratica e capitalistica la società russa»; «la geopolitica è scomparsa dalla storia, sostituita dalla geoeconomia», mentre quello che è capitato è la «fusione» tra le due in un «miscuglio ancor più pericoloso ed esplosivo» per farsi meglio la guerra. L’accusa più forte: la classe dirigente non ha una «paura viscerale» dell’anarchia, non ha mai dovuto negoziare (come lui, s’intende) il transito a un posto di blocco durante una guerra civile e pertanto troppo spesso ha sottovalutato un insegnamento: «Il peggior regime è meno pericoloso e terrificante che nessun regime» 10. Saddam e Gheddafi annuiscono nella tomba.

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Anche Kaplan mette al centro il concetto di difesa dell’ordine, ma come invito alla modestia per non alimentare ulteriormente il disordine. Sollecita la dirigenza americana a dotarsi di un pensiero più sottile e umile, meno massimalista e tracotante. Nelle parole di Joseph Conrad in Under Western Eyes: le comunità umane oscillano tra «feroci e imbecilli governi autocratici» e «la non meno imbecille risposta» di ideali utopistici 11. Il peccato cruciale degli ultimi decenni è aver diffuso il caos in nome di obiettivi ambiziosissimi e irrealizzabili. Ora gli Stati Uniti non possono più permetterselo. «In questa nuova èra, il livello e la qualità degli errori di valutazione che hanno generato l’Iraq e l’Afghanistan porterebbero il mondo alla catastrofe» 12. Lo stesso pensiero che ha generato guerre senza fine, se non moderato, rischia di portare l’America a una guerra totale.

Il riferimento implicito è alla facilità con cui ancora oggi gli statunitensi concepiscono il regime change come soluzione delle rivalità. Non è obiettivo concretamente perseguito nella sfida con Russia e Cina, anche se più di qualcuno lo invoca apertamente 13. Ma se al centro della retorica americana continua a esserci l’inaccettabilità di questi regimi, invece di più negoziabili e specifiche poste in gioco, si rischia di convincere l’avversario che in ballo c’è la sua sopravvivenza e la sua identità. Soprattutto, diminuisce il margine per negoziare una coesistenza, anche temporanea, per guadagnare tempo per ricostruire i fattori di potenza che permettono la competizione.

Gli americani, ammette Kaplan, sono «alieni» all’idea che «le tirannie non governano nel vuoto» ma intrattengono «almeno qualche sostegno popolare» perché si legittimano come alternativa al disordine 14. La cultura statunitense fatica a riconoscere questa «verità» per carenza di un elemento cruciale nella tragedia: la capacità di «presentare gli argomenti di entrambe le parti come giustificati», «necessari». Di più, la tragedia insegna che «la giustizia esiste solo opponendosi all’unilateralità delle nostre ragioni» 15.

È un modo come un altro per rilevare la fatica americana a incuriosirsi, a legittimare il punto di vista altrui integrandolo nel proprio ragionamento. Non per arrendersi al nemico; per capirlo, per sconfiggerlo meglio. Citando la classicista Edith Hamilton, Kaplan sostiene che «la tragedia è la bellezza delle verità intollerabili» 16. E cosa c’è di più intollerabile delle ragioni del nemico durante una guerra? Secondo l’autore, la sensibilità tragica non è fatalismo, relativismo, cinismo o quietismo: è discernimento. Che cos’è se non un inno al ragionamento geopolitico e al suo metodo di dare uguale peso, nell’analisi di un conflitto, alle argomentazioni di tutti gli attori?

Il problema, secondo Kaplan, risiede nella formazione accademica della classe dirigente. Conclude esplicitamente: «I classici della letteratura sono guide più rigorose e più utili di ogni metodologia di scienze sociali per chi non ha avuto esperienza personale di guerra e morte» 17. Critica scienze sociali e dirigenza per lo stesso motivo: entrambe hanno la presunzione di avere il potere e il dovere di migliorare il mondo. Le prime ritengono che teorie ben pensate non solo riflettano la realtà ma possano perfezionarla mediante l’applicazione della giusta policy. La seconda concepisce la missione dell’America come redenzione del pianeta e dunque ogni questione di politica estera come risolvibile.

L’intreccio di potere fra queste idee è molto più profondo di quanto si possa pensare. Per apprezzarlo, tuffiamoci all’indietro nella storia.

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4. Politologia è impero. Il potere americano fa da sempre abbondante uso delle scienze sociali per legittimare la propria espansione.

Le scienze sociali, è noto, si affermano a fine Ottocento come derivazione del positivismo e del progressismo: l’idea è trovare le leggi attraverso cui funzionano la politica e la storia per migliorare costantemente la società e indirizzarla verso un futuro migliore. In America però si sposa con un’altra corrente. Nel tardo XIX secolo, gli Stati Uniti sono in rapida ascesa. Archiviata la guerra civile, stanno compiendo una rapidissima trasformazione in potenza manifatturiera. Hanno completato la conquista del West. Iniziano a dotarsi di possedimenti d’oltremare. In questo contesto, dilaga la convinzione che l’America sia destinata a redimere il mondo. La politica deve essere lo strumento per sollevare le masse, in patria e all’estero. Per rendere il Vecchio Mondo più simile al Nuovo. Per fondare un ordine internazionale basato sul diritto. La guerra sarà sostituita dagli arbitrati. La minaccia dalla persuasione. La rivalità dalla ragione. Il tutto sotto lo sguardo benigno dell’America.

Queste idee arrivano al potere quando gli Stati Uniti diventano un impero. Emblematica una figura: Elihu Root. Avvocato newyorchese, segretario della Guerra e di Stato tra 1899 e 1909, è un fervente sostenitore dell’annessione delle Filippine e appartiene al gotha di statisti con Theodore Roosevelt e Alfred Mahan che afferma gli Stati Uniti come grande potenza mondiale 18. Con una peculiarità rispetto ai colleghi: crede fermamente che l’America debba condurre il mondo verso una nuova forma di relazioni internazionali basata su diritto, pace e commerci. Concepisce il diritto internazionale come strumento per sradicare la guerra e l’egoismo, per costruire buone abitudini da espandere fra gli Stati. Sforzo a cui si dedica incessantemente, con 24 casi di conflitti tra Stati terminati con trattati d’arbitrato, che gli valgono il premio Nobel per la pace nel 1912. Lungi dall’essere un pacifista, sostiene la mobilitazione generale per entrare nella prima guerra mondiale. Pur con qualche riserva, sposa il progetto di Wilson, poi naufragato, della Società delle Nazioni.

Root è Wilson prima e durante Wilson. Qualcuno lo definisce impropriamente padre dell’imperialismo progressista. Di certo, in quanto fondatore e capo del Council on Foreign Relations dal 1918 alla morte nel 1937 e primo presidente del Carnegie Endowment, due dei principali think tank del paese, ha plasmato in profondità l’idea della classe dirigente di un ruolo sovraordinato e morale dell’America nel mondo. Lo si misura nel progetto non così lontano di creare un governo mondiale e una «nazione globale» esposto novant’anni dopo da un altro demiurgo: Strobe Talbott, già segretario di Stato di Clinton, a lungo capo della Brookings Institution, mentore di Antony Blinken e Jake Sullivan19.

Queste idee confluiscono nelle scienze sociali, le informano. Restano protette nelle mura delle accademie anche di fronte a plateali sconfitte, come lo scoppio delle guerre mondiali. E nel secondo dopoguerra vanno stabilmente al governo, quando Washington saccheggia gli atenei in cerca di teorie e personale per gestire l’ordine internazionale postbellico. Caso emblematico: Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, ascesi nelle burocrazie grazie alla carriera universitaria.

Tuttavia, le scienze sociali non hanno determinato il comportamento del potere. Gli stessi Kissinger e Brzezinski hanno avuto successo proprio perché si sono allontanati da quanto predicato nell’Ivy League. Implacabile Paul Nitze, decano degli apparati: «Quasi tutto quello che è stato scritto e insegnato sotto l’insegna delle scienze politiche in America dopo la seconda guerra mondiale è stato contrario all’esperienza e al buon senso. È stato anche di scarso valore, se non controproducente, come guida concreta per la politica» 20. Ancor più abrasivo lo storico Bruce Kuklick: gli intellettuali «servivano a legittimare le politiche, non a dar loro impulso. (…) La funzione basilare, benché non l’unica, delle idee strategiche era fornire ai politici finzioni per dare significato all’opinione pubblica» 21. Rientra nella critica del filosofo britannico Mark Bevir: «La storia della scienza politica è meno una di studiosi che testano e migliorano teorie riferendosi ai dati e più una di appropriazione e trasformazione di idee, spesso oscurando oppure obliterando significati precedenti, per servire nuovi scopi in contesti politici diversi» 22.

Il punto è che non sono le scienze sociali ad aver informato il potere, è il potere ad aver selezionato le teorie che giustificavano quello che riteneva di dover fare. Lo si vede all’opera quando gli Stati Uniti, alla fine della guerra fredda, si convincono che sia il momento di estendere al mondo intero, di globalizzare, il sistema internazionale creato nel 1945. Ambizione comune a due amministrazioni, quella di Clinton e quella di Bush figlio. Pur con le innegabili e radicali differenze, condividevano l’idea che la strapotenza tecnologica, economica, cultura e militare avrebbe permesso all’America di allargare la propria influenza centrata su democratizzazione, interdipendenza commerciale, primato del diritto. Da estendere con la persuasione o da imporre con la forza.

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Guadagnano così popolarità teorie nate in ambito economico o sociale, estese agli affari internazionali per improvviso venir meno dell’elemento conflittuale, per assenza di antagonisti al modello liberaldemocratico. È il caso della scelta razionale, della massimizzazione dell’interesse (economico) o del funzionalismo istituzionale. Si diffondono determinismi politici come la teoria della pace democratica, secondo cui il tipo di regime determina una politica estera placida centrata sul perseguimento del benessere economico. Nata negli anni Ottanta con l’influente articolo di Michael Doyle su Kant 23, viene sposata dai governi Reagan e Clinton, fino a entrare in documenti ufficiali come la Strategia di sicurezza nazionale del 1994: «Tutti gli interessi strategici americani – dalla promozione della prosperità in patria al controllo delle minacce globali prima che arrivino sul nostro territorio – sono basati sull’allargamento della comunità delle democrazie e sul libero mercato tra le nazioni» 24.

La scarsa utilità di queste teorie risiede in gran parte nell’attribuzione di una razionalità astratta e assoluta ai soggetti storici. Spesso per razionalità si intende quella economica, benché quasi mai le scelte geopolitiche vengano prese sulla base di un calcolo costi-benefici materiali. Oppure si intende una razionalità occidentale, ignorando il peso di culture diverse su decisioni che riguardano fattori immateriali come la sopportazione dei costi e l’onore nazionale. O ancora si espungono del tutto i fattori irrazionali, emotivi, sentimentali, difficilmente misurabili eppure ponderabili. Chi asciuga tutto alla pura razionalità evidentemente non ha mai letto Ricordi dal sottosuolo di Dostoevskij, inno al libero arbitrio di autodistruggersi. Il rischio di eccessiva razionalizzazione lo corre qualunque disciplina. Anche la geopolitica, se cade nell’errore di attribuire carattere deterministico a osservazioni che dovrebbero essere specifiche per il caso di studio e dinamiche, cioè soggette all’inevitabile usura del tempo.

Le scienze sociali insomma soffrono di scarsa considerazione del punto di vista altrui. È un altro punto di contatto con l’idea di sé dell’America e della sua missione universale. A che serve il tuo punto di vista se io sono il massimo a cui tu puoi aspirare? Parallelamente: se ho la teoria giusta, e i dati che ho selezionato me lo dimostrano, funzionerà a prescindere dalla tua volontà. Riprendiamo Kaplan, quando cita l’insigne classicista Charles Segal: «La tragedia esiste come forma d’arte affinché “non ci dimentichiamo le dimensioni della vita” che esistono al di là delle strutture della civiltà. Senza “la dolorosa possibilità di vedere la vita come caos”, il nostro ordine civilizzato “diverrebbe sterile, autocentrato, solipsistico” e noi stessi diverremmo arroganti nella hybris del nostro potere intellettuale» 25.

5. Al di là delle influenze reciproche fra accademia e dirigenza, la perlustrazione storica mostra la vera posta in gioco. In America, il pensiero, non solo di Stato, è sempre più rigido e unilaterale.

Nella guerra fredda non costituiva un problema eccessivo: il nemico, unico e assoluto, disciplinava la mente; l’istruzione degli statisti era più umanistica e irrorata di alta letteratura; l’esperienza personale, di guerra o di catastrofi familiari, completava la formazione. Oggi questi tre fattori sono assenti. I nemici sono troppi e non così spaventosi, pertanto non disciplinano (ancora); la storia e i classici sono sempre più rimossi dai percorsi di studio; le scuole del servizio diplomatico chiudono gli area studies e l’apprendimento di molte lingue; le nuove generazioni sono le più protette di sempre. Come può un americano apprendere la tragedia, la caducità dell’ordine, i compromessi del potere, la comparazione dei punti di vista? Come può questo ambiente evitare di formare crociati pronti allo scontro di civiltà? O il loro opposto, cittadini remissivi incapaci di comprendere le poste in gioco? Facciamo due esempi, sintomi di altrettanti problemi di fondo.

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Primo, la formazione universitaria incita al moralismo utopistico. Il lungo sposalizio fra accademia e impero è al divorzio. I think tank washingtoniani hanno sostituito le università nella fornitura di idee e personale per la burocrazia, con l’effetto di aumentare il conformismo. I mandarini della politica estera accusano gli accademici di istruire la gioventù a idee impercorribili e dannose, come ridimensionare il ruolo dell’America nel mondo senza una conoscenza pratica di come farlo.

Il problema è più vasto e riguarda il rapporto con il potere. Gli studenti americani hanno perso ogni familiarità con la ragion di Stato. Lo si evince da un recente saggio di Hal Brands su Foreign Affairs 26. «Quanto male dobbiamo fare per fare il bene?», si chiede l’autore citando il teologo Reinhold Niebuhr. Per stabilire l’ovvio: «l’epoca di conflitto» che si è aperta fra l’America e i suoi rivali «diventa inevitabilmente un’epoca di amoralità perché l’unico modo per proteggere un mondo adatto alla libertà è corteggiare partner impuri e commettere atti impuri». Prosegue: «Non c’è ragione di essere troppo imbarazzati dal ricorso al gioco sporco: se non abbiamo abbastanza fiducia in noi stessi da difendere i nostri interessi, non avremo nemmeno la forza di fare grandi cose». Segue catalogo piuttosto scontato per un «ethos» in grado di far sopportare i necessari compromessi: la moralità è una bussola, non una camicia di forza; non scadiamo nell’utopismo e nelle false alternative; il bene non arriva tutt’a un tratto né il male commesso è per sempre; i guadagni marginali contano; i mali compiuti devono essere proporzionali all’obiettivo; difendere i nostri valori è molto più che intimidire i tiranni.

Il basso livello delle raccomandazioni, opera di un professore universitario intimo degli apparati, suggerisce che i destinatari siano le giovani generazioni disilluse dall’operato degli Stati Uniti nel mondo. Schiacciate a tal punto dal senso di colpa da essere impreparate alle più basilari funzioni del potere. L’operazione pedagogica di Brands non è interamente una novità. Riguarda l’eterno e intimo conflitto americano con la ragion di Stato. Con l’idea, cruciale nella cultura statunitense almeno da Wilson in avanti, che lo Stato non possa reclamare una moralità a sé. Ogni generazione chiamata a combattere, dai conflitti mondiali alla guerra fredda fino all’odierna Guerra Grande, deve rinegoziare il patto con la propria anima.

Tuttavia, dire che lo Stato deve fare del male per perseguire il bene non è rinegoziare un patto – sono le basi che mancano. È l’effetto di una sistematica delegittimazione a opera della cultura mainstream in America, in particolare delle teorie oggi note come wokiste che dagli anni Sessanta individuano in ogni forma di potere costituito la fonte delle discriminazioni da correggere, priorità assoluta per rendere la società statunitense finalmente giusta e morale. Le istituzioni ci hanno messo del loro, delegittimate per le sconfitte all’estero e per la noncuranza verso la sofferenza della classe media. Ma come non va idolatrato, il potere non va nemmeno demonizzato. Si rischia la paralisi.

Il secondo esempio della difficoltà americana a coltivare sensibilità tragica riguarda la cultura popolare. Con la letteratura interamente ripiegata sull’individuo, anche laddove inscena il collasso sociale 27, resterebbe il cinema. Negli Stati Uniti sono da poco usciti due film che immaginano un futuro crollo dell’ordine. Il mondo dietro di te, prodotto dalla società di Barack e Michelle Obama, narra dello smarrimento di due famiglie mentre l’America è colpita da un devastante attacco cibernetico di potenze straniere, con tanto di insurrezione interna. Civil War, grande successo di pubblico, segue una troupe giornalistica che cerca di raggiungere Washington nel mezzo di una guerra fra almeno quattro eserciti innescata dalla ribellione contro un presidente che si intesta un terzo mandato.

Nessuno dei due indaga perché la catastrofe piomba sull’America. La rimozione è totale in Civil War. Pur mostrando scene terribili, non spaventa, tutto è lieve, superficiale. Rinuncia volontariamente a riflettere sulle cause della guerra, che si deduce sia giusta perché rivolta contro un usurpatore. Mancano però le ragioni dei combattenti. Vietato empatizzare, vietato capire. Nelle parole della protagonista, fotoreporter disillusa: «Non chiediamo. Registriamo così che altri chiedano». Ancor più esplicito il regista, Alex Garland: «Quando le cose diventano estreme, le ragioni per cui lo sono diventate smettono di essere rilevanti. È la punta del coltello a rimanere rilevante» 28. Civil War è sterile, emblema di un’America dove non puoi mettere in relazione le argomentazioni dell’uno e dell’altro perché urteresti tutti.

Si racconta che Ronald Reagan sia stato ispirato a negoziare i trattati di limitazione degli armamenti con l’Urss da The Day After, trasposizione televisiva del rapporto sugli «Effetti della guerra nucleare» commissionato dal Senato a fine anni Settanta 29. Quell’opera di finzione attingeva al sapere scientifico e strategico disponibile per immaginare la realtà e invitare all’azione. Oggi il cinema americano scivola nel nichilismo. Non suggerisce quali comportamenti evitare per scongiurare l’anarchia. Racconta solo che l’America è spacciata. Il risultato è tetanizzante. Non è tragedia, è apocalisse. Ma la tragedia è un monito, l’apocalisse una profezia.

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6. Portata fuori strada dall’ebbrezza della sua missione, mal consigliata da teorie che essa stessa ha voluto per giustificarsi, in questi decenni l’America ha ripetutamente violato le antiche lezioni del buon senso contenute nei classici. Massima contravvenzione: intraprendere guerre senza fine, infinite perché prive di obiettivo. Invece di «inculcare nei cittadini la paura assoluta della guerra» 30, così da convincerli della sua necessità quando ce n’è bisogno, ne ha abusato al punto da convincerli del contrario, rendendoli cioè riluttanti a difendere l’impero e l’ordine. Non stupisce che la pedagogia imperiale non funzioni più, che il moralismo paralizzi le giovani generazioni, che la rabbia interna non sia sfogabile all’esterno. Il venir meno della sensibilità tragica, tanto nella popolazione quanto nella classe dirigente, è un potente fattore della più generale atrofia del pensiero strategico negli Stati Uniti.

Nell’attuale momento di confusione, dal sapere dei classici emerge una contraddizione: l’America deve difendere a tutti i costi l’ordine perché è meglio dell’anarchia, ma l’imposizione dell’ordine, oggetto del contendere coi suoi rivali, può contribuire all’anarchia stessa. Possono gli Stati Uniti cambiare atteggiamento con la stessa classe dirigente? Possono cambiare la classe dirigente senza innescare un terremoto mondiale? Il margine per dividere queste questioni è sempre più stretto. La sfida è trovare il giusto equilibrio tra la riscoperta della paura collettiva e la moderazione delle proprie ambizioni. Il concetto di tragedia sarà anche usato per sostenere tesi opposte, ma addentrarsi in questi dilemmi senza la sua saggezza può essere fatale.

Note:

1. C. Hill, Grand Strategies: Literature, Statecraft, and World Order, New Haven-London 2010, Yale University Press, p. 5.

2. H. Brands, C. Edel, The Lessons of Tragedy: Statecraft and World Order, New Haven-London 2019, Yale University Press, p. 8.

3. Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli.

4. H. Brands, C. Edel, op. cit., pp. 10-18.

5. Ivi, p. 103.

6. Ivi, p. 112.

7. Ivi, p. 116.

8. Ivi, pp. 147-163.

9. R. Kaplan, The Tragic Mind: Fear, Fate, and the Burden of Power, New Haven-London 2023, Yale University Press, p. xii.

10. Ivi, pp. 30-31.

11. Cit. in ivi, p. 36.

12. Ivi, p. 67.

13. Cfr. sulla Cina M. Pottinger, M. Gallagher, «No Substitute for Victory», Foreign Affairs, vol. 103, n. 3, maggio-giugno 2024.

14. R. Kaplan, op. cit., p. 38.

15. Ivi, pp. 41-42.

16. Ivi, p. 5.

17. Ivi, p. 115.

18. W. Zimmermann, First Great Triumph, New York 2002, Farrar, Straus and Giroux.

19. S. Talbott, The Great Experiment: The Story of Ancient Empires, Modern States, and the Quest for a Global Nation, New York 2008, Simon & Schuster.

20. P.H. Nitze, Tension between opposites: Reflections on the practice and theory of politics, New York 1993, Scribner, p. 3.

21. B. Kuklick, Blind Oracles: Intellectuals and War from Kennan to Kissinger, Princeton 2006, Princeton University Press, p. 15.

22. M. Bevir, A History of Political Science, Cambridge 2022, Cambridge University Press.

23. M.W. Doyle, «Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs», Philosophy & Public Affairs, vol. 12, n. 3, estate 1983, pp. 205-231.

24. «A National Security Strategy of Engagement and Enlargement», White House, luglio 1994, p. 18.

25. R. Kaplan, op. cit., p. 11.

26. H. Brands, «The Age of Amorality: Can America Save the Liberal Order Through Illiberal Means?», Foreign Affairs, vol. 103, n. 2, marzo-aprile 2024. Tutte le citazioni del capoverso da questo articolo.

27. È il caso del comunque imperdibile romanzo di S. Markley, Ohio, Torino 2020, Einaudi.

28. Cit. in M. Murphy, «Watch a Sniper Scene From “Civil War”», The New York Times, 12/4/2024.

29. S. Marche, The Next Civil War: Dispatches from the American Future, New York 2022, Avid Reader, p. 5.

30. R. Kaplan, op. cit., p. 71.