“Ancora aspetto a casa mio marito Giovanni. Scaricare la colpa sugli operai è un oltraggio ignobile” - la Repubblica

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“Ancora aspetto a casa mio marito Giovanni. Scaricare la colpa sugli operai è un oltraggio ignobile”

Monica Garofalo

Monica Garofalo

 
Parla Monica Garofalo, vedova di una vittima del lavoro. “Sento insinuare che la colpa è di chi lavora e non usa dispositivi di sicurezza, ma a questi signori vorrei dire di provare a passare un giorno in cantiere e solo dopo parlare”
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«Quando succedono tragedie come queste, la cosa che più mi fa infuriare è il tentativo di scaricare la colpa sugli operai. È semplicemente ignobile». Della strage di Casteldaccia e dei cinque operai morti uno dopo l’altro mentre lavoravano in una vasca dell’impianto di sollevamento Amap in cui mai si sarebbero dovuti calare, Monica Garofalo ha saputo dai media. «Ed è stato immediato tornare a sei mesi e mezzo fa, quando mi hanno chiamata dal cantiere in cui lavorava mio marito».

Operaio anche lui, uscito la mattina per andare a lavorare e morto con la tuta addosso come i cinque di Casteldaccia. Ad uccidere Giovanni Gnoffo, il braccio meccanico di una betonpompa, l’enorme macchinario utilizzato per gettare la colata di cemento necessaria per le fondamenta, che si è spezzato e gli è crollato addosso. «Oggi come allora - dice con rabbia limpida la moglie, Monica Garofalo - sento insinuare che la colpa è di chi lavora e non usa dispositivi di sicurezza, ma a questi signori vorrei dire di provare a passare un giorno in cantiere e solo dopo parlare». Dopo aver capito cosa significhi maneggiare acciaio incandescente d’estate e d’inverno così freddo da bruciare le mani anche attraverso i guanti «che ti devi comprare tu». O quanto siano fastidiose quelle abrasioni che il cemento provoca sulle gambe e da cui la tuta non protegge. O ancora quanto sia umiliante lavorare sotto gli occhi sempre accesi di una telecamera.

I cantieri, mormora, sono questo. «E chi ci lavora vuole tornare a casa vivo, intero. Dubito fortemente che sia stata una loro decisione calarsi in quella vasca». Per chi resta, che lo si lasci intendere è una nuova violenza. Al pari di una notizia che arriva dai media e non da canali formali. Alcuni familiari, di aver perso uno dei loro cari in quella vasca a Casteldaccia lo hanno scoperto così. «So cosa significhi - mormora la donna - io ho visto il corpo di mio marito trentacinque minuti dopo che la sua foto ha iniziato a circolare sui media. A mia figlia di sedici anni non avevo ancora detto nulla, mi ha chiamata piangendo perché aveva visto la notizia on line». Dalle autorità, non era ancora arrivata alcuna comunicazione. Piccole inutili violenze per chi resta e scopre che «ogni giorno diventa una montagna da scalare». Perché il lutto ha la sua burocrazia, in caso di incidente su lavoro ancor più cervellotica, e le famiglie ci si perdono come in un labirinto.

Monica Garofalo ci è passata. Ha imparato sulla propria pelle cosa voglia dire carambolare fra uffici diversi mentre sperimenti sulla propria pelle cosa voglia dire imparare a fare tutto da sola. «Anche andare alla posta diventa più complicato. Quando c’era Giovanni magari io scendevo e iniziavo a fare la fila mentre lui andava a cercare un posto per lasciare la macchina». Dopo cambia tutto e anche le incombenze più semplici diventano problemi. «Quello che prima facevamo in due devo farlo io, con in più la voglia, la necessità e il peso di non farlo pesare sui miei figli». E non è semplice - confida - mentre ancora capita di essere sorpresi dalla sensazione «di alzarsi la mattina e trovarlo in cucina che prepara il caffé o di aspettare che torni a casa». Momenti che pesano come macigni quando la realtà del “mai più” torna a imporsi.

Non è facile da metabolizzare, da realizzare. Anche per questo, dice la moglie di Giovanni Gnoffo, «penso sia necessario fare qualcosa per sostenere le famiglie. In questo Paese si buttano tanti soldi per cose inutili, perché non investire qualcosa per questo?». Non si tratta semplicemente di aiuti economici. Servirebbe personale in grado di assistere i familiari nel disbrigo delle pratiche burocratiche, nell’individuazione di un legale adatto, nel troppo lungo percorso giudiziario. Con la Fillea, spiega, si sta pensando a creare uno strumento. «Vorrei fare la mia parte», dice la donna che ancora lotta per avere giustizia e risposte sulla morte del marito. Servirebbe un aiuto anche psicologico? Forse sì, forse no, di certo è questione molto personale. «Razionalmente so che ne avrei bisogno, ma ancora non ce la faccio - sussurra la donna - Significherebbe accettare che Giovanni non tornerà più mentre io devo andare oltre e non sono ancora pronta»

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