Mad Max: la saga apocalittica ha una regina. Ed è Furiosa - la Repubblica

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Mad Max: la saga apocalittica ha una regina. Ed è Furiosa

Una scena del film Furiosa: A Mad Max Saga, in sala dal 23 maggio
Una scena del film Furiosa: A Mad Max Saga, in sala dal 23 maggio 

Si chiama così il personaggio della saga che Anya Taylor-Joy eredita da Charlize Theron nel prequel in arrivo a Cannes e in sala. Intervista al regista George Miller, che ammette: «In uno scenario post-apocalittico non avrei scampo»

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Fa sempre un certo effetto ricordare che George Miller, il regista della saga furibonda di Mad Max, è anche il papà di Babe, maialino coraggioso e dei pinguini di Happy Feet; ma aspettate a ridere o inarcare sopracciglia, Miller vi potrebbe spiegare che nei rispettivi universi, allegra fattoria o civiltà impazzita che sia, il maialino parlante e il guerriero della strada non sono poi così diversi, sono entrambi magnifici eroi.

Proprio come l’imperatrice Furiosa. L’avevamo conosciuta nel 2015, testa rasata, senza un braccio, in fuga con le cinque mogli del tiranno Immortan Joe, in Mad Max: Fury Road, quarto capitolo della serie, dieci nomination Oscar, venerato come capolavoro irraggiungibile del cinema d’azione, folle, spasmodico, allucinato, semplicemente perfetto. Ora la ritroviamo nel prequel Furiosa: A Mad Max Saga, con Anya Taylor-Joy al posto di Charlize Theron – molto si è già detto sulla scelta, al regista non piaceva l’idea di doverla ringiovanire artificialmente. Ah, e Mad Max questa volta non si vede, «anche se è lì dietro, da qualche parte», assicura Miller in collegamento da Sydney.

È allegro, i capelli sempre più bianchi (l’anno prossimo compie 80 anni), pronto a farsi le ventiquattr’ore di viaggio che lo porteranno a Cannes dove Furiosa passerà il 15 maggio, per poi uscire nelle sale il 23. Sulla Croisette è praticamente un veterano, è stato per tre volte in giuria, due anni fa ci presentò Tremila anni di attesa, dimenticabilissima love story fra una studiosa (Tilda Swinton) e un genio della lampada (Idris Elba). Voleva essere un film sul potere dello storytelling, che è un po’ la sua grande ossessione. Gli piace descrivere anche Mad Max come «una storia da raccontare attorno al falò», un richiamo all’infanzia: figlio di immigrati greci (Miller è l’anglicizzazione del cognome Miliotis), è cresciuto nel Queensland in una casa senza tv ma il sabato mattina si andava al cinemino di quartiere.

Un giorno attorno al falò si racconterà di come un’idea nata un po’ per caso, guardando i prezzi della benzina salire dopo la crisi petrolifera del 1973, immaginando un mondo dove ci si sarebbe scannati per una tanica di carburante, Miller si è inventato una saga post-apocalittica che ha marchiato la cultura pop generando moda, film, fumetti, videogame, fino alle gigantesche macchine-scultura dei Mutoid Waste Company fatte di materiali di scarto, oggi parcheggiate nella comune di Mutonia a Sant’Arcangelo di Romagna.

Con Furiosa è però la prima volta che la saga esce dalla sua classica linea temporale. «Per poter raccontare Fury Road», spiega Miller, «dovevamo sapere come Furiosa fosse arrivata lì, alla Cittadella, capire cosa sono le Terre Desolate, chi sono i signori della guerra, come funziona il mondo di Immortan Joe. Avevamo quindi scritto delle storie che alla fine sono diventate sceneggiature. Il ritmo questa volta è un po’ diverso».

Meno adrenalina?
«A differenza di Fury Road, dove tutto accadeva in due giorni e tre notti, qui l’azione si snoda lungo sedici anni. La narrazione è incentrata su un periodo più lungo, si può dire che la sua sia un’odissea in senso mitologico. Furiosa all’inizio è una bambina di dieci anni, alla fine ne ha circa 26. È stata portata via dalla sua terra da un’orda di motociclisti guidati da Dementus, che è Chris Hemsworth, ma lei ha promesso solennemente a sua madre che troverà la strada per tornare a casa, e passerà la vita a cercare di farlo».

Furiosa è la versione femminista di Max?
«È un eroe in senso classico, poteva essere uomo o donna, ma è la storia che imponeva fosse una guerriera perché in Fury Road portava via le cinque mogli di un tiranno per salvarle. Se fosse stato un maschio, la storia avrebbe avuto tutto un altro significato».

Le ha dato un nome bellissimo.
«Nato per caso. Quando stavamo scrivendo la sceneggiatura di Fury Road, giocando con la parola fury qualcuno si è messo a raccontare che un suo amico aveva una cavalla azzoppata chiamata Furiosa. Quel nome mi si è fissato in testa».

Non oso chiederle da dove arriva Dementus.
«Quando lo vedrete credo sarà tutto più chiaro, Dementus è spietato, è amorale, è il riflesso di un mondo che non conosce altro che la conquista e il saccheggio, e i suoi bikers sono la versione aggiornata delle orde barbariche che avanzano distruggendo. Nel mondo di Mad Max sono tutti racconti allegorici, allo stesso modo in cui il classico western americano è allegorico, o le storie di guerrieri vichinghi, o quelle di samurai giapponesi. Come insegna lo storico Joseph Campbell in quell’opera fondamentale che è L’eroe dai mille volti, non facciamo che raccontarci la stessa storia, in contesti e culture e miti diversi».

A proposito: nessuno è più fragoroso di Doof Warrior, il guerriero cieco che suona una chitarra elettrica sputa-fiamme e spara death metal da un gigantesco autotreno sound system.
«Ma è un’allegoria anche lui. È basato su un personaggio classico delle scene di battaglia: il tamburino, quello che dà il ritmo alle truppe. Solo che qui c’era da far marciare dei camion enormi alimentati da combustibili fossili. Ci voleva qualcosa di molto più rumoroso di un tamburo».

È vero che ha preso ex criminali ed Hell’s Angels come comparse? Una questione di realismo?
«Furiosa è una storia su come le persone sopravvivono in situazioni estreme, in un mondo al collasso, che potrebbe essere il nostro se non cambiamo alcune cose, un mondo dove i comportamenti normali sono praticamente spariti. Durante il casting abbiamo chiesto a ogni attore: cosa pensi che ti succederebbe se il mondo all’improvviso crollasse, se mercoledì prossimo tutto quello che conosci non ci fosse più? Niente reti elettriche o istituzioni; polizia, tribunali, ospedali, tutto sparito. Cosa faresti per sopravvivere?».

Cosa rispondevano?
«Sono venute fuori molte cose interessanti al riguardo. Ma ho scoperto che le persone che avevano vite più difficili erano anche le più acute di fronte a queste domande. È saltato fuori che c’era un gruppo teatrale formato in prigione, qui a Sydney, da gente che una volta uscita di galera ha continuato perché ha trovato una sorta di processo di redenzione nel teatro. Vogliono esibirsi, esprimersi, utilizzare ciò che è successo loro nella vita. Al casting sceglierli è stato quasi automatico. E si è rivelata una buona strategia perché si sono impegnati moltissimo, hanno lavorato duramente, senza mai lamentarsi. E anche il film ne ha tratto beneficio perché c’era una certa autenticità. Hemsworth ha poi fatto una cosa bellissima, per creare un clima di squadra il weekend prima della produzione ha invitato l’intero gruppo a casa sua sulla costa. Hanno trascorso insieme il fine settimana, e questo è stato molto, molto utile».

Se lo chiedessero a lei: mercoledì arriva l’apocalisse e il mondo come lo conoscevi non c’è più, come pensi di sopravvivere? Cosa risponderebbe?
«Beh, temo avrei poche probabilità di sopravvivere. Solo chi ha determinate competenze tecniche può sperare di farcela. E non sto parlando di alta tecnologia, ma di persone che sanno come aggiustare le cose molto rapidamente, persone che possono sopravvivere nella natura selvaggia, in regioni remote».

Da Mad Max qualcosa ha sicuramente imparato.
«Quando ero giovane, essendo cresciuto in una comunità rurale avrei avuto la possibilità di osservare di più, imparare di più, ma non ora. Ora se la caverebbe chi sa guidare la moto, per esempio».

Perché la moto?
«Perché ha bisogno di meno carburante per raggiungere regioni lontane. Ma a parte le mie conoscenze di medicina, perché ho fatto il medico prima di diventare regista, non ho particolari talenti; mi creda, sarei spacciato».

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