Campagnoli da Tiffany 

11 Maggio 2024

Holly Golightly, la protagonista del romanzo Colazione da Tiffany, era nata Lula Mae Barnes in Texas, a più di duemilacinquecento chilometri in linea d’aria da Manhattan. Truman Capote, l’autore del romanzo, era nato a New Orleans, Louisiana, a più di milleottocento chilometri in linea d’aria da Manhattan. Blake Edwards, il regista del film tratto dal romanzo di Capote, era nato a Tulsa, Oklahoma, a circa millenovecento chilometri in linea d’aria da Manhattan. Henry Mancini, l’autore della melodia di Moon River, la canzone che Holly Golightly strimpella sul davanzale del suo appartamento nell’Upper East Side di Manhattan, era nato a Cleveland, in Ohio, seicentocinquanta chilometri in linea d’aria da Manhattan. Johnny Mercer, l’autore del testo di Moon River, era nato a Savannah, in Georgia, millecentocinquanta chilometri in linea d’aria da Manhattan. Franz Planer, il direttore della fotografia del film, era nato a Karlovy Vary, oggi Cechia, a più di seimilacinquecento chilometri in linea d’aria da Manhattan. Audrey Hepburn, l’attrice che impersonò Holly Golightly nel film di Edwards, era nata a Ixelles, in Belgio, a ridosso di Bruxelles, quasi seimila chilometri in linea d’aria da Manhattan. Neppure George Peppard, l’attore che interpretava lo scrittore Paul Varjak, vicino di appartamento di Holly Golightly, era nato nei paraggi: Detroit, Michigan, più di settecento chilometri in linea d’aria da Manhattan.

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Sembrerebbe fatto apposta, ma non c’è un solo newyorchese a dare corpo al film che rappresenta la quintessenza dell’eleganza cosmopolita della New York del dopoguerra (uno c’era, d’accordo, lo sceneggiatore che adattò il romanzo di Capote, George Axelrod, ma è la classica eccezione che conferma la regola). È opportuno rilevare che il romanzo, pubblicato da Capote nel 1958, era ambientato negli anni ’40, mentre il film di Edwards, uscito nelle sale nel 1961, ha sullo sfondo la città di fine anni ’50, inizio anni ‘60. New York, in Colazione da Tiffany, è sempre terreno di conquista per l’outsider di turno. Rispetto agli anni ’20 però l’outsider non è più un immigrato cresciuto nell’East Side di Manhattan e specchiatosi nel gusto cittadino d’inizio secolo, ma un americano venuto grande in provincia, con poca o nessuna esperienza della metropoli e una nozione della modernità quanto meno da rivedere. A rappresentare la nuova eleganza cosmopolita è insomma chiamata una troupe di campagnoli. Il presunto primato mondano, culturale e di stile della città sulla campagna non è certo una sentenza emessa dai newyorchesi, ma a New York, capitale della modernità e della sofisticatezza urbana degli anni ‘20, è possibile che quel dissidio si manifestasse in modo più marcato che non altrove. Si dichiarava allora, negli anni ’20 e negli anni ’30, e si è poi dichiarato lungo buona parte del Novecento grazie all’archetipo del newyorchese che proclama la sua idiosincrasia per la provincia. Chi meglio di Woody Allen, ad esempio, un cittadino di Manhattan riconducibile per gusto, sensibilità e affinità proprio alla New York degli anni ’20, ha saputo somatizzare fino al grottesco quel contrasto? Da un lato il provinciale dipinto come un tanghero, dall’altro il newyorchese che, per dirla con l’Isaac protagonista del film Manhattan dello stesso Woody Allen, “pulsava dei grandi motivi di George Gershwin”.

Quando Holly Goligthly si mette a cantare nelle pagine di Colazione da Tiffany di Truman Capote, lo fa sulle note di Cole Porter e Kurt Weill, ma soprattutto su quelle del musical Oklahoma! Il musical debuttò a Broadway nella primavera del ’43 e Holly Golightly ne intonava le melodie più celebri nell’autunno di quello stesso anno. Ambientato in Oklahoma agli inizi del secolo, il musical racconta la storia d’amore fra un cowboy e una ragazza cresciuta in fattoria, e si rivelò uno dei più longevi successi di Broadway. Oklahoma! seppe restituire, prima ancora che lo spirito dell’epoca, lo spirito del luogo. La lingua e le preoccupazioni che venivano espresse dai protagonisti del musical attraverso le canzoni erano la lingua e le preoccupazioni di cittadini americani che vivevano in Oklahoma, non a New York, Boston o Chicago. A cantare in Oklahoma! era insomma la provincia, non la metropoli.

La pièce Tobacco Road di Jack Kirkland tratta dal romanzo pubblicato da Erskine Caldwell nel 1932 era rimasta in cartellone a Broadway per più di sette anni, dal mese di dicembre del ‘33 fino al maggio del ’41. Dietro il suo successo v’era, prima ancora che una trasformazione nel gusto del pubblico, l’urgenza di capire, da parte di quello stesso pubblico, un paese che era sprofondato in una crisi economica senza precedenti. La spensieratezza e la futilità degli anni ’20 avevano lasciato il posto a preoccupazioni ben più stringenti: lo stato della nazione e se mai quella nazione sarebbe riuscita a garantirsi un futuro. Fra i meriti del romanzo di Erskine Caldwell prima, e della pièce di Jack Kirkland poi, v’era certamente quello di aver esplicitato che la miseria, al di là delle sue conseguenze più ovvie (fame, malattia, morte), poteva degradare l’individuo fino a spogliarlo della sua umanità. Chi sta morendo di fame ha ben altro di cui preoccuparsi che non le conseguenze morali della miseria, ma per chi sta leggendo un libro in poltrona o assistendo a una pièce di teatro a Broadway, quelle conseguenze sono il cuore stesso della questione. Ignoranza e squallore erano tare da cui il New Deal non poteva riscattare. Il problema dei Lester, la famiglia protagonista del romanzo di Caldwell e della pièce di Kirkland, è anzitutto un problema collettivo. È la famiglia, la comunità dei Lester che non sarà possibile riformare. A morir di fame è sempre un singolo individuo, ma se a morire spiritualmente è la comunità, ecco che la questione assume ben altro rilievo.

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Nel 1935 a New York venne pubblicato il romanzo di un giovane scrittore nato e cresciuto a Salinas, in California. Nel romanzo, ambientato sulle colline sopra Monterey, si narra la storia di un gruppo di paisanos la cui unica preoccupazione pare essere tirare sera e bere vino. Sono poveri e sfaccendati, ma rispetto ai Lester descritti da Erskine Caldwell sono portatori di un’umanità che, pur non contribuendo a sollevarli da una condizione di miseria vissuta a tratti come una benedizione, ne fa, a suo modo e quanto meno in potenza, dei modelli etici. Pian della Tortilla di John Steinbeck è il primo successo di uno scrittore capace di investire la dimensione rurale dell’America di una solennità che la New York degli anni ’20 aveva fatto del suo meglio per ignorare e anche, perché no, schernire. Seguirono poi, sempre d’ambientazione rurale, Uomini e topi nel ‘37 e soprattutto Furore nel ‘39. Quell’anno, e sempre a suggello del decennio, nelle sale cinematografiche americane arrivarono due kolossal come Via col vento, ambientato in una piantagione di cotone della Georgia negli anni della Guerra Civile, e Il mago di Oz, ambientato in Kansas o altrimenti nel mondo oltre l’arcobaleno. In quegli stessi anni il compositore Aaron Copland scrisse dei balletti ispirati alla frontiera: Billy the Kid (1938), Rodeo (1942), Appalachian Spring (1944), oltre a delle composizioni sinfoniche come El salon Mexico (1936), ispirato a melodie messicane, e colonne sonore di due adattamenti hollywoodiani di Uomini e topi di Steinbeck (1939) e dell’opera teatrale Our town di Thornton Wilder (1940). Nel 1937 George e Ira Gershwin composero una american folk opera come Porgy & Bess, ambientata in Catfish Road a Charleston, Carolina del Sud. Cole Porter, dal canto suo, si cimentava con canzoni per musical e film hollywoodiani dai titoli esotici ed evocativi: Adios, Argentina (1934; film peraltro mai realizzato), Panama Hattie del 1940, Mississippi Belle (1943) o Mexican Hayride (1944). 

Se con gli anni ’30 letteratura, teatro, cinema e musica presero a registrare l’esistenza della provincia americana, lo stesso accadde anche nell’arte figurativa con l’emersione della cosiddetta “scuola dei regionalisti” che affrescò il continente nordamericano in tutta la sua gloria rurale alla ricerca di un’identità meno effimera, capace di riscattare l’intero paese dalla crisi: Thomas Hart Benton, John Stuart Curry, Marvin Cone, Alexandre Hogue, Grant Wood, Georgia O’Keefe. La Grande Depressione aveva messo in ginocchio l’America e nel farlo ne aveva non solo incrinato la fiducia, ma anche mutato lo sguardo. Quegli anni bui sembravano suggerire all’America che per guadagnarsi un senso di attinenza col territorio non bastavano i grattacieli e la spumeggiante euforia degli anni ’20 (Il Grande Gatsby di Francis S. Fitzgerald fu pubblicato a metà del decennio, nel 1925, l’anno in cui fu pure fondata la rivista The New Yorker, ma soprattutto l’anno in cui New York sfilò a Londra il primato di città più popolosa del pianeta). Il continente andava esplorato anche in profondità, ed era imperativo riformulare il paradigma stesso della modernità, recuperando una condizione pristina. A partire dagli anni ’30 è insomma tutta l’arte americana che si volge verso la provincia e la dimensione rurale alla ricerca di una semplicità perduta. La lingua letteraria e sofisticata di Ira Gershwin e di Lorenz Hart d’un tratto si scontra con i versi e la voce nasale di Woody Guthrie o con la lingua infinitamente più povera dei paisanos di John Steinbeck. 

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Dato fondo all’avventura pionieristica e al mito della frontiera, alla ricerca non più di terre vergini ma di un’anima per la nazione, ci si affida allora allo sguardo di una ragazzina innocente che, dalla staccionata di una fattoria in Kansas, intona il suo canto mirando direttamente al cielo:

Somewhere over the rainbow
Way up high
There’s a land that I heard of
Once in a lullaby

(Da qualche parte sopra l'arcobaleno
Lassù in alto
C'è un paese di cui ho sentito parlare
Una volta in una ninna nanna)

Dal grigiore di un Kansas povero e contadino ecco offrirsi la possibilità di un mondo ultraterreno a colori, idealizzato e reso possibile dal technicolor del reame di Oz. Hollywood e la canzone di scuola newyorchese fecero del loro meglio per registrare quello che fu in realtà un mutamento sociale inaudito, e fatalmente vi riuscirono soltanto in parte, avendo però cura di non prendere troppo sul serio quel bisogno di fieno, pascoli e campi immacolati. I parolieri che fino ad allora avevano magnificato il Ritz e la gloria della metropoli, di fronte a un cambio di prospettiva tanto inatteso (dal grattacielo alla fattoria), si provarono a colonizzare la provincia. Lo fecero con stile, ironia e disincanto, ma per tutta una serie di ragioni (fra cui lo stile, l’ironia e il disincanto) non sarebbero stati in grado di restituire appieno la provincia.

Nel film Colazione da Tiffany, quando Holly Golightly canta, lo fa sulle note di Moon River, non su quelle del musical Oklahoma! La prima volta che la incontriamo è proprio sulla melodia di quella canzone. Un taxi avanza lungo la Quinta Strada di New York e si ferma davanti al numero 727. Siamo poco oltre l’alba. Le strade di Manhattan sono deserte. Dal taxi scende una donna in abito da sera, una collana di perle al collo e un paio di occhiali da sole sul naso. Mentre tutto questo accade, e mentre la donna, dal marciapiede, si avvicina alla vetrina della gioielleria Tiffany, scorre la melodia di Moon River. Il tema è affidato a uno strumento che meglio di ogni altro dà conto della presa della città da parte della provincia: un’armonica a bocca. Non un sassofono, un clarinetto o una tromba come sarebbe probabilmente successo ai tempi di Gershwin, ma un’armonica a bocca. Stando alla caratterizzazione musicale sarebbe più verosimile veder sbucare John Wayne a cavallo o un pistolero in fondo allo stradone di una città del vecchio west, e invece siamo in compagnia di una donna che fin dal suo apparire dichiara come eleganza urbana e disinvoltura non siano di pregiudizio a una colazione da stazione centrale in attesa della coincidenza ferroviaria (bicchiere di cartone, croissant ancora caldo da intingere nel caffè e da divorare in piedi, sulla banchina). Come se nulla fosse. Anzi, come se quella fosse una colazione normale quando abiti a New York e stai per andare a dormire alle prime luci del mattino. Una sequenza che ha fatto epoca.

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L’approdo della campagnola Holly Acuorleggero nella New York di metà degli anni ’40 (fine anni ’50 nel film), va inserito in un processo di presa a carico della metropoli da parte della provincia. Basta con i doppi sensi, gli ammiccamenti e la sordidezza intellettuale. La escort campagnola che fa colazione davanti alla vetrina di Tiffany non prova vergogna per le sue origini provinciali:

Waitin’ ‘round the bend
My huckleberry friend

(Aspettando oltre la curva
Il mio amico dei mirtilli)

Vogliamo ipotizzare che Lorenz Hart, Ira Gershwin o Cole Porter non avrebbero mai scritto dei versi del genere? Chi diamine si sarebbe sognato di cantare di mirtilli negli anni ’20? Cosa siamo, dei bifolchi che vanno a raccogliere bacche al fiume? Nel testo di Moon River non c’è ironia, non c’è ombra di cinismo o di sarcasmo, non c’è dileggio per la provincia.

Nella sua semplicità il testo di Moon River fissa con efficacia lo scontro fra dimensione provinciale e realtà cittadina. Il suo autore, Johnny Mercer, era nato a Savannah, stato della Georgia, profondo sud degli Stati Uniti. Andare a raccogliere mirtilli al fiume per lui era normale, come l’andare a pesca o il falciare un prato in estate. È possibile che molti newyorchesi degli anni ’20 una pianta di mirtilli non l’avessero neppure mai vista, e comunque una locuzione del genere (my huckleberry friend, che come rileva il biografo di Mercer, Philip Furia, presenta anche una gustosa assonanza con Huckleberry Finn, l’eroe picaresco e campagnolo di Mark Twain), specchio di un sentimentalismo sincero ma anche un po’ da sempliciotto, alla maggior parte di quei newyorchesi avrebbe fatto un ben strano effetto. Proprio in virtù delle sue origini provinciali, Johnny Mercer era uno dei pochi parolieri della stagione dei grandi song americani che poteva ambire a rappresentare l’America rurale senza dar l’impressione di giudicarla col tipico distacco urbano dei suoi colleghi.

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È davvero un peccato che Johnny Mercer abbia scritto tutto sommato poco della provincia americana nella lingua della provincia americana. L’avrebbero fatto, in canzone, altri uomini del sud rifacendosi in modo esplicito alla lezione dei parolieri degli anni ’20 e ’30 (due nomi su tutti: Mose Allison e Randy Newman). Fra le sue poche tracce resta quel titolo, Moon River, e l’immagine di una ragazza di campagna diretta al fiume a raccogliere mirtilli, un’immagine che racconta più di Holly Golightly di quanto lei stessa sarebbe probabilmente disposta ad ammettere. Proprio come Mark Twain riandava all’America pre-rivoluzione della sua infanzia, così Holly con Moon River tornava alla sua, di infanzia, proiettandoci come d’incanto in tutt’altro orizzonte morale. Il grande fiume, come scrisse Lionel Trilling riferendosi proprio all’Huckleberry Finn di Mark Twain e richiamandosi ai versi di T.S. Eliot, ha delle implicazioni morali perché si riappropria di una dimensione dimenticata dagli abitanti delle città (dwellers in cities) e dagli adoratori delle macchine (worshippers of the machine). A un certo punto in Colazione da Tiffany Holly è inquadrata sul davanzale della finestra a cantare Moon River. Lo sguardo perso nel vuoto e la voce di un angelo. Lei, che sfoggia indumenti di classe anche sotto le lenzuola, qui invece è colta in mise campagnola: un asciugamano a cingerle la testa, una felpa da niente e un paio di jeans. Eccola qui, la ragazza di provincia. S’accompagna alla canzone con una chitarra acustica. Ricordo che siamo, nel film, nel 1959. Due anni dopo un ragazzo poco più ventenne sarebbe sbarcato a New York da Duluth, stato del Minnesota (altro provinciale in visita), con una chitarra a tracolla e un paio di jeans uguali a quelli indossati da Holly Golightly. Quel ragazzo di nome faceva Robert Allen Zimmerman, era nato nel 1941, l’anno di Chattanooga Choo Choo, il treno che dalla Pennsylvania Station di New York ti porta direttamente nella sperduta provincia di Chattanooga, in Tennessee, e di lì a poco avrebbe scritto una canzone intitolata Blowin’ in the wind, ma questa, come si suol dire, è tutta un’altra storia…

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