Le luci di Partenope | Il Foglio

Eduardo Dalbono, “La leggenda delle sirene” (dett.), Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti (Getty)  

Le luci di Partenope

Francesco Palmieri

La nuova vita della mitica sirena: dal suo corpo prese forma Napoli. Chi la celebra oggi, da Sorrentino al rap

Preso di noia nelle dissolute giornate capresi, Tiberio imperatore chiedeva ai grammatici cosa fossero solite cantare le sirene. Nell’impossibilità di una risposta, qualcuno come Kafka ha persino azzardato che la loro voce consistesse nel silenzio. Crudeli, seduttive e misteriose, più l’esistenza ne è stata consegnata al mito più sono state raffigurate, descritte e nominate. Ce n’è una sola però che si è calata dalla mitologia alla storia collettiva e c’è rimasta, da predatrice a catturata, vergine insidiosa ma prolifica madre, ammansita incantatrice però non dimentica dell’arcaica matrice ferina. È Partenope la nera, che secondo la leggenda arrivò morta sulle sponde della città cui diede nome e forma, perché Napoli si sarebbe modellata sul calco del suo corpo spiaggiato, da Posillipo alle prime alture dell’obliqua topografia urbana.

 

Partenope è un ossimoro: vergine incinta, morta immortale, di origine pagana ma talora camuffata pure sotto le spoglie di una santa cristiana

  
Quest’inoltrata primavera esibisce un nuovo certificato di vitalità nella Storia per la sirena morta nella mitologia. E’ il film di Paolo Sorrentino, Parthenope, in concorso per la Palma d’Oro a Cannes con proiezione in anteprima la sera di martedì 21 maggio: la sirena, in quest’ultima incarnazione, è una donna nata nel 1950 e il film ne racconta la vita, come racconto di una vita femminile è stata la tetralogia letteraria di Elena Ferrante e prima ancora fu, a fine ‘800, la leggenda di Parthenope narrata da Matilde Serao, che ne fece una nobile fanciulla fuggita per coronare l’amore dalla Grecia alle coste della futura Napoli, dove divenne madre di dodici figli. “Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni”, scriveva la Serao mentre in tanti – sulla base di contrastanti fonti storiche – s’affannavano e s’affannano a localizzarne l’ipotetica tomba. Chi sotto la chiesa di San Giovanni Maggiore, chi sotto quella di Sant’Aniello a Caponapoli, indiziate da labili frammenti letterari, iscrizioni marmoree e complicate deduzioni filologiche.

   
Partenope è un ossimoro: vergine incinta, morta immortale, di origine pagana ma talora camuffata pure sotto le spoglie di una santa cristiana dai tratti quasi leggendari come Patrizia, discendente da una stirpe regale dell’oriente mediterraneo e morta in terra napoletana dove assurse a compatrona con san Gennaro e ha dato nome a moltissimi battezzati. Per devozione, Napoli è rigogliosa da secoli di Patrizi e Patrizie. I figli della sirena hanno bisogno del costante rinnovamento di un prodigio per ribadirlo nella Storia: la santa ci è riuscita come o meglio del più noto Gennaro, perché il suo presunto sangue continua a sciogliersi dentro l’ampolla ogni martedì mattina nella chiesa di San Gregorio Armeno al cospetto dei fedeli. E’ il segno che lei c’è anche per chi non crede e tuttavia condivide la stessa identità culturale.

 
Nelle fattezze della sirena originaria, Partenope rinnova la presenza senza miracoli, ma grazie a una ripetuta narrazione artistica diventata quasi seriale negli ultimi anni.
Cinema, televisione, letteratura, arti visive, ovviamente la musica e adesso anche l’esperienza virtuale. Mentre il film di Sorrentino va a Cannes, esce con il suo stesso titolo un videogioco sviluppato da Katabasi Studio in cui un’antropologa, esplorando i meandri della città, cerca di svelarne gli arcani. L’autrice è una giovane psicologa napoletana dal bel nome barocco di Fortuna Imperatore, che sarebbe perfetto per una fiaba di Giambattista Basile, e dallo pseudonimo Axel Fox (che è invece terribilmente figlio dei giorni nostri), già creatrice nel 2022 del videogioco Freud’s Bones, dedicato al fondatore della psicoanalisi.

  

Alimenta il suo culto emotivo anche la sua ricorrente citazione nel paesaggio urbano. Le statue, i murales, le fontane

  
Non si può dire se sia lo spirito della Sirena ad alimentare il suo culto emotivo o se a mantenerlo vivo sia piuttosto la sua ricorrente citazione anche nel paesaggio urbano. E’ stato inaugurato a dicembre scorso, nel quartiere collinare dell’Arenella, un murale gigante di Partenope realizzato dalla street artist italo-spagnola Leticia Mandragora su un palazzo di piazza Francesco Muzii, che effigia sulla coda della sirena blu cobalto gli stemmi dei trenta rioni cittadini come altrettante squame. Sponsor dell’iniziativa la Voiello, antica ditta di Torre Annunziata, che ribadisce la napoletanità del brand anche se da oltre mezzo secolo è proprietà di Barilla. Molti hanno bocciato l’estetica del murale, che non è il primo: la sirena fu dipinta nel 2015 a spese dei residenti al Rione Materdei dall’argentino Francisco Bosoletti, autore pure di una dea Iside ai Quartieri Spagnoli (nei pressi del più famoso murale di Maradona), per la quale s’ispirò alla statua della Pudicizia della Cappella Sansevero. 

   

Volto di donna e ali e zampe d’uccello oppure coda di pesce? In entrambe le rappresentazioni, ricorre la signoria sul canto e l’ostensione dei seni prosperosi

  
Un progetto statuario di Partenope è stato presentato a gennaio scorso dallo scultore Domenico Sepe al Grand Hotel Parker’s e una statua della mitica fondatrice ha trovato già posto alla chiesa di san Giovanni Maggiore, nel centro antico. Autore Lello Esposito, che ha rielaborato per sottrarle agli stereotipi oleografici le icone classiche napoletane come Pulcinella, san Gennaro e il corno apotropaico. Sua anche la Sirena effigiata sulla medaglia celebrativa della Neapolis Marathon del 23 ottobre 2022. Non è l’unico omaggio dello sport a Partenope: fu modellata con sembianze paffute quale mascotte della trentesima Universiade nel 2019.

 
Sarà forse una impressione, però è confermato dai fatti che il richiamo immaginale all’arcaica fondatrice si sia moltiplicato. Che sia una giovinetta amorosa o la creatura soprannaturale che tentò inutilmente Ulisse, Partenope è diventata oggetto di sovrabbondanti citazioni senza suscitare saturazione folkloristica. E’ il mito fatto carne nella Storia ma che torna a farsi mito non appena si tenti di violarlo o assoggettarlo, come una metafora di Napoli da tutti dominata e da nessuno, conquistatrice dei conquistatori, sottomessa e ribelle, seduttiva e spietata, amata, rinnegata e poi riamata dai suoi stessi figli. Giambattista Marino nell’Adone comparò Partenope a due infidi animali, la iena e l’aspide: “Sirena iena, che con falsa voce / e con canto mortale altrui tradisce. / Foco coverto, ch’assecura e coce, / aspe che dorme e ‘l tosco sen nutrisce”. Malgrado ciò, Napoli fu per il poeta “la felice terra che la morta sirena in grembo serra”. Ciascuno dipinge la mamma primordiale come gli viene meglio: romantica e focosa per la Serao, sobria ed evanescente per Jacopo Sannazaro, cantore della città “famosa e nobilissima” che “ancora ritiene il venerando nome de la sepolta giovane” Partenope.


Evocata nell’Arcadia, inscenata nelle opere musicali del Settecento al punto da contagiare anche Händel, che si cimentò in una sua Partenope, la sirena nella rifiorita rappresentazione di questo scorcio del Duemila ha affascinato anche le istituzioni. Nel 2001 lo storico Istituto universitario navale ha mutato il nome in Università Parthenope e ha impresso lei, naturalmente, sul rinnovato logo con fattezze alate, perché c’è una bipartizione iconografica che divide in fazioni e fa discutere i napoletani: se la sirena vada effigiata con busto e volto di donna e ali e zampe d’uccello o invece con la coda di pesce, come è accaduto più spesso dal Medioevo in poi. (Gli inglesi risolsero il problema usando due vocaboli: siren per la classica, mermaid per la versione acquatica). Non è scontato che la prima forma, quella omerica, sia la più antica, perché la mitologica creatura potrebbe avere origine siriaca e ittiforme secondo gli studi citati dall’antropologa Elisabetta Moro nel dovizioso saggio Sirene.

   

Liberato canta la “voce ’e na Sirena / quanno stev’assieme a te”. Poi il brano di Clementino, e pure la serie “Sirene” su Rai 1 nel 2017

  
Comunque la si preferisca, due cose la creatura alata e la caudata vantano entrambe: la signoria sul canto e l’ostensione dei seni prosperosi, sia che si guardi alla statua dell’antica fontana di Spina Corona, in cui Partenope pennuta mitiga il fuoco del Vesuvio con l’acqua sprizzante dalle “zizze”; sia che si ammiri la fanciulla pisciforme della fontana ottocentesca di piazza Sannazaro o della vasca nella Stazione centrale, su cui sono stati incisi i versi di una canzone di Libero Bovio: “’O treno steva ancora int’’a stazione / quanno aggio ‘ntiso ‘e primme manduline”. Melodie d’altri tempi, reminiscenze delle Feste di Piedigrotta del passato? Sì e no, anzi più no che sì. Perché nel 2018 il rapper Liberato celebra ancora la “voce ‘e na Sirena / quanno stev’assieme a te”. E nel 2022 intitola Partenope il brano in cui lei seduce col canto e poi abbandona un ragazzo conosciuto nel chiostro di Santa Chiara (riecco tutti i classici stereotipi). Il videoclip della canzone, con undici milioni di visualizzazioni, rappresenta la giovane sirena infiltrata come una Cenerentola nel ballo a Palazzo Reale per recuperare un anello di cui s’è impossessato il sovrano, che morirà stecchito quando se la porta in camera e ne scopre la natura animale dalla vita in giù. Per gli esegeti è un simbolico aneddoto della nemesi popolare contro il vorace tiranno. E così sia, però da sempre a Napoli ognuno pretende la sirena dalla parte sua, chi tirandola per la coda chi per le ali. Accadde perciò che dopo il fallimento della sommossa di Masaniello del 1647 tal Giulio Cesare Sorrentino, chissà se avo del regista Paolo, scrisse il libretto Partenope pacificata – la partitura s’è smarrita – in cui trionfava lei sui lazzari facinorosi.

 
Tutti i figli, belli e brutti, naturali o adottati, ricchi e poveri ambiscono a essere i preferiti di mamma. Figuriamoci il “re lazzarone” Ferdinando IV di Borbone. Fu festeggiato per i precoci sponsali nel 1767 con l’opera La Partenope di Johann Adolf Hasse su testo di Pietro Metastasio; mezzo secolo dopo, nel 1817, rinominato dopo la restaurazione Ferdinando I, assistette alla cantata Il sogno di Partenope di Johann Simon Mayr con cui riapriva il Teatro San Carlo restaurato anch’esso dopo un incendio. Se non bastassero le vere rappresentazioni, Edward Bulwer Lytton nel romanzo esoterico Zanoni, con cui avrebbe influenzato il movimento teosofico, immaginò il protagonista favorire il successo di uno sfortunato musicista napoletano con il melodramma intitolato La Sirena.

 
Discendendo nuovamente tra l’attualità, accantonati i vetusti Hasse e Mayr per le finezze del rap, la Partenope di Liberato fu preceduta dall’omonimo brano di Clementino, pubblicato nella magica data solstiziale del 21 dicembre 2020. Immaginò anche lui che fosse una ragazza e ne omaggiò la voce (“Nu canto ‘e na sirena / Mmiezz’a tante sotto a ‘stu cielo / Ma nisciuna è cchiù bella / ‘E Partenope stasera”). Tra Liberato e Clementino, tra medaglie commemorative e murales, non va taciuta una serie televisiva: Sirene, che andò in onda su Rai 1 in sei episodi nel 2017, né le varie installazioni temporanee dedicate a questa mamma accattivante riconvertita talvolta in amante.

 
Partenope, sostiene l’antropologa Moro, “non ha mai smesso di essere la figura centrale di un processo culturale incessante”. Eppure tanta necessità di rievocarla oggi forse risponde all’esigenza dei “partenopei” di riaffermare “la loro discendenza clanica” al principio di un nuovo millennio. Perché i napoletani, come disse Pier Paolo Pasolini, sono una “grande tribù” (molto prima di lui, nessuno lo ricorda, l’aveva scritto Herman Melville in un poetico resoconto di viaggio del 1857, notando in uno scugnizzo “the precocity of his precocious tribe”). La tribù della sirena ha ceduto alla modernità, l’ha forse finanche abbracciata, ma per paura di estinzione rinverdisce dinanzi al futuro l’appello a una “discendenza leggendaria, che mescola”, scrive Elisabetta Moro, “mito e storia, false evidenze e vere invenzioni, superfetazioni ed epurazioni, ricombinazioni mitologiche e innesti storiografici. Così la fondatrice diventa anche musa ispiratrice. E la madre dei partenopei si attesta definitivamente come la matrice mitica, dalla quale tutto ha avuto e continua ad avere inizio”.   

 
Resta un dubbio calcistico: che la sirena si sia offesa quando il patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ha scelto il Vesuvio anziché lei per le magliette della stagione post-scudetto. C’è forse l’anatema di Partenope su un’annata da dimenticare? Dubbio “tribale”, o triviale, ma perdonabile per questi figli del Mediterraneo, mare di sirene che “ha innalzato”, secondo Pavel Matvejevic, “monumenti alla fede e alla superstizione, alla grandezza e alla vanità”. Pure l’epica minore degli almanacchi del pallone ci sta.

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