La metamorfosi di Max - la Repubblica

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Il caso Allegri

La metamorfosi di Max

L’allenatore ha vinto la coppa e perso la faccia.
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Il secondo tragico Allegri ha avuto un finale fantozziano, in cui l’allenatore più pagato della Serie A ha dato forma e sostanza al sogno proibito di ogni travet: vinco al Superenalotto, mi licenzio da questo lavoro grigio e me ne vado vomitando rabbia contro colleghi e datore di lavoro sulle note di una certa canzone di Marco Masini. Tutto umanamente comprensibile, se non fosse che ci sono mestieri e stipendi indubbiamente peggiori dell’allenatore della Juventus, che l’uscita di scena (e di testa) è arrivata in diretta televisiva e che portare a casa una Coppa Italia in tre anni non è proprio come indovinare la sestina vincente: al massimo, un 5+1.

Scene da un matrimonio. C’erano due strade per chiudere questa relazione durata dieci anni in tutto, contando anche i due di separazione: un’ultima vittoria o un altro zero alla voce titoli. Allegri ne ha trovata una terza: vincere la coppa e perdere la faccia, sciupando la sua immagine in modo peggiore di quanto avrebbe fatto una sconfitta contro la celebrata Atalanta, che intanto ha lasciato andare un’altra finale ma ha vissuto un day after assai più sereno. Tuttavia è sbagliato pensare solo a una notte di ordinaria follia: Max covava la sua vendetta almeno da quando era stato richiamato al capezzale della Signora, tre anni fa. O forse dal momento in cui lo mandarono via, due anni prima ancora, e lui sibillino alzò l’indice come Fra Cristoforo: verrà un giorno, certo. La prima volta almeno poteva considerarsi vittima del pensiero dominante che chiedeva una svolta estetica per inseguire successi in Europa. Oggi, sull’uscio, è francamente indifendibile.

Il topos letterario del ritorno dell’eroe si accompagna a una sete di rivincita che muta facilmente in ossessione. Non solo Ulisse che stermina i proci, Allegri è stato Dantès: riapparso dal buio del passato, ricoperto d’oro, trasfigurato dal tempo, desideroso di vendicarsi di quanti l’avevano tradito, ciecamente convinto che fosse quella la strada per la felicità. Nessuna pietà. La vittoria più grande, più dei cinque scudetti nei primi cinque anni in bianconero, era stata prendersi i pieni poteri, firmare un nuovo contratto di mostruosa durata, quattro anni, vedersi riconoscere il ruolo di totem, diventare quello che prima non aveva mai voluto essere: l’interprete della Provvidenza, l’uomo forte che pensa a tutto, che ogni cosa risolve, che pesa più dei fuoriclasse in campo, lui che aveva sempre sostenuto il contrario. Solo che nel frattempo le cose sono precipitate, questo potere si è trasformato in condanna e lo ha logorato nella solitudine: mentre intorno a lui tutta la Juventus cambiava, dirigenza, rosa, budget e ambizioni, Allegri si è trovato costretto a recitare più ruoli, inclusi quelli dell’avvocato difensore, del dirigente polemista, dello psicologo e dell’ausiliare al Var, e sarebbe assai ingeneroso non ricordarlo adesso che la sua avventura è arrivata al tramonto.

Ma il primo Allegri aveva una dote straordinaria che oggi ha perduto: la leggerezza. Fu chiamato in piena estate dopo l’addio di Conte, rasserenò un ambiente divorato dallo stress di un allenatore-martello, dimostrò che si poteva vincere senza essere totalizzanti, e pranzare alla finale di Champions anche con la proverbiale e stropicciata banconota da dieci euro. Sì, insomma, che non era il caso di dare troppa importanza al ruolo dell’allenatore e agli schemi: un capolavoro di understatement. Capace di parlare alla pancia, senza proporsi come santone, ricordava che da quando l’uomo inventò la palla c’è una sola cosa che vogliono tutti, sia pure attraverso strade diverse: vincere.

L’ultimo Allegri è invece un protagonista usurato, incapace di stare al passo dell’evoluzione del calcio, intrappolato nella logica bellica dell’uno contro tutti, in grado di contare in una sola sera uno stuolo di nemici che uno come Mourinho ci avrebbe messo un anno intero solo per pensarli. E nella stessa occasione in cui ha stabilito un altro record, arricchendo una bacheca personale che molti suoi colleghi potranno comunque solo invidiare, è riuscito a lasciare un ricordo pessimo, a oscurare la festa attesa da più di mille giorni, mettendo la sua resa dei conti personale davanti a tutto, anche alla gioia collettiva. È come se il club e l’allenatore, due pianeti eternamente allineati nella logica del pragmatismo, avessero scoperto d’improvviso di non poter essere più diversi. Non solo non si amano più, ma neanche si sopportano. Fino a poco tempo fa, sembrava non ci fosse un tecnico più intimamente e filosoficamente juventino di Allegri. Adesso, non potrebbero essere più lontani e distanti: nello stile, nel pensiero.

La sensazione è che il divorzio fra il tecnico livornese e la Juventus non chiuda solo la loro stagione, ma un’intera epoca per il calcio italiano, quella delle panchistar. Gli allenatori carissimi, ingombranti, a cui legarsi mani e piedi, nella buona e nella cattiva sorte. Meglio giovani, che costano di meno e si integrano negli ingranaggi di una società strutturata in cui ogni figura è al suo posto: questo sembrano suggerire le strategie di mercato dei club di Serie A. Forse è per tale ragione che è ancora libero un vincente come Conte, forse è per questo che Mourinho adesso cerca squadra con un’app per delivery, in un riuscito e autoironico spot girato con sua figlia. L’Allegri esuberante e divertente dei primi anni è stato sostituito dalla controfigura cinica e stanca della notte di Coppa Italia, disincantato come un Jep Gambardella. Lui non voleva solo partecipare alla festa della Juventus. Voleva il potere di farla fallire

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