Parole in libertà da un marziano del cantautorato pop. Intervista a Gianni Togni - Articoli - SENTIREASCOLTARE
Gianni Togni

Parole in libertà da un marziano del cantautorato pop. Intervista a Gianni Togni

“Ah sì, Gianni Togni…”. Fermi, vi vedo già pronti a intonare “e guardo il mondo da un oblò…”, l’incipit di quella Luna che al cantautore, nella calda estate del 1980, diede gloria e celebrità dentro e fuori i confini. Oppure ricorderete il ritornello di Semplice, altro centro pieno in classifica che risale al suo prezioso sodalizio artistico con Guido Morra, o ancora Giulia (di cui, nel corso dell’intervista, ci rivela un particolare molto interessante) che proprio quest’anno compie quaranta primavere. Chi scrive ne ricorda con affetto altre due: Attimi, forse il brano che in assoluto meglio esprime lo stato d’animo dei giovani di quei primissimi Ottanta – rifugiatisi nell’amore e nelle piccole cose, spaesati una volta conclusa la fase dell’impegno politico e della controcultura e appena prima dell’avvento degli yuppies – e Chissà se mi ritroverai, della quale esiste una versione in duetto con Loretta Goggi datata 1986. Ciò che però non tutti sanno è che la carriera di Gianni è andata avanti con dischi più ricercati e con musicisti di prim’ordine (da Pino Palladino a Stefano di Battista), con lunghe pause durante le quali ha vissuto e ha accarezzato altre forme d’arte. Prima di Notre Dame de Paris e Romeo e Giulietta di Riccardo Cocciante, prima del Pinocchio targato Pooh, di Pia de’ Tolomei di Gianna Nannini e di Tosca Amore Disperato di Lucio Dalla c’è stato infatti il suo musical Hollywood: Ritratto di un Divo, con la regia d’autore di Giuseppe Patroni Griffi e Massimo Ranieri nel ruolo principale. E mica solo quello…

Troppo spesso incapsulato in un preciso momento storico – durante il quale le sue canzoni hanno raggiunto anche il pubblico spagnolo, australiano e sudamericano – l’artista romano, autore per sé e per altri (negli anni Ottanta e Novanta ha firmato anche per Lena Biolcati, Fiordaliso e Riccardo Fogli), ha in realtà avuto dal 1975 ad oggi una carriera lunga e poliedrica in cui, dopo un momentaneo ritorno in Cgd con Ho bisogno di parlare, ha abbracciato il teatro e il cinema e ha dato vita a un’etichetta indipendente, Acquarello, grazie alla quale pubblica musica quando gli va, spinto solo dal sacro fuoco dell’ispirazione.

A un mese dall’uscita di Edizione Straordinaria, scritto a quattro mani con Alessio Bonomo, tiriamo le somme insieme a Togni (che confessa di essere un nostro affezionato lettore!) e approfondiamo la conoscenza del suo nuovo lavoro in studio, con un focus sugli impegni e sulle passioni, tra cui l’alta fedeltà, che contraddistinguono il suo passato recente.

Gianni Togni, 2024

Gianni, facciamo qualcosa di diverso dal solito: parliamo con te partendo dal tuo nuovo lavoro, Edizione straordinaria, uscito per la tua etichetta Acquarello. Le nuove dieci canzoni nascono prevalentemente dalla lettura di quotidiani, e hai trasformato la cronaca (ma soprattutto interviste, tra cui una a te stesso) in musica e poesia e ti chiediamo a livello di narrazione, di storytelling, com’è stato lavorare con Alessio Bonomo. Come vi siete conosciuti? Che tipo di sinergia si è creata tra di voi?

Come in ogni album anche per Edizione straordinaria sono partito da un’idea generale, nel senso che per me è importante avere il plot – un po’ come, guardando indietro nel tempo, si facevano i dischi con un’idea complessiva già all’inizio, penso ai Genesis, ai King Crimson, tutto quel mondo. Dall’idea generale passo poi alla musica: inizio a comporre a casa, al pianoforte, alla chitarra, dopodiché entro in studio e rendo comunque meno “tecnico” lo stare dentro la sala d’incisione mettendoci arte e voglia di sperimentare.

I miei provini nascono in digitale, e sono cantati in finto inglese; i demo in questo caso sono durati un sacco di tempo perché desideravo che ogni arrangiamento fosse diverso dall’altro, visto che anche i testi trattano ognuno di un argomento differente. Molta ispirazione nasce da interviste a persone, a volte famose e a volte no, o da cose che ho letto e che mi hanno appassionato – la storia del tricheco in Ma che ci faccio qui, la tennista che si ritira a venticinque anni, la storia d’amore tra due persone molto adulte o l’intervista a Roberto Russo dopo la scomparsa di Monica Vitti – e che sui quotidiani, purtroppo, leggo sempre meno.

Ultimamente c’è più pettegolezzo, diciamo la verità… è questa la mia impressione, tant’è che ho finito nel 2023 di mettere da parte gli articoli. Una volta terminati i demo – ma ti assicuro che per essere soddisfatto del risultato ci sono voluti diversi mesi – alcuni amici mi hanno consigliato il nome di Alessio Bonomo perché è completamente diverso da me a livello di poetica. Io volevo un disco molto quotidiano, molto reale, lui è più poetico nelle immagini che dà ed era proprio quello che cercavo. Volevo dare un senso a ogni canzone valorizzandone entrambi i lati – quello più “reale” e quello di fantasia. È stato un lavoro molto lungo, ho cercato di far suonare le parole un po’ come il mio finto inglese e di dare delle emozioni che non fossero “normali” – sarebbe stato più facile scrivere canzoni più “classiche”, ma è una cosa che non fa più parte del mio mondo.

Poi c’è stato tutto il lavoro sulla copertina, e ho inciso tutto in analogico – dopo le demo track vengono i musicisti in studio, io avevo già suonato le tastiere e Max Rosati, proprietario dello studio e mio braccio destro in queste avventure, le chitarre. Marco Siniscalco e Luca Trolli sono la sezione ritmica e importante è stato l’apporto di Aidan Zammit, un altro validissimo musicista che ha suonato l’Hammond e fatto qualche piccolo intervento alle tastiere. I missaggi sono durati molto perché in analogico ci vuole molto più tempo. Dopo siamo passati alle masterizzazioni, diverse per ogni supporto. Una per il vinile, che è a 0 dB, una per il CD che è a +6 dB, una per le piattaforme digitali (almeno a +12 dB): per non sconquassare tutto lavoriamo con compressori diversi, sempre a valvole, stando attenti che resti una dinamica accettabile. Ho fatto anche una quarta masterizzazione per la musicassetta, che necessita di accorgimenti diversi.

La copertina ha una navicella spaziale che un po’ mi ha ricordato quella degli storici dischi degli Electric Light Orchestra di Jeff Lynne. Prima hai accennato ai Genesis e ai King Crimson, ma ti chiedo: dagli anni ’70 ad oggi la critica musicale italiana è stata in grado di riappacificarsi con la nobile tradizione del pop (di casa nostra, ma anche di gruppi come i Bee Gees) oppure è rimasta un po’ di spocchia verso ciò che è “di facile presa”? Come vedi percepito il tuo lavoro?

Secondo me è vero che negli anni Settanta c’era un’onda che ti portava verso determinati ascolti… Poi sai, i dischi allora li dovevi comprare. Andavo nei negozi e guardavo con attenzione le copertine, erano importanti per inquadrare il contenuto del disco ed è per questo che le curo così tanto. L’astronave è un riferimento al brano Un marziano lungo il Tevere, ma ci sono tanti frammenti che riportano ad altre canzoni, nella mia passeggiata in bicicletta ci sono le impalcature dei clochard, abbiamo dato un’immagine generale di tutte le componenti che ci sono nel disco e nei testi. E non solo, c’è anche un booklet con un fumetto…

Ho trovato molto originale l’idea di corredare il disco con il fumetto di Greg, del celebre duo Lillo & Greg, rende Edizione straordinaria un’opera a tutto tondo e non solo un insieme di canzoni…

Con Claudio “Greg” Gregori ho stretto amicizia anni fa per altri motivi. Quando è venuto a casa mia gli ho fatto ascoltare dei provini e parlando insieme abbiamo scoperto di amare entrambi il suono analogico (lui è un grande appassionato di rock’n’roll anni 50-60). Non aveva mai sentito i testi, ma accettò con piacere. L’ho lasciato completamente libero ed è venuta fuori una storia in cui io sarei un “traditore” che registra ancora in analogico su vinile in un mondo in cui imperano rap e trap, e che per questo ha bisogno di una “cura” (una cosa molto alla Arancia Meccanica). Ma non svelo nulla sul finale!

A proposito di vinile e di analogico, è ormai fuori discussione che negli ultimi anni – dopo la sbornia anni 2000 con l’iPod e le copertine dei dischi ridotte a un francobollo – il vinile, dato negli anni Novanta per morto, sia tornato in auge e abbia sempre nuovi appassionati. So che sei anche un musicofilo e audiofilo, acquisti e ascolti parecchi dischi, però ti chiedo: alla luce di alcune riflessioni nate su ottimi canali anche italiani come VinilicaMente, non pensi anche tu che al prezzo così alto richiesto non corrisponda sempre un adeguato controllo di qualità? Penso anche alla recente polemica innescata da Billie Eilish sulle eccessive edizioni in vinile colorato che non sono ecologicamente sostenibili…

Trovo folle che un vinile arrivi a certi prezzi, sono d’accordo. Molti dischi che compro, purtroppo, non hanno un suono all’altezza ma ci sono importanti eccezioni: l’ultimo di Peter Gabriel, per esempio. I/O suona benissimo, è veramente perfetto. Li comparo con il CD perché a me piace studiare le cose… Ecco, una cosa che la critica non fa più oggi è dedicare attenzione alla qualità di un’incisione, cosa che un tempo era in evidenza nelle recensioni (penso a quelle che parlavano dei Pink Floyd). Com’è possibile che una volta, pur con mezzi che non sono evoluti come quelli odierni, si riuscisse a realizzare un bel suono e oggi tanti dischi suonano male in vinile?

Il vero problema è che le poche stamperie sono piene e stracolme di richieste, pensa che volevo far stampare l’album in Germania ma ci sarebbero voluti sei mesi, al che ho pensato “ma io in sei mesi ne faccio un altro!”. Quanto al controllo di qualità, non è solo colpa della masterizzazione, ma di chi stampa: se tu metti male il famoso panetto, se fai una lacca, un acetato che viene messo in un bagno galvanico e continui a usarlo quanto dovresti buttarlo dopo 5000 copie… Ecco, questa è una critica costruttiva che mi sento di fare a chi scrive oggi di musica: tornate a dare attenzione alla qualità del suono, se si sentono bene tutti gli strumenti. Per esempio, una mia prerogativa è che se incido un basso devono sentirsi tutte le note. I Big Thief per esempio li apprezzo molto ma molte loro incisioni sono lo-fi, e un po’ mi dispiace.

Un’altra cosa che purtroppo non si è verificata, col revival del vinile, è il ritorno di interesse verso gli impianti hi-fi ormai scomparsi dalle case vent’anni fa. Addirittura una ricerca americana ha stabilito che una persona su due compra gli LP senza possedere un giradischi…

Ma ci sono altre cose che non mi tornano, tipo i prezzi dei concerti: è vero che è aumentata la benzina, tutto ciò che vuoi, ma insomma… Ovviamente, essendoci pochi stampatori è facile che un po’ se ne approfittino. Certe problematiche non dipendono dall’artista e neppure dall’etichetta; non so dirti di preciso come lavorino le multinazionali perché sono un indipendente che si muove in un certo modo, ho la libertà di scegliere ecc… Quanto al cliente su due senza giradischi, gli LP fondamentalmente in America vengono acquistati da chi li colleziona per la copertina, sempre comunque meglio che vederla su uno smartphone. Una volta in tutte le case c’era un impianto, un po’ come il frigorifero e la lavatrice. Oggi non c’è più spazio. Poi ci sono impianti stereo che costano come un telefonino. Edizione straordinaria è uscito in LP a un prezzo calmierato, e l’ho fatto stampare su vinile a 140 grammi perché, a parità di prezzo, lo trovo meno rumoroso rispetto ai più frequentemente proposti 180.

Ha fatto discutere, in alcune pagine su Facebook, il tuo video-intervento sul Messaggero in cui parli della musica italiana attuale usando l’immagine di una “marmellata di suoni”. Come prevedibile c’è chi ti ha dato ragione e chi, non sapendo che in realtà sei molto attento al panorama musicale odierno, ti ha accusato di essere un “boomer”. Al di là della trap imperante, c’è qualche artista italiano per te meritevole?

Sono sincero, non ascolto molto la musica italiana a parte alcuni artisti, come Iosonouncane, perché nelle produzioni di casa nostra sento sempre che c’è qualcosa che non mi convince. Mi piacerebbe trovare in Italia un gruppo che si muove come i National, oppure Bon Iver che parte dalla chitarra acustica e arriva all’elettronica e fa dei dischi bellissimi, tant’è che considero Justin Vernon uno dei miei miti oggi, o Jonathan Wilson che scrive e incide dischi uno diverso dall’altro, ecco… lì sento questa qualità che è soprattutto musicale. La critica oggi si sofferma molto sui testi, eppure vorrei chiedere a chi ascolta i Sigur Rós in islandese “ma cos’hai, il traduttore simultaneo?”. Neanche li inseriscono nei libretti…

Veniamo ora alla “marmellata” di suoni. Cosa intendo? Se tu ascolti i brani di molti gruppi e artisti italiani, riesci a spiegarmi che tastiere suonano e cosa sta facendo la batteria? No, è tutto finto, schiacciato e senza dinamica nella maggior parte dei casi. In molte canzoni sento un insieme di suoni, ritmiche tutte molto simili; la mia non è un’avversione per il rap, perché se ascolto Kendrick Lamar suona tutto in un altro modo. C’è proprio una cultura che non vedo in tanti emuli in Italia. Usiamo la parte semplice del rap, ma negli Stati Uniti è tutto più complesso, perché c’entrano il rhythm and blues, il free jazz, un certo modo di fare musica. Anche i silenzi…

Ecco, a proposito di silenzi, tra le diverse canzoni che mi hanno colpito nel tuo lavoro c’è Hopper, dedicata al pittore della solitudine americana. Può apparire banale ma ci ricolleghiamo in questi anni di pandemia in cui siamo stati molto soli, e si parla sempre più delle giovani generazioni che si creano un microcosmo su TikTok ed evitano le interazioni nella vita reale con i loro coetanei…

Di Hopper è uscito pure un docu-film! Speravo che la pandemia ci avesse fatto capire che non siamo niente senza gli altri, e invece dopo è successo esattamente il contrario. Ormai sempre meno persone sono disposte ad ascoltare, tutti vogliono dire. Basta solo leggere su un blog qualsiasi o una notiziola chissà dove e si pensa di sapere già tutto di quell’argomento. Abbiamo dato la nostra vita in mano a dei congegni elettronici. Ricordo che una volta da ragazzi ci riunivamo in casa, anche a sentire un disco da chi lo aveva comprato, lo commentavamo… oppure andavamo al bar.

La crescita digitale ci ha permesso di fare cose straordinarie e ben venga, ma mi fa strano vedere gente camminare per Roma fissando costantemente il proprio telefono e perdendosi così il gusto di osservare gli edifici, i monumenti. Non capisci più perché fai il turista. Parlando sempre di Roma, ci sono zone del centro in cui non si vede passare nessuno perché si ammassano tutti nei soliti posti. Questo purtroppo rende l’idea della solitudine. Che non è solo “stare da soli”, è anche non avere un pensiero e non avere la possibilità di vederci altre cose. C’è la solitudine del pensiero. Vedo file chilometriche fuori da certi ristoranti perché in quel momento ne parlano tutti su internet. Ecco, è questa la solitudine. Non c’è più ricerca, la possibilità di uscire dagli schemi. Questo diventa solitudine.

Gianni Togni, 2024

Ciò che colpisce di te è che non ti sei mai adagiato e non hai ceduto a lusinghe alla tv della nostalgia. Hai preferito non vivere di rendita ma di misurarti, primo in Italia con successo, con il musical. Ne hai realizzati ben tre, a partire da Hollywood: Ritratto di un divo con la regia di Patroni Griffi e con Massimo Ranieri… Ti chiedo: come ti sei avvicinato a questa forma artistica tanto complessa, fatta non solo di canzoni ma di scena e di recitazione, e come i musical hanno cambiato il Gianni Togni cantautore? Penso all’emozionante La comparsa nel tuo album Il Bar del Mondo, ma non solo

Ne La comparsa però c’è anche tanto progressive… Direi che tutto è nato dopo Bersaglio mobile, un mio disco del 1988 con musicisti del calibro di Mel Collins e Pino Palladino che però deluse le aspettative della CGD, vendendo “solo” 170 mila copie (coi numeri di oggi sarebbe un successo mondiale). Andai a Londra con la volontà di uscire dalle logiche, e proprio lì mi sono appassionato ai musical. Vi tornavo spesso per vederli, e a un certo punto mi è venuto in mente di realizzarne uno sinfonico; insieme a Guido Morra pensiamo a questa storia su un attore americano del cinema muto, che era molto importante e che era stato il primo ad avere un rapporto amoroso con Greta Garbo (questa era l’unica cosa che si poteva dire all’epoca). Pensa che la storia è stata rubata da un film che ha ricevuto un Oscar, in bianco e nero, con il regista che ha ammesso di aver visto in Italia questo musical… Però quando io l’ho composto non avevamo neanche un copione, perché non eravamo capaci di scriverlo.

Quando finimmo tutte le musiche (non c’erano parti parlate, volevamo fosse tutto cantato) mi venne in mente Massimo Ranieri che in quel momento si era preso una pausa dalla discografia e stava facendo teatro, portava in scena L’isola degli schiavi di Strehler. Tramite un’amica riuscii a incontrarlo a Milano, gli lasciai una cassetta sicuro che non mi avrebbe chiamato mai più, e invece gli piacque molto. Non restava che trovare una produzione: ho bussato a tante porte ma tutti avevano paura di questo musical. Lo portai al Sistina e mi dissero “bisognerebbe mettere un personaggio comico”. “Ma no, non si può fare…” “Lei non sa, arrivano duemila musical e abbiamo richiamato solo lei…”, Grazie, ma io son fatto così! Alla fine abbiamo trovato un produttore indipendente che si è innamorato del progetto, ha chiamato Patroni Griffi per la regia e io ho realizzato tutto con l’orchestra. Non è stata una passeggiata, non avevamo uno studio molto grande e l’orchestra è stata registrata in varie fasi. La compagnia era composta interamente da giovani, che in molti casi hanno portato avanti una carriera lusinghiera.

Hollywood: Ritratto di un divo piacque al direttore del teatro Stabile di Stoccolma, che mi chiamò per realizzarne un altro su Greta Garbo: “Ma come, voi chiamate me?”, ero sorpreso. “Abbiamo avuto diverse esperienze ma penso se che sarai tu a scrivere le musiche avrà molto successo in Svezia”. Ebbene, alla fine in Svezia sono rimasto per due anni. Solo le prove sono durate quattro mesi e mezzo, lì l’autore comanda tutto il teatro dove lavoravano 600 persone, è più importante del regista. Tornavo a Roma solo il venerdì sera per il fine settimana; G.G. stava quasi per approdare in Norvegia in un teatro gemello, ma le scenografie erano talmente complesse che non era possibile smontarle e non potevano uscire.

Quando sono tornato a Roma il Sistina ha chiamato me e Massimo Ranieri per fare Poveri ma belli, io in veste di autore di testi, musiche e arrangiamenti e Massimo alla regia. Avevo firmato un contratto per dodici canzoni, poi Massimo in una riunione serale protrattasi fino a notte ha cancellato molte parti scritte, le ha fatte diventare cantate e di conseguenza da dodici sono diventate ventisei! Scrivevo un testo ogni notte, perché poi la mattina dopo dovevano cantare sul palcoscenico da mezzogiorno fino a sera, mi occupavo dei provini, c’era Massimo per la parte recitata e un’altra persona per la danza. Mi sono dovuto fermare per più di un anno perché ero distrutto. Ora con Guido Morra sto progettando un quarto musical, completamente diverso dagli altri, anche se ormai le produzioni non puntano su musical nuovi ma su opere già esistenti.

In bocca al lupo per il nuovo musical, dunque! È vero che hai anche un romanzo in cantiere?

Ho iniziato a scrivere un romanzo che si svolge tutto in un giorno, come protagonista c’è questo drammaturgo e sì, devo avere il tempo di potermi concentrare solo su quello perché quando scrivi fare più di tre pagine al giorno è difficile. Sta venendo fuori un romanzo abbastanza complesso, e anche in parte autobiografico visto che investo il drammaturgo di tante cose che mi sono successe nella vita. Leggo molto ma i libri li acquisto spesso in digitale, per quanto io riconosca la bellezza della pagina alcuni sono scritti con caratteri così piccoli che diventa tutto troppo faticoso. Uno dei vantaggi dell’iPad è che posso ingrandirli come voglio.

Ci saranno concerti per promuovere Edizione Straordinaria? Hai in mente qualche progetto per festeggiare i tuoi cinquant’anni di carriera nei prossimi mesi?

A me non piace granché festeggiare queste cose, trovo il tutto un po’ retorico ma… sì, se riesco a trovare un management adeguato, perché amo fare solo i teatri, dove mi trovo bene e dove riesco a percepire il calore del pubblico e avere un suono esterno che possa essere bello e che non si disperde… nel corso del prossimo inverno mi piacerebbe esibirmi dal vivo in dodici, quattordici date in teatro. Lo scorso tour è stato rinviato di due anni, a marzo nel 2020 eravamo tutti pronti riuniti e tutto si è bloccato una volta arrivata la pandemia.

Mi piacerebbe portare questo nuovo disco sul palcoscenico. Va preso come un musical, ogni personaggio sale sul palco e racconta la propria storia e tutti i personaggi insieme diventano una compagnia teatrale. Questa era l’idea di fondo del disco, far diventare questi personaggi non solo un giornale, ma un paese. Persone famose ma anche a volte normali, normalissime, che raccontano la vita di tutti i giorni.

Questo già arriva però, a mio avviso, con l’ascolto del nuovo album nel suo complesso. Penso alla malinconia della canzone della signora ultraottantenne che scrive lettere d’amore….

Sono cose di cui nessuno parla mai, ma c’è l’amore tra gli anziani ed è bello dare spazio a queste storie! Ormai è difficile creare un album che abbia un filo logico, che possa rivelarsi dopo averlo ascoltato nel suo insieme. Quando viaggio in treno li vedo, questi ragazzi che vanno al mare d’estate e passano da una canzone all’altra dopo trenta-quaranta secondi, massimo un minuto e mezzo… e ti dirò, anche questo è solitudine. Il non riuscire a mantenere la concentrazione su un brano per più di un minuto. Puoi stare anche in compagnia di altri, ma se non ascolti, non hai la voglia, la gentilezza di essere comprensivo, di avere la voglia di capire, con l’arte, la musica, la pittura, i film, il teatro, sei solo.

Le tue canzoni continuano a vivere anche all’estero. Per noi innamorati è stata più volte oggetto di cover in lingua spagnola, ma se si fa un giro su YouTube si trova anche un cantante di Avellino, Simone Pastore, che riprende Semplice in acustico e chi invece fa i tutorial per spiegare come suonare il basso in Giulia

Ho perso il conto di quante versioni di Per noi innamorati esistono. Tanti anni fa andai a Santo Domingo per una breve vacanza, non mi ero mai abituato al fuso orario, la mattina mi svegliavo prestissimo e aspettavo che aprisse il bar. Fu lì che mi imbattei in una versione di una cantante antecedente a quella di Ricardo Montaner. Ne avevo fatto io stesso una versione spagnola, in Australia ho fatto un tour e versioni in inglese. Anche Giulia è stata riproposta più volte.

Che effetto ti fa vedere che nonostante la tua riservatezza e la tua parsimonia nel frequentare i grandi media, senza contare la tua riluttanza nel riproporre sempre e solo brani del passato (hai una sola antologia ufficiale a un album live realizzato nel 2022, contrariamente a tanti tuoi colleghi che pubblicano raccolte a profusione), è rimasto questo grande affetto per te e le tue hit?

Sicuramente mi fa un grande piacere ed è una grande fortuna. Per questo continuo a fare dischi nuovi, c’è ancora tanta gente che mi segue. I giovani si sono avvicinati a me grazie ai musical: non ci credevo, ma da Feltrinelli dei ragazzi mi hanno riconosciuto e fermato per complimentarsi per Hollywood: Ritratto di un divo!. Per me è un grande premio per quello che ho fatto… Per quanto riguarda Giulia, è vero che basso e pianoforte non sono mica semplici da suonare. Questo perché la ritmica, pensa un po’, era ispirata dai Weather Report. Hai presente Birdland? Ma anche nel nuovo disco, pochi si sono accorti che ci sono parti dispari ne Il marziano lungo il Tevere

Mi fa piacere sapere che ci sono persone che capiscono che le mie canzoni non sono poi così banali. Anche Luna, in fin dei conti, mica era banale… i miei idoli di allora erano i Supertramp, David Bowie, e in quella canzone c’è tutta l’emozione che io vivevo in quei momenti ascoltandoli. Sulla mia presenza in radio e nelle TV, apro una parentesi: oggi, in Rai ma non solo, semplicemente non puoi andare a cantare canzoni nuove. E non riguarda solo me. Le radio non passano i tuoi brani, a parte pochissimi casi, e se hai superato i quarant’anni i grandi network non ti considerano perché gli sponsor sono rivolti a un pubblico giovane. Purtroppo non c’è più, come una volta, la scelta artistica dello speaker, il gusto musicale di chi fa la trasmissione.

Però in Rai qualche timida inversione di tendenza c’è stata, penso a Via dei Matti Numero 0 di Stefano Bollani e Valentina Cenni in cui anche un Baglioni o un Concato potevano cantare un brano dall’ultimo disco. E il giorno dopo li vedevi in classifica tra i più venduti su Amazon nelle ultime ventiquattro ore. Poi certo, è la classica goccia nel mare…

Con un amico avevamo presentato un’idea di programma televisivo, ma tutti ci dissero che era una cosa folle. In pratica potevi cantare solo brani nuovi, com’era Discoring una volta.

C’è qualcosa di molto strano oggi. Ti dicono spesso “io sono apolitico”, ma non è vero. Non si può essere apolitici. La politica c’è in ogni cosa: c’è quella industriale, quella pubblicitaria… già se al supermercato acquisti una marca anziché un’altra stai facendo politica. Quando scegli che la dirigenza in TV si muove in un certo modo, come se il resto non esistesse, sta facendo politica. Una politica antica o che vuole ritornare a un antico che non c’è, anzi, era più moderna la TV di prima!

Secondo te inviterebbero mai in TV in Italia i National o i Wilco? No, eppure è gente che fa numeri quando viene in concerto. La gente accetterebbe volentieri se andassimo per cantare canzoni nuove, ma è un problema di classe dirigenziale retrograda che pensa che l’ascoltatore della tv ha da settant’anni in poi e vuole ascoltare solo quelle canzoni. Ma chi l’ha detto?

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