La magia di Baricco che con Abel riempie di poesia il Carignano a Torino - La Stampa

Alessandro Baricco sale sul palco del Teatro Carignano con lo Stetson in testa, i guanti mezze dita alle mani, i jeans grigio polvere, la maglia sotto la giacca, gli stivaletti. Sembra un pistolero, un pirata, un inventore, uno scrittore, un uomo che assomiglia a Leonard Cohen. Si siede, alle sue spalle ci sono Cesare Picco, Roberto Tarasco e Nicola Tescari, i tre musicisti che hanno dato vita, con lui, e coordinati da Gloria Campaner, ad Abel concerto, lo spettacolo che porta in scena il sound del suo ultimo romanzo, Abel (Feltrinelli). Non è una riduzione teatrale del romanzo, una piéce, un reading, una riscrittura, un adattamento: è, precisamente, la trasformazione delle pagine del romanzo in un’esperienza sonora. È la vita immaginaria di un romanzo (e infatti chiude il Salone Off del Salone del Libro, quest’anno dedicato alla Vita Immaginaria): una vita ulteriore, cioè la stessa vita, però condotta con altri corpi, con mezzi diversi, in cerca d’altro, del suono prima del significato, del tempo prima della storia.

Baricco dice buonasera, prende il suo libro pieno di segnapagine, dice che leggerà da lì e che «Leggere è il modo che gli scrittori hanno di cantare». È la prima volta che un suo spettacolo debutta a Torino.

Quando Abel. Un western metafisico è uscito, Baricco ha raccontato che, lavorando al romanzo, si era reso conto di procedere non per scene, ma per «canti scritti in prosa di un qualche poema perso dentro me stesso».

Sono canti i sette capitoli che legge. Non spiegano la storia, non aiutano il lettore a seguire la trama. Quando, la settimana scorsa, Baricco ha raccontato Abel in concerto a questo giornale, ha detto che, in questo lavoro, non conta la trama, bensì «Connettere un libro a una parte più istintiva e animale mia e della gente. Il cervello deve lavorare al 20 per cento, in modalità risparmio. Ed è una cosa che si può riuscire a far fare, in un’ora e mezza, in un teatro: è il mio obiettivo».

Abel romanzo avrebbe dovuto parlare di pirati. Lo confessa sul palco Baricco e dice ai suoi musicisti: questa non la sapevate neanche voi. Invece, parla di ragazzo che ha sempre sparato e che, a un certo punto, smette. Si chiama Abel, come l’Abele pastore che, nella Bibbia, finisce ammazzato dal fratello agricoltore, Caino (che è un controsenso logico al quale Baricco non manca di dedicare una battuta, e del resto Dio, nella Bibbia, fa una pessima figura).

Abel concerto, invece, è un’opera sull’origine. È la costruzione e ricostruzione di un uomo, l’assemblaggio di un personaggio che diventa vivo dentro e fuori dal tempo, dentro e fuori dalla logica di causa effetto, dentro e fuori la vita, dentro e fuori la morte. Una delle cose che, tra un canto e l’altro, Baricco dice è che il prima e il dopo non contano, non c’è causa e non c’è effetto: il canto di Abel in cui compare la malattia, lo ha scritto quando non si era ancora ammalato.

In questa costruzione e ricostruzione di un uomo, questo quasi trentenne che deve ancora nascere - «un giorno, Abel, nascerai» - perché, lo ha detto ancora Baricco a questo giornale, anche la nascita è un fatto atemporale, non anagrafico, non univoco, non unico, si può quindi non essere nati anche a 27 anni, ecco, in questa costruzione e ricostruzione, Baricco fa una cosa affascinante e chiara, sul palco: cerca altri elementi, altre linee, altri dettagli, altri pezzi per fare di un uomo, un uomo. Come nasce e cresce un essere umano se togliamo il tempo, la città, l’allevamento materno (la madre di Abel va via di casa molto presto, abbandona la famiglia e i figli), gli obiettivi, l’intenzione, il destino?

Che cosa diventa l’essere umano se gli togliamo dalle spalle quello che finora abbiamo creduto che lo rendesse un essere umano? Quali altre possibilità nascono?

Legge Baricco, di Abel, questa parte di canto indimenticabile: «Non lo puoi ancora sapere, ma quello che senti nella tua mano è un labirinto, mi disse. Da giovani se ne intuisce appena il disegno, è già tanto se si capisce che è il tracciato di un labirinto e non una decorazione floreale. L’argento sembra graffiare, e sulla pelle lascia una traccia fredda e affilata. Ma c’è un’età, per tutti, in cui nel palmo della mano accade di sentire – nitido – il tracciato del labirinto, di sentirlo con tale precisione che all’occorrenza, se imprigionati nel suo cuore, sapremmo uscirne, solo disponendo delle informazioni che stringiamo nel pugno. Saprai, allora, che quella è la tua età dell’oro. Da vecchi, per lo più, si torna a sentire il disegno dei fiori, nell’impossibilità incurabile di ritrovare il labirinto». Che succede se a dirci dove siamo sono le informazioni che stringiamo nel pugno e non quelle che raccogliamo dall’esperienza, dalla saggezza degli altri, dalle deduzioni, dall’abitudine?

Che succede se l’uomo si mette in cammino verso un orizzonte che «predica qualcosa che non capisco»?

Alessandro Baricco canta l’uomo nuovo: uno che ha smesso di sparare. E che, allora, può cercare qualcosa di meglio di un obbiettivo. Può desiderare la gratitudine e la consolazione: forse, le uniche due cose che possono aiutarci a dimenticare il fatto che, a un certo punto, ci toccherà morire.

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