L’amore moderno - La Stampa

Cara Maria,
leggo da qualche tempo sulla tua pagina di tante donne (ma anche uomini) che non riescono a essere felici senza un partner, anche se hanno vissuto matrimoni, relazioni infelici.

Mi chiedo come si possa pensare che non ci sia felicità se non in due. La coppia ha un senso quando aggiunge qualcosa, ma spesso invece sappiamo che toglie qualcosa, a iniziare dall’autostima e dalla libertà. Stare con qualcuno porta sempre ad un compromesso, al cedere all’altro/a una parte della propria autonomia, dei propri desideri. E comporta l’ instaurare rapporti di forza: chi comanda e in quali settori della quotidianità. Insomma: chi decide cosa?

Convivere significa condividere, gioie e dolori, felicità e depressione, ricchezza e povertà. Salute e malattia. Come recita la formula matrimoniale. Ma non è sempre facile, e a volte impossibile. Perché all’afflato iniziale, alla passione, sopraggiungono spesso la noia e l’insoddisfazione. Condividere lo spazzolino in bagno, il letto, la lavastoviglie e la lavatrice non è poi così romantico come la cenetta a due e la fuga in hotel di quando si era fidanzati. Diventa durissima.

Uno vuole mettere subito i piatti sporchi nella lavastoviglie, l’altra preferisce aspettare l’indomani. Una è maniaca dell’ordine, l’altro un disordinato compulsivo. Sembrano sciocchezze in confronto a quel grande Moloch che è l’amore passionale, capace di far arrivare alla felicità. Ma non è così, e non ho usato a caso la parola Moloch, una divinità potente che può dare molto ma in cambio chiede un sacrificio.

Ecco anche la convivenza, il due cuori e una capanna, chiedono un sacrificio, enorme: la libertà. Qualche tempo fa una mia amica mi diceva che adesso che è single, dopo decenni di convivenza, la cosa che più le da sollievo è tornare la sera a casa, mettere la chiave nella toppa, girarla, spingere la porta, e sapere che in casa non ci sarà nessuno a chiederle: dove sei stata? Con chi? Perché hai fatto così tardi? La passione e l’amore, si possono vivere a che mantenendo i propri spazi, a iniziare dalla casa.

Credo che un rapporto vissuto da “single”, senza catene istituzionalizzate, abbia più possibilità di successo di una convivenza forzata che per forza di cose diventa spesso un vivere in “cattività”.

Grazie di avermi letta.
Gioietta

Risposta

Cara Gioietta, mi sento di darti ragione, anche se in parte. Perché il tuo ragionamento è perfetto quando si parte dalla fine di una storia. Meno quando si parte dall’inizio, quando è giusto immaginare che tutto sia possibile. Che si mantenga, almeno nel cuore, il sogno, la speranza, l’illusione (perché no). Quando ci si innamora la ragione ne esce sconfitta, quasi sempre almeno. Occorre essere molto, ma molto, razionali per sviscerare tutte considerazioni che tu giustamente fai. E facendolo si perde il senso dell’amore assoluto, quello che un po’ ti acceca, che ti fa volare in una dimensione dove tutto è, ma, soprattutto, sarà possibile. Possiamo rinunciare a questa speranza, o anche solo a una chimera? Non uso il termine utopia perché c’è chi riesce a mantenere l’alchimia giusta o invece a cambiarla, trovando un altro terreno di unione. Perché si sa che è l’intimità il primo collante di una coppia e quando questa scema, disperdendosi nell’abitudine, nell’assuefazione anche, allora nascono le vere incomprensioni, quelle che non possono risolversi a letto, ma anche solo con un bacio, un abbraccio, un avvicinamento dei corpi e non solo della mente. Chi supera questa fase, capendo che la coppia non può basarsi solo sul sesso, e che la vera “intimità” passa dalla testa e dal cuore, allora può ambire a quella vita a due che tanto si sogna e tanto ci delude.

Per gli altri rimane la resistenza in una vita diventata troppo stretta da condividere, o la separazione oppure quella che sembra una terza via: stare insieme in due case separate. Sempre che si possa mantenerle entrambe, naturalmente. Ma c’è chi questa decisione la prende all’inizio, quando due case ci sono già. Amarsi ma da indirizzi separati. Negli Stati Uniti per loro è stato creato l’acronimo Lat, ossia Living apart together, vivere separati ma stare insieme. Possibile? Certo che si, soprattutto però nel secondo giro, quando si è sperimentata la convivenza e non se ne ha nessuna nostalgia. Quando si vuole mantenere il più a lungo possibile l’eccitazione dei primi incontri e non ci si vuole inquinare con le manie e le abitudine dell’altra/o.

Woody Allen e Mia Farrow sono stati i pionieri di questa modalità, anche se non è finita bene in questo caso. Anzi malissimo. Anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre vivevano separati. La sola “casa” in comune è la tomba nella quale sono stati sepolti insieme a Montparnasse (lui morì nel 1980, le lo seguì nel 1986). Ma “prima” hanno condiviso 51 anni senza mai vivere insieme, fregandosene delle convenzioni sociali e anche delle pressioni familiari. Ribellandosi alle regole della buona borghesia da cui entrambi provenivano. Non so se sia questo il modo per far sopravvivere una relazione, ma per loro, come per molti, funziona.

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